martedì 15 giugno 2021

L'Italia non è un paese per giovani

Era il dicembre del 2016 quando l’allora ministro del Lavoro Poletti, di fronte ai dati dei giovani in fuga dall’Italia, affermò: “sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi”. Un’esternazione poco felice, certo, ma che rivelava l’insofferenza dello Stato nei confronti di chi prende la sofferta decisione di abbandonare la propria terra. I numeri, al tempo, parlavano di 100.000 persone ed oggi quei numeri continuano ad aumentare (131.000 nel 2019). La già enorme comunità di italiani all’estero, composta da almeno cinque milioni e mezzo di persone (il 61% dimora nel continente americano), continua ad allargarsi. Un Paese nel Paese, che si contraddistingue per caratteristiche uniche, tra cui risalta l’affermazione dell’italianità, sentimento invece poco sentito da chi a casa ci è rimasto.

Noi che siamo all’estero, non siamo emigrati, nella maggioranza dei casi, per piacere. La nostra è diventata una scelta obbligata di fronte alle deficienze di un Paese che da generazioni chiude le porte ai propri talenti e alla propria forza lavoro per perpetuare fattori poco incisivi per il progresso di una nazione. Siamo un poco come i rompiballe che, alla festa, vengono accompagnati alla porta: accomodatevi fuori e non fate casino. Magari, proprio perché eravamo quelli che protestavano perché le cose si facessero bene, in regola. Intanto, ci siamo trasformati da nazione che emigrava a nazione che accoglie gli immigrati, problematica tanto sentita e tanto profonda che ha fatto dimenticare le sorti di coloro che, nati in Italia, se ne sono andati.

Non solo “cervelli in fuga”. I giornali mettono l’accento sul fenomeno dei “cervelli in fuga”, definizione colorita che causa indignazione e polemica nei lettori. Negli ultimi dieci anni dall’Italia se ne sono andati quasi 200.000 laureati, una cifra importante se si considera che siamo tra i paesi europei con la percentuale più bassa di persone che ottengono il titolo universitario. Eppure, non sono solo i laureati ad andarsene, ma anche quella manovalanza che non trova inserimento nel settore produttivo. Cosa siamo, quindi? Siamo un paese con evidenti e severi problemi strutturali dove l’istruzione, la ricerca, la cultura occupano gli ultimi posti in quanto a investimenti e dove, nelle aziende, si prediligono maestranze asservite. Con gli immigrati, in fondo, si può fare quello che si vuole, evadere le regole, interpretare le leggi, dare stipendi da fame.

Lo zio d’America. La figura dell’italiano all’estero trae in inganno chi a casa ci è rimasto. Si è portati a pensare che vivere in un paese straniero sia sinonimo di bella vita perché ancora  non ci siamo liberati della figura retorica dello “zio d’America”, secondo cui il parente emigrato doveva obbligatoriamente aver fatto fortuna. In fondo, su questa negazione (che è rimozione della cittadinanza e di conseguenza dei diritti), si basa il destino dell’emigrato: te ne sei andato, hai fatto fortuna, cosa vuoi di più? La coscienza della nazione è pulita.


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