martedì 27 luglio 2021

La pizza all'ananas, l'innominabile in tavola

Si chiamava Sotirios Panopoulos, Sam per gli amici, e dall’Arcadia dov’era nato nel 1934 emigrò in Canada quando aveva venti anni. Per qualche anno fece il minatore e poi, assieme ai fratelli mise su un ristorante dove vendeva un po’ di tutto: hamburger, patatine e cipolle fritte, cheesecake, pollo fritto. Nel 1962, l’illuminazione. La pizza era diventata popolare negli Stati Uniti e Sotirios, Sam per gli amici, iniziò a servire in Ontario il classico piatto italiano. Con una differenza, però: al pomodoro, alla mozzarella, aggiunse l’ananas. Chiamò la sua invenzione Hawaiian Pizza e per Sotirios, Sam per gli amici, fu un successo, mentre per gli estimatori della buona cucina e del sapore tradizionale della pizza, cominciò l’agonia.

Una ricetta tutta sbagliata, a cominciare dal nome. L’ananas è originario del Brasile e delle pianure del Sudamerica e alle Hawaii ci fu portato solo all’inizio del XX secolo. Il Costa Rica, invece, ne è il maggior produttore a livello mondiale. Paulista pizza o Costa Rica pizza, quindi, sarebbero nomi più accettabili. Si continua poi da una considerazione di carattere digestivo: la doppia acidità provocata dal pomodoro e dall’ananas è una combinazione mortale per la digestione. Senza tirare in ballo, inoltre, la grande quantità di zucchero presente in una frutta il più delle volte inscatolata e quindi precotta e trattata con sciroppi. In queste precarie condizioni, infine, la consistenza della pizza va a farsi benedire. Alla faccia, insomma, del buon mangiare.

Eppure, mentre in Italia la pizza con l’ananas è vista come un insulto e bandita praticamente da tutte le pizzerie, il resto del mondo confabula contro il nostro simbolo nazionale. In Australia spopola, negli Stati Uniti è tra le più richieste. In Polonia, le sue vendite sono al 21% del totale delle pizze vendute. E attenti a prendere posizione. Quando lo chef Gordon Ramsay cinguettò “Pineapple does not go on top of pizza” ricevette migliaia di messaggi di disappunto. E i sondaggi nel mondo anglosassone, la danno a più del 60% di accettazione. Le celebrità la amano. Justin Bieber, The Rock, Julia Roberts, Paris Hilton e altri nomi famosi al loro pubblico, nel tempo hanno dichiarato il loro amore per la combinazione, diventando veicoli di promozione impressionanti. La pizza hawaiiana, insomma, non è altro che il risultato del prodotto globale, la contaminazione che non sempre accontenta i puristi e crea dei "mostri".

I canadesi sono molto orgogliosi delle origini della hawaiiana e ritengono questa varietà di “pizza”, una gloria nazionale. Quando nel 2017 il presidente islandese esternò il pensiero di buona parte del pianeta Terra (“pineapple should be banned from pizza”), il primo ministro canadese Trudeau rispose su Twitter: "I have a pineapple. I have a pizza. And I stand behind this delicious Southwestern Ontario creation." Da mangiare in Ontario, appunto, ma che in Italia non si deve nemmeno nominare.


martedì 20 luglio 2021

Non toccate l'Islam, sacrificate Dante

É morto Kurt Westergaard, il vignettista che nel 2005 pubblicò sul quotidiano danese Jyllands-Posten le famose vignette su Maometto che scatenarono l’ira del mondo islamico. Westergaard subì un attentato nel 2010 nella propria casa e da allora ha dovuto vivere protetto dalla Polizia in una località sconosciuta. Cito Westergaard perché proprio dalla sua vicenda è iniziata una deriva per quanto riguarda la libertà di espressione nel nostro confronto con le altre culture, quella islamica in particolare. 

Quando, nel 1988 uscì il libro “I versetti satanici” di Salman Rushdie, la fatwa scatenata dall’ayatollah Khomeini ci pareva un provvedimento lontano, non solo per una ragione geografica, ma perché obsoleta, situata in un tempo atavico. Una misura medievale, un episodio isolato, che l’Occidente aveva trattato con sufficienza e che aveva cassato con presuntuosa sufficienza. Molto male, perché il Medioevo invece è tornato ed ha messo piede anche in Occidente. Non solo per le imposizioni volute dall’Islam nei confronti della nostra cultura, ma per lo stesso asservimento a cui si prestano i nostri centri politici e intellettuali. Abbiamo coperto le nostre statue (ricordate la visita a Roma nel 2016 del presidente iraniano Rouhani?) ed ora, per fare un altro esempio, la censura alla Divina Commedia di Dante che i paesi islamici da sempre applicano – perché mentre noi ci vantiamo del nostro divin poeta, ci dimentichiamo che è considerato blasfemo nel mondo musulmano-, è diventata un fatto compiuto anche in Europa. Lo scorso marzo, due nuove versioni della Divina Commedia apparse in Belgio e in Olanda hanno rimosso i passi del Canto XXVIII ritenendoli “inutilmente offensivi”, con la puerile spiegazione che “Maometto subisce un destino crudo ed umiliante solo perché è il precursore dell’Islam”.

Censuriamo quindi e continuiamo a cancellare, vergognandoci della nostra cultura. Westergaard si lamentava che la satira fosse sotto tiro (e il massacro del 2015 nella sede di “Charlie Hebdo” lo ha ribadito in forma raccapricciante), ma non si pentiva di ciò che aveva disegnato e ricordava che, nonostante la sua vita fosse in continuo pericolo, “dobbiamo continuare a difendere la libertà d’espressione”. Una libertà che è costata secoli di lotte, sacrifici e martiri e che si deve tutelare oggi anche dagli editori e i promotori della “cancel culture”, che si presentano come i pericolosi savonarola del nostro tempo. Invece di alimentare il confronto e l’incontro tra le culture, forse perché pervasi da quel sentimento di colpa che ottenebra il cuore dell’Europa radical, ci incamminano verso un congedo dalla Storia, promuovendo il nostro declino culturale.  

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...