mercoledì 30 settembre 2020

Muore Quino, il papà di Mafalda

 


 

Mafalda ha perso il suo papà. Quino, al secolo Joaquín Salvador Lavado, se n’è andato a 88 anni. Originario di Mendoza – in Argentina, ovviamente – aveva iniziato a disegnare con un impiego fisso nel 1954. Mafalda nasce invece nel 1964 sulla rivista “Primera Plana” e per nove anni accompagna un pubblico sempre più vasto con le sue osservazioni mordaci e la sua attitudine screanzata. Mafalda, bambina impertinente, diventa un caso. Dice sempre quello che pensa, cosa non facile nell’Argentina che, tanto per cambiare, vive tempi cupi sotto differenti governi militari. In Italia (primo paese europeo a pubblicarla) la porta Umberto Eco, che chiede a Feltrinelli di comprarne i diritti. Da allora viene tradotta in 26 lingue ed è nominata tra i personaggi argentini più influenti del XX secolo.

Mi ha sempre ossessionato la relazione tra i forti e i deboli, la sensazione di impotenza che provano i poveri nei confronti dei ricchi” aveva detto Quino in una delle sue rare interviste. Mafalda, che riassumeva questo suo pensiero, era una bambina che non capiva –che non voleva capire- il mondo degli adulti, ingiusto, egoista, ipocrita. Ai problemi quotidani dei genitori –le bollette da pagare, la difficoltà di arrivare a fine mese- contrapponeva l’iniquità dei massimi sistemi che legalizzavano le brutture del mondo come la fame, la povertà, la guerra. Attorno a lei, tutto colava conformismo. Perfino i suoi amici, Manolito e Susanita, si muovevano tra aspirazioni convenzionali: una famiglia, fare figli, un buon lavoro. La sua era l’unica voce fuori dal coro e continua ad esserlo ancora oggi, a distanza di mezzo secolo, come a dire che la storia è ciclica, che si ripete, e che il genere umano è prevedibile.

Quino smise di pubblicare le storie di Mafalda nel 1973, un tempo ormai lontano. Dopo 1928 storie, decise di smettere per una ragione semplice: le idee erano finite. Quanto ha scritto e disegnato, però, continua a essere un’eredità viva e pungente.

La pagina ufficiale di Quino:  https://www.quino.com.ar/

martedì 29 settembre 2020

Abraxas: il bene e il male secondo Santana

 

 

Pochi ne hanno parlato, ma tra i tanti anniversari rock, è toccato nei giorni scorsi ad “Abraxas”, di Carlos Santana, compiere 50 anni. Uscito il 22 settembre 1970, il disco è una pietra miliare, la porta d’ingresso delle sonorità latine al rock e al blues, che da lì in poi sono straripate per fondersi nelle maniere più disparate. Per noi, che siamo cresciuti nei ‘70, i solchi di “Abraxas” erano come un passaporto per un mondo, quello latinoamericano, che si identificava con il cuore ingenuo della nostra anima giovane. Gli universi di García Márquez, Manuel Scorza, Alejo Carpentier ruotavano attorno a quei suoni che ne interpretavano la dimensione musicale. Il passaggio da letteratura a musica e viceversa si compiva secondo una naturale trasmigrazione.

Titolo mistico e copertina inconfondibile (“L’Annunciazione”, opera del 1961 dell’artista tedesco Mati Klarwein, lo stesso di “Bitches Brew” di Miles Davis), “Abraxas” ha un respiro lungo, caldo, che si porta addosso l’umidità dei tropici e delle lunghe notti a ridosso dell’equatore. Tra i suoi solchi, è racchiusa una delle più riuscite contaminazioni tra emisferi e mondi dissimili e lontani –a quel tempo- nella distanza: “Black Magic Woman”, scritta nella nebbia londinese da Peter Green, ispirata dai voodoo cajun del profondo della Louisiana e interpretata con spirito da vereda tropical. Il disco regala ascolti indimenticabili, e lo confessa anche un rocker duro e maturo, come Nick Hornby nel suo libro “31 Songs”: “When I first heard Santana's Samba Pa Ti I thought it would be the music to which I lost my virginity”. “Abraxas” si sfoglia come un libro. Nove capitoli, una sola storia, grazie a un suono compatto che va al di là del sound originale di Santana come chitarrista, ma che trova nel congiunto di una band solida la sua qualità principale. La base del latin rock, che si sviluppò successivamente, sta lì, nelle sezione ritmica di Shrieve, Brown, Areas e Carabello, nelle atmosfere di Rolie. A Carlos Santana, a quel punto, non restava che suonare su un piatto servito.

sabato 26 settembre 2020

Banane fritte a pranzo o colazione

Si possono friggere le banane? Certo e, se ben caramellizzate, possono avere un ottimo sapore. A colazione o a pranzo, possono rappresentare una veloce alternativa per un piatto da servire in dieci minuti.

La banana in America latina prende diversi nomi: guineo, cambur, plátano, banano, gualele. In alcuni Paesi la sua coltivazione rappresenta ancora oggi il motore dell’economia: Ecuador (il più grande esportatore al mondo), Guatemala, Colombia, Costa Rica e Honduras sono nell’ordine i principali produttori dell’area latinoamericana. Prodotto polemico, non dimentichiamolo, per la sua diffusione ha scatenato conflitti, repressioni e tragedie ambientali. Ne ho scritto in passato (un capitolo del mio libro “Centroamerica reportages” è dedicato proprio al Nemagon, il pesticida usato dalle bananeras che ha reso sterili migliaia di persone) denunciando drammatiche situazioni che, alla fine, non hanno trovato soddisfazione.

L’albero di banana che cresce al fondo del mio giardino è spontaneo, segue le regole e i tempi della natura. Le banane si raccolgono quando sono mature (come si vede nella foto); quindi si pelano e si tagliano in verticale. A parte scaldiamo l’olio in una padella e, una volta a temperatura, vi immergiamo le fettine delle banane. Bisogna fare attenzione perché si cucinano velocemente e quindi dobbiamo girarle per evitare che si brucino. Quando sono pronte (ossia quando hanno acquisito un bel colore dorato), le adagiamo su un piatto con carta assorbente da cucina per assorbire l’eccesso di olio. 

Una volta finita questa operazione, le banane sono da servire. A colazione o durante i pasti, non fa differenza. Una variante saporita è quella di aggiungere formaggio grattugiato (feta o varianti locali) e lasciarlo sciogliere sopra le banane appena ritirate dalla padella. La ricetta è facilissima e rapida, come dicevo in tutto una decina di minuti o poco più. In futuro vi parlerò di un’altra delizia fritta a base di banana, il patacón.

Un mio articolo sul Nemagon, che si trova ancora sul web, pubblicato originalmente su Peace Reporter: http://www.paxchristi.it/?p=3040

giovedì 24 settembre 2020

Rolling Stone (la rivista): la musica è l'anima del commercio

 


Quando leggo la rivista Rolling Stone (poco, pochissimo in realtà) mi vengono sempre i sudori freddi. Figurarsi poi quando decide, come nei giorni scorsi, di aggiornare la classifica che vuole essere una Bibbia per i fruitori della musica popolare contemporanea: The 500 Greatest Albums of All Time. In epoca di movimenti da tabula rasa, che distruggono monumenti, che distorcono la realtà, che vogliono riscrivere la Storia senza domandarsi nulla, una buona rasoiata la riceve anche la musica. Già l’idea di una classifica è perversa, redigerla diventa poi satanico.

Scorriamo e impallidiamo. Perdono posizioni i mostri sacri del rock, sono scomparsi i master of blues (Muddy Waters langue al posto 483), Beatles e Rolling Stones vengono maltrattati, jazz a spicchi (pochi, John Coltrane nella posizione 66 con “A Love Supreme”, un poco più in giù Miles Davis), metal e progressive languono, Pink Floyd ed Hendrix sono ridicolizzati. Si è fatto spazio, a gomiti aperti, a rap, hip hop, al pop insulso (Shakira, Lady Gaga, Beyonce, facciamo nomi) e alla triste musica del nostro millennio. Certo, io guardo la classifica da cinquantenne morbido, ma che si sforza comunque di trovare in ogni musica una propria bellezza, un valore intrinseco, comunicazione e furore sacro. Mi faccio trasportare dalle mie personali preferenze e da una certa soggettività, ma anche così cerco di dare spazio a ciò che non appartiene al mio vissuto. Eppure, pur con tutto lo sforzo, non riesco a capire come Kanye West possa essere considerato (con 7 album in classifica) letale più di Bowie o degli Zeppelin. 

Rolling Stone si muove seguendo il termine “influente”, ma la lettura che ne viene fuori di questa classifica è di un’operazione commerciale dove devono entrare, comunque, tutti i generi senza importare il reale valore artistico, il momento storico, l’impatto sulle masse. Mi chiedo in cosa possano aver influito Shakira o Daddy Yankee (sì, c’è anche lui), se non a una vertiginosa mercificazione di suoni voluti da un’industria il cui compito è quello di livellarci alla mediocrità. Il messaggio mi pare chiaro. È venuto il momento di riscrivere la storiografia della nostra musica e molti monumenti saranno abbattuti. Più passa il tempo e tutto sarà dimenticato, anche di essere stati felici, un giorno, con la musica.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...