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sabato 13 febbraio 2021

Dal Messico, i tacos primo amore

Il Messico in casa lo si può portare con alcune semplici ma efficaci ricette come quelle del taco. Ci viene in aiuto pure Netflix, che attraverso “Tutto sul taco”, traduzione non proprio azzeccata dall’originale “Las crónicas del taco”, ci spiega quanto la cultura messicana sia fortemente intrecciata a questo piatto.

I cortometraggi della serie –della durata di mezzora in media- sono degli spaccati della realtà messicana. Storia, tradizione, cultura: il taco è il prodotto diretto della tortilla, l’alimento ancestrale che ha dato da mangiare alle differenti popolazioni che abitavano il Messico precolombiano. L’uso primitivo era un poco selvaggio: oltre alla carne di tacchino (il guajolote), nel taco ci finiva anche quella del xoloitzcuintle, una razza di cane di color scuro e privo di pelo che è riuscita a sopravvivere fino ad oggi. Tortilla e taco sono inseparabili e il rito della loro preparazione assomiglia a quello della pasta in Italia. Preparati rigorosamente in casa, occupano attorno al tavolo della cucina, due tre generazioni riunendo per il pranzo l’intera famiglia. Palmeadita, ossia schiacciata con la palma della mano fino a raggiungere la forma ovale, la tortilla ospita il ripieno che, intanto, viene preparato a parte. Pomodoro, carne (di agnello, vitello o maiale), cipolla, formaggio sono gli ingredienti principali di questo ripieno, a cui vanno aggiunti l’olio e qualche foglia di coriandolo, spezia che serve a dare l’inconfondibile sapore dei piatti messicani. Nella pratica, potete preparare il ripieno che più vi garba, la caratteristica del taco è proprio quella di unire la tradizione con l’innovazione e i vostri gusti personali.

La storia del taco, dicevamo, affonda nei secoli, nel Messico olmeca, ma per le prime testimonianze scritte bisogna aspettare gli spagnoli conquistatori. Nel 1520, il cronista Bernal Díaz del Castillo, fonte inesauribile di quei giorni, ci racconta che durante gli ozi di Coyoacán, Hernán Cortés e i suoi si diedero a un gran banchetto dove il protagonista era, appunto, il taco. La tortilla era ripiena della carne di alcuni maialini fatti arrivare apposta da Cuba. A parte alcuni accenni in manuali di cucina della prima metà dell’Ottocento, nella letteratura il taco entra per la prima volta nel romanzo di Manuel Payno, “Los bandidos de Río Frío”. È il 1891 e il libro, scritto e pubblicato in Europa da Payno che viveva a Parigi, fa conoscere agli europei per la prima volta in dettaglio le usanze e i costumi tex mex. 

 

Ai nostri giorni il taco viene riproposto come espressione dello street food. Popolarizzato, ma anche oltraggiato da Taco Bell –che da piccolo ristorantino di San Bernardino dell’est di Los Angeles si trasforma nella poderosa catena di fast food nel giro di pochi anni grazie all’invenzione della shell, la tortilla fritta- parte alla conquista degli Stati Uniti. Ma è nelle case, nell’ambito famigliare che il taco continua a rappresentare la celebrazione del cibo, rinsaldando il vincolo con la sua storia millenaria.

sabato 31 ottobre 2020

Il giorno della Santa Muerte

2 novembre, il giorno dei morti, el día de los muertos e, in Messico, il giorno della Santa Muerte. Una tradizione millenaria che affonda le sue radici nel Messico precoloniale, nei riti dei popoli autoctoni, mexicas e aztecas su tutti e che è arrivata sino a noi in un sincretismo religioso che trabocca oggi nel fanatismo. La Santa Muerte è un culto, è devozione: nella capitale, nella calle Alfarería del quartiere di Tepito, il santuario della “niña blanca” riceve decine di pellegrini che giungono in ginocchio, penitenti, per ricevere una grazia. Quello di Tepito, nel 1997, è stato il primo santuario riconosciuto dalle autorità ed oggi la scena di venerazione si ripete in quasi tutto il Messico. A Veracruz, città dove il culto si è sviluppato in origine, i templi per la devozione si riempiono di fedeli che portano offerte, cibo, fotografie, oggetti, ex voto. Piccole sale, adornate di statue, con un palchetto dove l’immagine da adorare riceve tributo, sorgono anonime tra edifici dimessi e negozi. I fedeli sono anonimi, silenziosi, si muovono con circospezione, quasi come carbonari. Perché il Messico crede alla Santa Muerte? 

 

Condannato, deriso da vari settori, inviso alle sfere del potere, non riconosciuto dalla Chiesa cattolica, nonostante il paradosso, il culto alla morte dà speranza. È la soluzione spirituale alla vita grama, alle ostilità del quotidiano: la Santa Muerte non è demonio, ma un essere di luce, un angelo guardiano che procura protezione e favori a chi la adora. Una protezione speciale a cui accudono anche i narcos, che con la morte ballano con frequenza. Sono loro che ne hanno esportato il culto oltreconfine, in Arizona, New Mexico, California, Texas. Per dare legittimità alle azioni nefaste, che altrimenti si scontrerebbero con il loro credo religioso, magnificano un contatto con l’aldilà che ne giustifichi i loro misfatti. La Santa Muerte capisce, li accoglie.

Rappresentata da uno scheletro coperto da un mantello, la Santa Muerte ricorda a tutti l’ineluttabilità della nostra condizione: tutti, poveri o ricchi, dovremo morire. Meglio, quindi riconoscerne il potere, mentre siamo ancora in vita.  (La foto è tratta da un reportage di Ernesto Álvarez).

martedì 22 settembre 2020

La piccozza di Trotzky

Whatever happened to Leon Trotsky? He got an ice pick, that made his ears burn: con queste parole inizia uno degli hit del punk, la “No More Heroes” degli Stranglers di cui tutti –noi di una certa generazione- ci siamo innamorati a suo tempo. In poche linee, aspre, ficcanti, passano personaggi (Trotsky, Lenin, Elmyr de Hory, Shakespeare, Sancho Panza) e un oggetto in particolare, la piccozza che uccise Trotsky. Che ha una propria storia.

Sono passati da poco ottanta anni dall’omicidio di Trotsky, avvenuto a Coyoacán il 20 agosto 1940. I fatti, in poche parole. Il leader oppositore russo, che solo tre mesi prima era scampato ad un attentato (gli sparano contro 200 volte senza nemmeno ferirlo) riceve la visita del catalano Ramón Mercader, agente stalinista che gli si presenta come un comunista canadese. Il sicario guadagna la fiducia di Trotsky e alla decima visita decide di attuare il suo piano omicida. In un momento di disattenzione, Mercader appioppa al politico una sferzata alla nuca con una piccozza da ghiaccio. Trotsky lotta contro il suo aggressore, riesce a farlo arrestare, ma perirà il giorno seguente in ospedale per le ferite riportate nell’agguato. Mercader, che riuscì a nascondere per 13 anni la sua vera identità, venne rilasciato dalle autorità messicane nel 1960 e riparò a Cuba (nel frattempo divenne anche cognato di Vittorio De Sica).

La piccozza, l’arma del delitto, però scompare. I giornalisti la vedono durante la conferenza stampa, ma poi viene sepolta negli archivi della polizia di Città del Messico. Sei anni dopo viene donata al museo di Criminalistica della capitale messicana e quindi scompare. Per quaranta anni. A trafugarla è stato Alfredo Salas, un agente della polizia segreta che la tiene in casa, come un trofeo. La piccozza diventa una possessione di famiglia e infatti, alla morte dell’agente, la figlia ne diventa la proprietaria. Nel 2005, in difficoltà finanziarie, la signora decide di metterla in vendita. Il governo del Messico la chiede indietro? Neanche per sogno. Così, tra i possibili acquirenti si presenta Esteban Volkov, nipote di Trotsky, poche risorse finanziarie ma tanta buona volontà. Insomma, il potere dei soldi contro i sentimenti. Vincono i soldi, ovviamente e la piccozza viene acquistata da un collezionista statunitense, Keith Melton, scrittore e specialista in operazioni di spionaggio. Boca Ratón, Florida, è la sua attuale dimora.   


Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...