“Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno
ancora nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e
nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in
un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal
governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica,
colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle
dottrine del bizzarro cospiratore...”. L’incipit,
attuale e vigoroso, sembra tratto da un romanzo uscito appena ieri. Invece, stiamo
parlando di un’opera pubblicata nel 1887. L’autore, Emilio De Marchi, è un
milanese che proviene dal movimento della Scapigliatura e forse senza saperlo -anche
se nella prefazione ne parla come un romanzo “d’esperimento”-, ha appena
pubblicato il primo giallo della letteratura italiana. Il libro si intitola “Il
cappello del prete” ed ha un successo incredibile. In un’epoca in cui vendere
mille copie significava aver superato ogni aspettativa, “Il cappello del prete”
di copie ne fa centomila.
A poco più di un ventennio
dall’Unità d’Italia, gli italiani sono ancora in gran parte analfabeti.
Ciononostante c’è una grande voglia di leggere. La diffusione di romanzi e di
giornali permette alla borghesia incipiente di conoscere il mondo a cui la
nuova nazione si affaccia con entusiasmo ed impazienza. In quel contesto gli
alfabeti erano poco più di sei milioni, all’incirca il 25% della popolazione,
per cui il mercato editoriale si deve accontentare di una base di fruitori
abbastanza limitata. Nonostante tutto, escono alcuni best sellers. Alcuni li
ricordiamo ancora oggi, “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi su tutti,
ma ci furono altri casi, di autori che abbiamo oggi dimenticato. Enrichetta
Caracciolo (“Misteri del chiostro napoletano”), Michele Lessona (“Volere è
potere”), Antonio Stoppani (“Il Bel Paese”) -ma questi ultimi due erano testi
divulgativi- sono scrittori estremamente popolari. Assieme a loro si piazza
anche De Marchi con “Il cappello del prete” che, presentato come romanzo
d’appendice, riscuote un successo senza precedenti.
Pubblicato inizialmente a puntate
su due giornali (“L’Italia del Popolo” di Milano e “Il Corriere” di Napoli) “Il
cappello del prete” venne edito su volume nel 1888. De Marchi, che all’epoca
aveva trentasei anni, dice di aver voluto scrivere un libro esplicitamente per
il lettore: “l’arte è cosa divina” commenta
nella prefazione “ma non è male, di tanto
in tanto, scrivere per i lettori”. Lontano dalle atmosfere di “Il piacere”
e de “I Malavoglia”, pubblicati lo stesso anno e destinati al ruolo di pietre
miliari della nostra letteratura ottocentesca,
“Il cappello del prete” è rivolto al pubblico di massa e ricalca, in questo
senso, le atmosfere dei “feuilleton” francesi. L’operazione riesce e il libro
si rivela un vero e proprio caso editoriale.
La storia si svolge a Napoli e, a fianco dei personaggi principali (il barone Santafusca, il prete Cirillo, don Antonio) De Marchi pone un’umanità viva e reale, in una passerella di figure popolane che mostrano al lettore povertà e miserie dell’animo umano. Nel romanzo, però, c’è soprattutto un omicidio e un solo indizio: il cappello del prete, appunto. Da qui prende spunto la trama che serve a De Marchi, che crede nel ruolo educativo della letteratura, a dare un monito ai lettori a non lasciarsi deviare dal vizio. Nonostante le vendite, De Marchi non tornerà più su quello che da quel momento prese a chiamarsi romanzo giudiziario e più tardi, con l’avvento della serie Mondadori, il giallo. Lo scrittore, probabilmente, pur avendo tracciato il cammino, non aveva compreso le enormi potenzialità del genere.
Si può scaricare qui: https://liberliber.it/autori/autori-d/emilio-de-marchi/il-cappello-del-prete/
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