giovedì 16 marzo 2023

Corsi e ricorsi della censura: "Cuore" libro sovversivo

La censura non è nulla di nuovo, ma facciamo bene ad indignarci di fronte a operazioni come quella della Puffin Books nei confronti delle opere di Roald Dahl o della Blossom Books olandese nei riguardi della “Divina Commedia”.  (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/07/non-toccate-lislam-sacrificate-dante.html). Alzare la voce è un dovere morale contro le derive. Si tratta di corsi e ricorsi storici, ispirati da fascismi, nazionalismi, totalitarismi o, nei nostri tempi, anche dalla tirannia imposta dalle corporazioni che mascherano proficue operazioni commerciali con il falso proposito di proteggere le minoranze.


L’esperienza ci insegna che nessun testo è immune dall’imbecillità. Alla censura non scappò nemmeno “Cuore”, un testo amato da generazioni di studenti e all’apparenza innocuo, che però divenne inviso al governo argentino. Il libro di De Amicis venne edito in questo paese sudamericano nel 1887 e andò subito a ruba tra gli emigrati italiani. L’autore era stato in Argentina tre anni prima per tenere una serie di conferenze sul Risorgimento e al suo ritorno in Italia aveva scritto differenti articoli sulla realtà dei compatrioti emigrati. De Amicis era uno dei pochi che narravano le vicende di quella umanità brutta sporca e cattiva, che l’Italia aveva espulso per manifesta incompetenza a poterla impiegare. Ci scrisse un libro straziante (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/06/il-romanzo-poco-epico-dellemigrante.html) e periodicamente tornava a incidere con la sua penna sulla questione. La sua popolarità in Argentina, dove al tempo vivevano già due milioni di italiani, era alle stelle. Avvenne che, grazie al suo successo e con il sistema educativo agli albori, “Cuore” venne adottato nel 1894 come libro di testo delle elementari. Presto, al ministero si resero conto di aver fatto un errore. “Cuore” infatti celebrava lo spirito patriottico italiano, racchiudeva tra le sue righe l’esaltazione del processo d’indipendenza e, in generale, faceva sentire i nostri connazionali orgogliosi della patria lontana. Tutto il contrario di quanto si era prefissato il governo locale, che contava sulla scuola per cementare il sentimento nazionalista della giovane repubblica rioplatense, formata da genti tanto diverse tra loro. La scuola doveva integrare, creare l’argentino del futuro e non lodare lo straniero.

Così, “Cuore” si trasformò da libro scritto per la gioventù in un testo sovversivo. Presto la politica lo additò come nemico della coscienza nazionale argentina. Anche l’amico deputato Zevallos (citato in un passaggio del libro) prese le distanze da De Amicis: l’Argentina rischia di diventare “una nación que no tendrá lengua, ni tradiciones, ni carácter, ni bandera” scrisse. Tra i più acerrimi avversari della sua diffusione ci fu l’ex presidente della Repubblica Domingo Sarmiento, che era anche scrittore e giornalista. Sarmiento diede vita a una campagna per sopprimere la presenza di “Cuore” nelle scuole, libro che additava addirittura come cavallo di Troia per future pretese italiane su porzioni del territorio argentino (e citava come esempio gli inglesi e le Malvinas).

In questo contesto, “Cuore” fu ritirato dalle scuole. Ma non per molto. Ben presto ci si rese conto che non esisteva un testo con le caratteristiche del libro di De Amicis e si pensò di reintrodurlo tramite la formula della censura.

Gli autori Germán Berdiales e Fernando Tognetti diedero vita a una profonda revisione del libro di De Amicis, da cui nacque “Corazón. Traducción y Adaptación para los niños argentinos”. Destinato alle scuole, il nuovo testo stravolse l’originale, con il proposito di fomentare nei bambini il senso di appartenenza alla nazione che, in moltissimi casi, li stava accogliendo per farne degli argentini a tutti gli effetti. Secondo la tesi presentata nell’introduzione, “Cuore” originale era sì un’opera ammirevole, ma non consona alla sensibilità dei bimbi argentini. Berdiales e Tognetti mantengono inalterata la struttura del romanzo, ma lo rielaborano al gusto locale, a cominciare dal nome dei protagonisti: Enrico diventa Enrique, Franti è Franco, Coretti Correa, Robetti Roberts, in una libera traduzione che vuole garantire il multiculturalismo della società argentina. Gli avvenimenti storici italiani vengono mutati a favore di quelli argentini: non si commemora Vittorio Emanuele II, ma il generale Belgrano; Garibaldi scompare a favore di San Martín, l’eroe dell’indipendenza dalla Spagna. Non solo. I modelli dei giovani eroi, la cui origine geografica era servita a De Amicis a tracciare lo spirito patriottistico che pervadeva la nuova generazione italiana dalle Alpi alla Sicilia, sono modificati: il piccolo scrivano fiorentino diventa el pequeño copista rosarino, la piccola vedetta lombarda muta nel pequeño observador tucumano, il tamburino sardo si trasforma nel tamborcito salteño. 

L’opera di Berdiales e Tognetti non fu l’unico tentativo di sostituire l’impianto originale di “Cuore”. L’insegnante Carlota Garrido De La Peña lo aveva già fatto nel 1913 con “Corazón argentino”, che venne utilizzato come libro di testo nelle scuole elementari argentine ed ebbe sei riedizioni. La censura durò fino alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo quando, ormai stabilizzato il processo nazionalista, gli argentini ritennero di restituire “Cuore” alla sua versione originale, con tante scuse a De Amicis e a quanti avevano creduto che il piccolo patriota padovano fosse invece un ragazzino di San Luís.

Su tutta la vicenda, lo studioso Giovanni Albertocchi dell’università di Girona, ha dedicato un esauriente lavoro sui Quaderns d’Italià (26, 2021).

giovedì 9 marzo 2023

ll congiuntivo dell'ultimo millennio

L’italiano è in terapia intensiva, lo sappiamo da un pezzo. Abbiamo seppellito il terzo periodo ipotetico, abbiamo eretto il che polivalente a soluzione grammaticale assoluta e riempito la nostra lingua di vocaboli anglofoni. È giusto che la lingua sia in movimento, ma si ha la sensazione che invece di progredire l’italiano sembra vivere il fenomeno contrario, quello della regressione. Da decenni si parla, poi, della malattia del congiuntivo, un malato che sembra sempre sul punto di tirare le cuoia. Già nel 1984, quasi quaranta anni fa, il linguista e scrittore Cesare Marchi intitolava un suo polemico articolo “La morte del congiuntivo”, in cui dava la colpa del decesso ai mass media, colpevoli di impoverire la lingua e di afferrarsi sempre di più alle espressioni esterofile.

Il congiuntivo, però, non è morto e, seppure con difficoltà, continua a sopravvivere. Alberga nelle anime pure, quelle che in un’epoca di certezze, esprimono con riguardo il proprio punto di vista, dubitano e desiderano. Sentimenti chiari, che, dando un’occhiata ai social network non si trovano più nella grande maggioranza degli italiani. Le persone non hanno remore, ciò che esprimono sono asserzioni, affermazioni che non ammettono repliche. Tutti sanno tutto, per cui se non ho dubbi o non metto in moto il cervello, non ho bisogno di usare il congiuntivo. La crisi, più che linguistica, è quella di una società che è incapace di mettersi in gioco e quindi di esporre un pensiero critico che è relativo e non verità assoluta. Basta seguire i commenti su qualsiasi punto d’incontro virtuale. Il tempo verbale padrone è l’imperativo, signore supremo del vituperio. Le nostre opinioni sono categoriche su ogni argomento e non ammettiamo obiezioni.

Eppure, avremmo bisogno di obiettare, requisito necessario per aprirci al confronto. Il congiuntivo è il modo della riflessione, è il tempo verbale che ci mette in relazione e ci fa comprendere il mondo che ci circonda. È l’immagine della nostra consapevolezza, della nostra capacità di elevarci come esseri in grado di esprimere pensieri, di provare emozioni e di esternare i sentimenti. Umberto Eco affermava che il modo indicativo si riferisce al mondo reale, mentre il congiuntivo si riferisce a un mondo possibile. Qui sta tutta la bellezza del suo uso. Il territorio dove si muove il congiuntivo è il mondo delle nostre speranze, dei desideri e anche dei nostri timori, della nostra fragilità di esseri finiti con ansia di conoscenza. Argomenti questi che si situano nel mondo della discussione e della conversazione, della nostra capacità di comunicare con le altre persone.

Non solo. La lingua è potere. Una volta si accusava il congiuntivo di essere discriminante. Chi lo usava, era perché aveva fatto le scuole migliori e passava immediatamente ad essere consapevole del proprio ruolo all’interno della classe dirigente (la famosa frase di don Milani “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”). La breccia poteva essere colmata con lo studio, circostanza che rimane valida ancora oggi, quello studio che possa portare l’italiano medio oltre le 3000 parole che usa per esprimersi (parola di Tullio De Mauro). La lingua aumenta il livello delle competenze, scava nel profondo. Sul lavoro, apre opportunità, in politica argina il populismo. Per l’individuo, apre frontiere. Abbiamo la possibilità di fare la differenza, sta a noi averne o no l’intenzione.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...