martedì 24 ottobre 2023

Cinquanta anni fa, l'Austerity

 


Era l’autunno di cinquanta anni fa quando il telegiornale diede la notizia che la domenica si sarebbe andati a piedi. Macchine, motorini, autoarticolati sarebbero rimasti fermi. La ragione? La crisi energetica. Spiegato un po’ meglio, i paesi arabi produttori di petrolio decisero di ricorrere all’embargo verso l’Occidente come ritorsione su quanto successo nella guerra del Kippur. Le operazioni militari si erano esaurite il 25 ottobre 1973, ma gli italiani si trovarono sul groppone l’ingombrante pacchetto di drastiche misure un mese e mezzo dopo.

Così, il 2 dicembre 1973 ci dissero che dovevamo andare a piedi. Era la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che succedeva una cosa simile, un provvedimento sconosciuto alle entusiaste generazioni nate negli anni Cinquanta e Sessanta. E non solo dovemmo andare a piedi, ma anche sopportare la chiusura anticipata di bar, negozi e cinema; stare quasi al buio, visto che l’illuminazione delle città venne ridotta del 40%; pagare di più la benzina e tutti i suoi derivati. La pena? Multe salatissime che andavano dalle centomila lire al milione di lire, oltre al sequestro immediato della vettura.

Venne subito coniato (meglio detto, scopiazzato) un vocabolo per quel contesto, inglese ovviamente: austerity. I britannici l’avevano usato per indicare le rigide misure innescate nel secondo Dopoguerra per salvare la loro economia, noi lo adottammo per non sentirci inferiori agli abitanti d’Albione e, soprattutto, per affermarci nel contesto internazionale. L’austerity definì un cambio culturale. Al momento, neanche ce ne accorgemmo, ma il divieto di circolare spinse milioni di italiani a riappropriarsi della città. Si rispolverarono le biciclette soprattutto, ma non solo: pattinatori, maratoneti, camminatori, podisti, semplici pedoni si appropriarono di quegli spazi che erano stati intasati per anni dalle automobili e avevano reso l’aria irrespirabile e i centri storici invivibili. Quelle domeniche anticiparono il recupero del tessuto urbano che sarebbe diventato processo inalienabile nel decennio successivo.

Al momento, non eravamo di quell’avviso. Non avevamo il dono della chiaroveggenza e sentivamo che il governo, con quel provvedimento, aveva tolto alcuni diritti sacrosanti all’italico bel vivere: le gite fuori porta, i pranzi in trattoria all’aperto, i pic nic sui prati e le partite di calcio improvvisate sui campetti di provincia divennero attività interdette.  Riversarsi in città divenne quindi uno sfogo naturale, ma anche una specie di vendetta. Il pallone invase le piazze e le piazzette, i bar si mutarono in trattorie e misero i loro tavolini nel mezzo di viali e corsi, le famiglie stesero le tovaglie sulle aiole dove consumare panini e insalate. In quel furore creativo anche il presidente della Repubblica, l’ineffabile Giovanni Leone, trovò la maniera di ergersi a primo degli italiani in quanto a fantasia, recuperando dalle rimesse del Quirinale una carrozza a cavalli che usò per partecipare alla cerimonia dell’Immacolata Concezione. Andò avanti fino all’aprile 1974, quando il provvedimento venne sostituito da quello delle targhe alterne e quindi le misure furono abrogate definitivamente nel giugno seguente. Le città, però, a partire da quel momento non sarebbero state più le stesse. 


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