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mercoledì 18 novembre 2020

La genesi della manticora: i 50 anni di Emerson, Lake & Palmer

 

Tra gli ultimi anniversari musicali dell’anno – quelli pesanti, che segnano il passo del mezzo secolo- c’è la ricorrenza dell’uscita, il 20 novembre del 1970, del primo album del trio Emerson, Lake & Palmer. Pur non essendo mai stato un grande fan del genere, l’esperimento di fondere il classico con il profano (come era vista all’epoca l’operazione di arricchire il rock attingendo dal repertorio della musica classica) va considerato come coraggioso e, in un certo senso, temerario. Lake e Palmer avevano abbandonato le tranquille acque di un pacifico possibile avvenire (il primo con i King Crimson, il secondo con gli Atomic Rooster) per seguire il progetto, già iniziato con i Nice, di Keith Emerson: contaminazione, espressione, creazione di una via classica del rock. Al tempo la critica definiva Emerson “l’Hendrix delle tastiere” e perché no? In fondo, il tastierista fungeva da orchestra, da solista, da compositore e aveva introdotto nell’ambiente progressivo il moog, il clavinet, l’hammond. Pura alchimia, per quel tempo e come alchimia veniva spesso trattata. John Peel ebbe a dire, all’indomani del debutto a Wight del trio la famosa battuta: “uno spreco di talento ed elettricità”.

Sul talento, non ci piove. Keith Emerson non aveva mai compiuto studi classici, non aveva mai studiato dentro le mura del conservatorio. Autodidatta all’inizio, poi a lezione privata da una pianista dall’anonimo cognome di Smith, imbottisce le sue composizioni originali con estratti da Bartok, Janacek, Ginastera, Bach, Copland, tanto per citare alcuni. La band addirittura reinterpreta la suite “I quadri da un’esposizione” di Mussorgsky, dedicandole un disco completo, operazione fino ad allora mai tentata e ostacolata a lungo dalla casa discografica. La scommessa era: fino a dove poteva spingersi la musica rock?. Per farlo, gli EL&P scomodavano la musica colta, quella classica per intenderci, fondendo fughe, toccate, rondò e bolero con i quattro quarti e i ritmi serrati del rock. Il primo album omonimo è il perfetto biglietto da visita sin dai primi solchi. “The Barbarian”, infatti, è una trasposizione di “Allegro barbaro” di Bela Bartok, ma le citazioni si susseguono per tutta la durata del disco, alternate alla vena compositiva di Greg Lake che, con “Take a Pebble” e l’ormai leggendaria “Lucky Man”, danno a “Emerson, Lake & Palmer” ritmo narrativo e tempi perfetti. Siamo lontani –e per fortuna- dalla monumentalità di “Tarkus” e “Brain Salade Surgery”. Qui, le idee vengono esposte con garbo, non si cade nel barocco e nella quantità estrema dei dettagli che rappresenteranno il precipizio su cui cadranno, pochi anni dopo, quasi tutti i grandi nomi del prog. Aneddoto: chi era ragazzino a quei tempi, come me, ricorderà la parte finale di “Tank” come sigla della trasmissione “Stasera G7”, che contribuì a far conoscere il gruppo in Italia.

Non poteva durare molto. La parabola degli EL&P si protrae per quattro-cinque anni, con sei album, di cui due dal vivo. Il virtuosismo divenne presto ripetizione fine a se stessa, fino a bruciare ogni risorsa della band. D’altronde, non era facile restare artisticamente a galla negli anni Sessanta e Settanta che consumavano con frequenza serrata mode, esperimenti e passioni pure. EL&P si spegne con una sciagurata svolta commerciale e come l’eroe di “Lucky Man”: “no money could save him, so he laid down and he died”.

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