sabato 25 novembre 2023

Le enciclopedie a fascicoli, il Google di un tempo

Quando non c’era Google, c’erano le enciclopedie. Ingombranti, solenni, forgiate a monoblocchi. Non c’era appartamento dove si entrasse che nella libreria, spesso modesta e con titoli a volte improbabili, non facessero bella mostra i volumi di un’enciclopedia.  

Era uno degli aspetti del miracolo economico. C’era ansia di imparare, di non farsi trovare impreparati. La cultura aveva un peso in tutti i sensi, peso morale e peso fisico. Le enciclopedie si acquistavano a rate, oppure in fascicoli in edicola. I loro nomi li ricordo ancora: “Conoscere”, “L’enciclopedia della donna”, “Vedere e sapere”, “Universo”, “L’enciclopedia Utet”, “Il Milione”. Stavano lì, a fare bella mostra di sè, raccolte pazientemente settimana dopo settimana e poi portate a rilegare dalla ieratica figura, ormai scomparsa, del rilegatore. Questo sì: bisognava avere costanza e tenacia, perché per completare un’opera bisognava attendere anni. Era il prezzo da pagare per ostentare la cultura, traguardo ambito da chi fruiva i traguardi del boom economico. “In comode cento uscite settimanali” recitavano le pubblicità (le réclame, come si diceva al tempo), periodo di tempo oggi inimmaginabile in quest’epoca dove si consuma tutto all’istante. “Il Milione”, enciclopedia geografica edita dalla De Agostini, constava di 312 fascicoli, equivalenti a sei anni di appuntamenti settimanali in edicola, diecimila pagine suddivise in quindici volumi. E di quei tempi sorprendono i numeri: la media era di centomila fascicoli venduti a settimana per ogni singola edizione. “Conoscere”, edita dalla Fratelli Fabbri Editori, tra le prime pubblicazioni ad essere presentate (apparve nel 1958), vendette seicento milioni di dispense.

L’enciclopedia non era solo territorio per gli adulti. Per i bambini ebbe infatti un grande successo “I Quindici” che apparve per la prima volta nel 1964 e la cui pubblicazione durò almeno fino alla fine del decennio successivo. Si trattava, appunto, di quindici volumi tematici: veniva venduta porta a porta da agguerriti rappresentanti e poi, firmato il contratto, si pagava a rate. “I Quindici” erano un’elementare digressione su vari argomenti (la natura, gli animali, l’arte) che apriva ai bambini il mondo post bellico che sarebbe stato dominato dalla tecnica e dalla scienza.

Il piazzista vendeva sapere, ma soprattutto vendeva progresso. La presenza di un’enciclopedia in casa aveva lo stesso valore della macchina sotto casa e della lavatrice nel bagno. Erano tutti simboli dell’affrancamento dalle ataviche condizioni di sottosviluppo e povertà del nostro contadinato emigrato in città. Poco importava che venissero consultate in rare occasioni; bastava la loro presenza a sancire l’avvenuta trasmutazione. Il venditore non veniva perció considerato un rompiscatole, ma piuttosto l’intermediario verso un universo di sapere.

Con il tempo e le innovazioni tecnologiche, le enciclopedie sono state traslocate alle seconde case o fatte scomparire nelle cantine. Qualche esemplare resiste come un avanzo d’altra epoca, cibo per collezionisti. E ogni volta a sfogliarne una copia, sembra di entrare in uno di quei salotti delle case popolari che odoravano a minestra e a cera per pavimenti, con la 600 sotto casa e la Zoppas in bagno.

martedì 24 ottobre 2023

Cinquanta anni fa, l'Austerity

 


Era l’autunno di cinquanta anni fa quando il telegiornale diede la notizia che la domenica si sarebbe andati a piedi. Macchine, motorini, autoarticolati sarebbero rimasti fermi. La ragione? La crisi energetica. Spiegato un po’ meglio, i paesi arabi produttori di petrolio decisero di ricorrere all’embargo verso l’Occidente come ritorsione su quanto successo nella guerra del Kippur. Le operazioni militari si erano esaurite il 25 ottobre 1973, ma gli italiani si trovarono sul groppone l’ingombrante pacchetto di drastiche misure un mese e mezzo dopo.

Così, il 2 dicembre 1973 ci dissero che dovevamo andare a piedi. Era la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che succedeva una cosa simile, un provvedimento sconosciuto alle entusiaste generazioni nate negli anni Cinquanta e Sessanta. E non solo dovemmo andare a piedi, ma anche sopportare la chiusura anticipata di bar, negozi e cinema; stare quasi al buio, visto che l’illuminazione delle città venne ridotta del 40%; pagare di più la benzina e tutti i suoi derivati. La pena? Multe salatissime che andavano dalle centomila lire al milione di lire, oltre al sequestro immediato della vettura.

Venne subito coniato (meglio detto, scopiazzato) un vocabolo per quel contesto, inglese ovviamente: austerity. I britannici l’avevano usato per indicare le rigide misure innescate nel secondo Dopoguerra per salvare la loro economia, noi lo adottammo per non sentirci inferiori agli abitanti d’Albione e, soprattutto, per affermarci nel contesto internazionale. L’austerity definì un cambio culturale. Al momento, neanche ce ne accorgemmo, ma il divieto di circolare spinse milioni di italiani a riappropriarsi della città. Si rispolverarono le biciclette soprattutto, ma non solo: pattinatori, maratoneti, camminatori, podisti, semplici pedoni si appropriarono di quegli spazi che erano stati intasati per anni dalle automobili e avevano reso l’aria irrespirabile e i centri storici invivibili. Quelle domeniche anticiparono il recupero del tessuto urbano che sarebbe diventato processo inalienabile nel decennio successivo.

Al momento, non eravamo di quell’avviso. Non avevamo il dono della chiaroveggenza e sentivamo che il governo, con quel provvedimento, aveva tolto alcuni diritti sacrosanti all’italico bel vivere: le gite fuori porta, i pranzi in trattoria all’aperto, i pic nic sui prati e le partite di calcio improvvisate sui campetti di provincia divennero attività interdette.  Riversarsi in città divenne quindi uno sfogo naturale, ma anche una specie di vendetta. Il pallone invase le piazze e le piazzette, i bar si mutarono in trattorie e misero i loro tavolini nel mezzo di viali e corsi, le famiglie stesero le tovaglie sulle aiole dove consumare panini e insalate. In quel furore creativo anche il presidente della Repubblica, l’ineffabile Giovanni Leone, trovò la maniera di ergersi a primo degli italiani in quanto a fantasia, recuperando dalle rimesse del Quirinale una carrozza a cavalli che usò per partecipare alla cerimonia dell’Immacolata Concezione. Andò avanti fino all’aprile 1974, quando il provvedimento venne sostituito da quello delle targhe alterne e quindi le misure furono abrogate definitivamente nel giugno seguente. Le città, però, a partire da quel momento non sarebbero state più le stesse. 


lunedì 9 ottobre 2023

Il caso Calvino: un intrigo internazionale

Cento anni fa, il 15 ottobre, nasceva Italo Calvino, un anniversario che –per fortuna- in tanti si stanno apprestando a celebrare. Il grande scrittore era figlio di Mario, agronomo e giornalista e di Eva Mameli, botanica, prima tra le donne in Italia a ottenere una cattedra universitaria in questa materia. Al tempo della nascita del loro primogenito erano a Cuba, uno a dirigere una stazione per la coltivazione della canna da zucchero, l’altra per acquisire esperienza nel campo delle piante tropicali. Calvino nasce a Cuba per caso e l’isola caraibica è un luogo di cui non ha ricordi. È sanremese a tutti gli effetti, come gli piaceva sottolineare quando gli si chiedeva dei suoi natali. Chi invece vantava una stretta relazione con l’America Latina era il padre Mario, che approda in Messico nel 1909 su invito dell’ambasciatore messicano in Italia, Joaquín Casasús. A Calvino senior viene offerta la Divisione di orticoltura del Ministero di agricoltura. L’offerta messicana cade a pennello: Mario ha tutto l’interesse di cambiare aria, di sparire. Il suo nome, infatti, è stato associato a un fallito attentato contro l’imperatore russo Nicola II.

Per tutto il 1908, sui giornali europei si parla del “caso Calvino”. Ma cosa è successo? Il 21 febbraio di quell’anno, appare la notizia che lo zar Nicola II e il suo ministro Siceglovilof sono scampati a un attentato. La polizia, prontamente intervenuta, è riuscita ad arrestare i cospiratori, tra cui spicca un giornalista italiano che risponde al nome di Mario Calvino. In Italia la notizia si diffonde rapidamente e si chiede al Ministero dell’Interno di fornire informazioni sul sedicente attentatore. Intanto, la sinistra socialista si mobilita per esprimere solidarietà al compagno arrestato in Russia mentre l’ordine dei Giornalisti cerca di scavare nella carriera del collega. Una settimana dopo, la Corte Marziale russa condanna a morte Calvino, esecuzione che deve avvenire nell’arco di tre giorni. Un appello dei giornalisti italiani viene inviato al Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, perché intervenga a favore del compatriota. Il 29 febbraio l’ambasciatore italiano riesce a incontrare Calvino in carcere. Si salutano in italiano, ma poi parlano in russo. Calvino mostra il suo passaporto italiano, la qualifica di giornalista e chiede al nostro delegato di fare pressioni perché la sua condanna venga sospesa. Niente da fare: Calvino viene impiccato quella stessa sera assieme ai suoi complici.

Il giorno dopo, però, a Sanremo salta fuori il vero Mario Calvino. Fa l’agronomo di professione, ha 33 anni, l’aspetto mite. Viene subito convocato in questura. Qui, racconta una storia che pare inattendibile: in sostanza, dice di aver incontrato in treno un misterioso e facoltoso russo, mai visto prima, che, durante una chiacchierata l’ha invitato a impiantare una vigna nei suoi terreni. Calvino racconta di aver accettato e quindi di aver richiesto alle autorità il passaporto per poter viaggiare, passaporto che però, in un successivo incontro, il sedicente russo gli ha sottratto.

Il questore non gli crede: “le dichiarazioni del professor Calvino appaiono inverosimili” scrive. Poi, da Berna giunge una soffiata: la comunità russa di questa città afferma che Calvino e altri italiani hanno consegnato spontaneamente i propri passaporti a diversi rivoluzionari. E salta fuori il nome del giustiziato: si chiamava Vsevolod Vladimirovic Lebedintzev e faceva l’astronomo. Il mistero si infittisce e si indaga su Calvino che risulta essere il venerabile maestro della massoneria di Porto Maurizio, parte dell’attuale Imperia. Secondo la polizia “sembrerebbe evidente com’egli si sia fatto rilasciare, or sono due anni, quel documento all’unico scopo di rimetterlo al collega rivoluzionario onde porlo in grado di rientrare in Russia fingendosi di nazionalità italiana. Il ritratto di Mario Calvino che fanno i giornali è ora quello di un socialista e massone dalle simpatie anarchiche. A questo punto l’agronomo, non rimane con le mani in mano. Va diverse volte a Roma dove incontra vari esponenti politici e perfino il Ministro degli Esteri, Tittoni, incaricato di firmare il trattato italo-russo. Cosa si dicano, non si sa. Di certo, Calvino viene a conoscenza delle informative dei servizi segreti sulla sua persona e decide di abbandonare l’Italia accettando la proposta dell’amico messicano. In Messico Calvino ci rimarrà fino al 1917, offrendo anche i suoi servigi alla rivoluzione di Pancho Villa, per poi emigrare a Cuba assieme a Eva Mameli, che aveva sposato durante un suo breve ritorno in Italia.

Italo Calvino manterrà riserbo per lungo tempo sulla figura del padre. Si ha una lontana dichiarazione del 1960 in cui dirà a “Il Paradosso”, rivista di cultura giovanile: “Mio padre, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano”. Nessuna parola sullo scandalo, appena un accenno a una vita movimentata. Nel 1960 quella del padre è già una figura lontana che si perde nella distanza sia storica che affettiva.

giovedì 24 agosto 2023

"La ira en el manglar": una novela para el medio ambiente

Uruk Editores publica, en ocasión de la Feria Internacional del Libro de San José, mi nueva novela “La ira en el manglar”. Otra vez me encuentro a incursionar en la novela negra, con una diferencia que considero importante y que difiere del clásico desarrollo en este tipo de narración. Por lo general, estas novelas cuentan de personajes y hechos que son el resultado de la ciudad y de sus neurosis. En cambio, “La ira en el manglar” se desarrolla en una pequeña, remota, aldea del sur de Costa Rica, un lugar donde la vida cotidiana está marcada en cada momento por la presencia del manglar. Lugar sagrado por los indígenas, riqueza que se presta para la explotación a los ojos de los forasteros, el manglar es un mundo aparte, que encierra secretos. También, es el terreno donde chocan dos culturas, dos diferentes maneras de entender la naturaleza: por un lado, hay el respeto e inclusive el temor de ofender nuestro origen primigenio; por otro lado, encontramos el afán de la destrucción, de reputar toda expresión de nuestra Tierra exclusiva apropiación del ser humano. De esta dicotomía nace la historia de “La ira en el manglar”, donde la defensa de un territorio se convierte en un conflicto personal y cultural. El medio ambiente surge como centro de la novela y este contexto nos invita a formularnos la pregunta hasta donde llegan la frontera moral y la justificación a ciertos actos de los protagonistas, si hay coherencia en las extremas consecuencias por la defensa de la naturaleza.

“La ira en el manglar” se presenta sábado 26 de agosto en el stand de Uruk Editores, Feria Internacional del Libro, en el centro de eventos Pedregal de 2 a 4pm.



Uruk Editores pubblica, in occasione della Feria Internacional del Libro de San José, il mio nuovo romanzo “La ira en el manglar”. Si tratta di un altro incontro con il genere noir, con una differenza che reputo importante e che differisce dalla trama classica di questo tipo di narrazione. In genere, questi romanzi parlano di persone e di fatti che sono il risultato della città e delle sue nevrosi. “La ira en el manglar”, invece, è ambientata in un piccolo, sperduto, villaggio del sud della Costa Rica, un luogo la cui vita è segnata in ogni suo momento dalla presenza di un estuario. Luogo sacro per gli indigeni, ricchezza da sfruttare per i forestieri, l’acquitrino è un mondo a sé, che racchiude segreti. È anche il terreno dove due culture, due maniere differenti di intendere la natura si scontrano: se da una parte c’è il rispetto e anche il timore di offendere la nostra origine primigenia, dall’altro c’è l’affanno alla distruzione, a reputare ogni espressione della nostra Terra a uso e consumo dell’essere umano. Da questa dicotomia nasce la storia di “La ira en el manglar”, dove la difesa di un territorio si tramuta in un conflitto personale e culturale. L’ambiente sorge come centro del romanzo e questo contesto ci invita a porci la domanda di fino a dove possono spingersi la frontiera morale e la giustificazione a certe azioni dei protagonisti, se c’è coerenza nelle estreme conseguenze a difesa della natura.

sabato 19 agosto 2023

Scrivere a mano, andare piano

Una volta scrivevamo a mano. E non era nemmeno troppo tempo fa. Lo stile di scrittura era qualcosa che si curava, a cominciare dagli esercizi di “bella calligrafia” che la maestra ci propinava a partire dalla seconda elementare, comminati con regolare scadenza settimanale. Questo perché scrivere bene, e soprattutto scrivere in maniera comprensibile, definiva la personalità di ogni individuo nella sua futura età matura. Non si trattava della conseguenza di un retaggio (nell’800 il tipo di scrittura veniva imposto e doveva perfino adattarsi al tipo di professione svolta da una persona) ma di una buona pratica, un’attività capace di stimolare il nostro cervello. Allora, si scriveva con la penna stilografica e bisognava munirsi di carta assorbente nel caso, non improbabile, che gli sbuffi di inchiostro potessero macchiare il nostro foglio. Gli errori non erano permessi, a costo di lasciare macchie strepitose che valevano i rimbrotti della maestra e un po’ di personale, sana, stizza. 

Una piccola arte, insomma che ci insegnava a non essere maldestri e ad abituare la nostra materia grigia ad abbinare le parole scritte alle immagini vive. Soprattutto, ci permetteva di pensare e di concentrarci. Nel mio caso, un’abitudine che continua ancor ora, eredità di un’epoca dove la tecnologia si limitava alla televisione in bianco e nero e al telefono a cornetta. Sulla mia scrivania veleggiano ancora decine di fogli riempiti rigorosamente a matita con idee, riflessioni, calcoli, numeri di telefono, trame, indirizzi.

La tastiera e lo schermo, pratici e funzionali quando si tratta di ridurre i tempi, hanno un limite: sono freddi e impersonali. Scrivere a mano, invece, alimenta la fantasia. E la fantasia ha bisogno di essere curata, necessita di tempo e dedizione. Se ne trova riscontro quotidiano nelle vacillanti composizioni di ragazzi e ragazze che hanno sviluppato l’estensione e la velocità dei pollici a scapito delle capacità espressive. Insomma, il processo cognitivo si è arenato, la scarsa connessione neuro cerebrale non è un mito. Le conseguenze, ossia le carenze espressive e linguistiche, sono lì, a disposizione e a vista di tutti sul foglio di carta, virtuale o reale che questo sia. Pensare costa fatica. Per questo è stato inventato il “copia e incolla” e ora, come scorciatoia a ogni operazione cognitiva, l’intelligenza artificiale.

Chi scrive a mano è una specie in via di estinzione e lo dimostra anche il progetto di legge presentato e approvato alla Camera lo scorso maggio per istituire la “giornata nazionale della scrittura a mano”. Secondo il calendario internazionale, sarà il 23 gennaio, giorno di nascita di John Hancock, primo firmatario della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. E pure su questa scelta ne avremmo da ridire, a partire dall’unico, poverissimo, contributo del mercante Hancock su questo tema: una firma. Ma mi fermo qui. 

martedì 13 giugno 2023

Il berlusconismo e la rinuncia alla scuola

Muore Berlusconi e via, subito viene avviato il cerimoniale agiografico in sua memoria. Tante lodi e poche critiche. Amante del calcio e del suo Milan, non lo era di certo della cultura e dell’istruzione. La riforma Gelmini (ma prima c’era stata già la Moratti), varata dal quarto governo Berlusconi, è stata una manovra che ha imposto un impudico taglio finanziario a quanto di più prezioso possa avere un Paese, ossia l’educazione della propria gioventù. Il provvedimento - pensato a tavolino con l’altro ministro Tremonti - mandò a casa migliaia di insegnanti, ridusse le ore d’insegnamento settimanali, accorpò le piccole scuole (più di duemila) a centri più grandi e quindi più caotici, ridicolizzò la scuola professionale e tecnica, smembrò e delegò funzioni, tagliò 8000 milioni di euro all’istruzione per tre anni e poi altri 3000 milioni per quelli seguenti. Questo il macropanorama: nel dettaglio, fece anche sparire la carta dalle scuole, da quella da usare ai cessi, a quella per le fotocopie. Una riforma d’autore, firmata da una che sta ancora cercando il tunnel che collega il Gran Sasso con il Cern di Ginevra.

L’eredità della riforma è stato il baratro. La conseguenza più grave è stata quella di aver aperto una breccia educativa generazionale che si è ampliata con i governi successivi, dalla “Buona scuola” di Renzi agli incoerenti tentativi dei suoi successori. I risultati? Oggi, più di uno studente su due della scuola superiore prende ripetizioni e arriva all’università impreparato. Le prove Invalsi del 2023 hanno dimostrato che il 48% degli studenti giunge all’ultimo anno delle Superiori in carenza rispetto al livello base di preparazione, con la percentuale che si aggrava mano a mano che si scende verso sud (il 70% degli studenti meridionali non compie con i requisiti minimi nello studio della matematica). Sulla lingua straniera si stende invece un velo pietoso, quasi nessuno sa esprimersi in inglese. Inoltre, in soli quattro anni si sono persi dieci punti percentuale. Ignoranti e sempre più ignoranti, insomma. Andiamo all’università. Prova di ingresso a Medicina lo scorso settembre: è rimasto fuori il 50% dei candidati (ci sono domande di biologia, fisica, chimica, matematica e logica). Il 7%, poi, abbandona gli studi universitari il primo anno. La quota di laureati è al 21% (in Costa Rica siamo al 23%), fanalino di coda tra i paesi europei.

Abituati al copia e incolla da Wikipedia o ai nuovi Bignami digitali (e ora facile preda dell’intelligenza artificiale), i nostri studenti annaspano in una scuola che non dà riferimenti, inseriti in una struttura che, invece di essere salda, si ritrova a essere un cantiere aperto, con regole frammentarie che cambiano a seconda della stagione politica. Se a pensare male ci si azzecca, la riflessione dello storico Francesco De Sanctis (“un popolo ignorante non ragiona, ubbidisce”) calza a pennello su quelli che sono i pilastri del berlusconismo.

lunedì 29 maggio 2023

Lo spirito oscuro di Pinocchio

“E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. Cosa sarebbe successo se il finale di Pinocchio sarebbe rimasto questo, quello di un disonorato burattino morto stecchito, impiccato alla Quercia grande?

Ci saremmo trovati di fronte a un grande romanzo gotico, erroneamente rivolto ai bambini. I primi quindici capitoli di “Storia di un burattino” pubblicati nel 1881 scorrono verso il finale inevitabile, la morte del suo protagonista. L’intenzione di Collodi è quella sin dall’inizio. Basta soffermarsi sui dettagli. L’ambiente solare della campagna toscana viene offuscato dai toni cupi dell’intera novella: la casa di Geppetto “pigliava luce da un sottoscala” e quando Pinocchio ci si ritrova solo tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco”. Quando il burattino deve andare a scuola ha nevicato tutta la notte. Più tardi Mangiafoco “Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”. Il Grillo Parlante, ucciso con una martellata, riappare come un’ombra lugubre. Nell’ultimo capitolo originale Pinocchio, inseguito nella foresta dal Gatto e la Volpe sembra trovare un’inattesa salvezza: la luce di una casina suggerisce al lettore che Pinocchio si sottrerrà ai malviventi. Invece, la scena che si presenta davanti fa rabbrividire:

... Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

-In questa casa non c’è nessuno; sono tutti morti.

-Aprimi almeno tu!- gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

-Sono morta anch’io.

-Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

-Aspetto la bara che venga a portarmi via”.


È il preludio al finale. Il bosco, la selva oscura che fa ricordare Dante sulla soglia dell’inferno, è l’anticamera del regno dei morti dove la bambina appare a Pinocchio come uno spirito guida che lo porterà nell’aldilà. Subito, il burattino ribelle, che era stato ammonito all’inizio della storia dal Grillo Parlante (“i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo”), viene preso per il collo dai suoi carnefici e sacrificato.

La storia doveva finire qui. Era il 17 ottobre 1881, ma le proteste dei piccoli lettori e del suo stesso editore, costrinsero Collodi a riprendere la narrazione e a portarla a termine due anni dopo. Non senza, però, essere obbligato ad alcune evidenti forzature, prima fra tutte la trasformazione dello spirito della bambina nella Fata Turchina. Nella seconda parte Pinocchio vive una serie di avventure, alcune anche inquietanti, ma che si muovono sul piano, appunto, dell’immaginario fiabesco, una specie di sogno angosciante da cui ci si aspetta che si svegli da un momento all’altro. E infatti, ecco il finale felice: a vincere è il lettore. Collodi, però, vuole lasciare una firma beffarda su quel finale, tre punti di sospensione: “Com’era buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!...”. Pinocchio –ci vuol dire Collodi, piccato per la riscrittura del romanzo- ci sta prendendo in giro: un ragazzino perbene non lo sarebbe mai diventato.


lunedì 3 aprile 2023

Vietato parlare di pace

“Il robot bomba distrugge la postazione russa”, “I nostri soldati resistono ed eseguono la loro missione: uccidono”, “Proveremo i proiettili all’uranio”, “Non c’è spazio per i negoziati”, “La Polonia vuole più armi”. Titoli di guerra, sempre in prima pagina, pane quotidiano che entra nelle nostre case ad avvelenarci la coscienza. Le immagini ci fanno entrare nel carro armato che scoppia, nel fango delle trincee, ci fanno seguire il tracciato dei missili che abbattono gli elicotteri. Giorno dopo giorno i quotidiani italiani ci assuefano alla guerra. Video, articoli, editoriali, interviste. Da quando è scoppiata la crisi in Ucraina, i giornalisti della stampa e della radio televisione ci spiegano ogni giorno quanto la guerra sia necessaria. In questo contesto, dove è stato scelto per noi chi sia il cattivo e chi il buono, la parola “pace” è scomparsa, al punto da sembrare una vergogna citarla. Chi detiene il potere ha deciso. Eppure sono passati appena venti anni da quando, il 15 febbraio 2003, più di 110 milioni di persone scesero in piazza per dire basta al conflitto in Iraq. Il movimento, denominato dal New York Times come la “seconda potenza mondiale”, si era prefisso il compito di mettere la guerra fuori dalla storia. Una narrazione bellissima, romantica, idealista. Possibile, ma sfumata nel tempo, dissoltasi nell’aria come i petali prematuri del dente di leone.

Il movimento pacifista interpreta, dopo poco più di un anno di conflitto in Ucraina, il sentimento della gente comune, un sentimento nobile e fiero, di chi chiede di deporre le armi, di chi ripudia l’escalation. È un movimento, però, debole, che non riesce a far sentire la propria voce per un semplice motivo: non ha cassa di risonanza. Si può intuire perché. L’informazione che ci viene somministrata ha lo scopo ben preciso di divellere le basi della cultura di pace, ridicolizzando la tolleranza, la solidarietà tra i popoli, la fratellanza. I giornali, le televisioni che ci vendono le loro verità sono guerrafondaie. Sono la macchina di propaganda del bellicismo incosciente. Dobbiamo dire basta. Riporto l’intervento di Enrico Peyretti, che ho avuto l’onore e il piacere di aver avuto come insegnante ai tempi del liceo, che spero, serva a farci riflettere sulla china che abbiamo preso:

...Ogni guerra è intollerabile nemica della vita, di tutti, anche di chi la fa. Non c'è più nessuna guerra giusta, se mai poteva esserci in passato. La vittoria militare non porta diritto e giustizia, ma solo premia la maggiore violenza. Nessuna vittoria militare merita il prezzo del sangue umano, e delle sofferenze dei popoli. Non sono mai "eroi" gli uomini armati. La pace si deve fare ad ogni costo, con la parola e la politica, col disarmo, con la disobbedienza, pagando il prezzo necessario economico, politico, territoriale, deponendo ogni stupido orgoglio, come è necessario per vivere tutti degnamente. Alla guerra non si deve rispondere con la guerra, che non è difesa, ma imitazione di una logica pre-civile, pre-umana. Un popolo cosciente, unito, organizzato, difende il suo diritto solo se insabbia l'aggressore con la coraggiosa disobbedienza totale. Ogni potere esiste solo se è obbedito, se trova consenso. Disobbedire può costare qualche vita, ma con vero onore, mentre la guerra è sempre disonore. Non gli zar e i Napoleoni, ma Tolstoj e Gandhi sono i maestri della politica necessaria oggi. Imparate, stolti imperi Usa, Russia, Cina e servi vostri. Impara Europa, i tuoi Erasmo e Kant, che hai dimenticato!” (Enrico Peyretti).

giovedì 16 marzo 2023

Corsi e ricorsi della censura: "Cuore" libro sovversivo

La censura non è nulla di nuovo, ma facciamo bene ad indignarci di fronte a operazioni come quella della Puffin Books nei confronti delle opere di Roald Dahl o della Blossom Books olandese nei riguardi della “Divina Commedia”.  (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/07/non-toccate-lislam-sacrificate-dante.html). Alzare la voce è un dovere morale contro le derive. Si tratta di corsi e ricorsi storici, ispirati da fascismi, nazionalismi, totalitarismi o, nei nostri tempi, anche dalla tirannia imposta dalle corporazioni che mascherano proficue operazioni commerciali con il falso proposito di proteggere le minoranze.


L’esperienza ci insegna che nessun testo è immune dall’imbecillità. Alla censura non scappò nemmeno “Cuore”, un testo amato da generazioni di studenti e all’apparenza innocuo, che però divenne inviso al governo argentino. Il libro di De Amicis venne edito in questo paese sudamericano nel 1887 e andò subito a ruba tra gli emigrati italiani. L’autore era stato in Argentina tre anni prima per tenere una serie di conferenze sul Risorgimento e al suo ritorno in Italia aveva scritto differenti articoli sulla realtà dei compatrioti emigrati. De Amicis era uno dei pochi che narravano le vicende di quella umanità brutta sporca e cattiva, che l’Italia aveva espulso per manifesta incompetenza a poterla impiegare. Ci scrisse un libro straziante (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/06/il-romanzo-poco-epico-dellemigrante.html) e periodicamente tornava a incidere con la sua penna sulla questione. La sua popolarità in Argentina, dove al tempo vivevano già due milioni di italiani, era alle stelle. Avvenne che, grazie al suo successo e con il sistema educativo agli albori, “Cuore” venne adottato nel 1894 come libro di testo delle elementari. Presto, al ministero si resero conto di aver fatto un errore. “Cuore” infatti celebrava lo spirito patriottico italiano, racchiudeva tra le sue righe l’esaltazione del processo d’indipendenza e, in generale, faceva sentire i nostri connazionali orgogliosi della patria lontana. Tutto il contrario di quanto si era prefissato il governo locale, che contava sulla scuola per cementare il sentimento nazionalista della giovane repubblica rioplatense, formata da genti tanto diverse tra loro. La scuola doveva integrare, creare l’argentino del futuro e non lodare lo straniero.

Così, “Cuore” si trasformò da libro scritto per la gioventù in un testo sovversivo. Presto la politica lo additò come nemico della coscienza nazionale argentina. Anche l’amico deputato Zevallos (citato in un passaggio del libro) prese le distanze da De Amicis: l’Argentina rischia di diventare “una nación que no tendrá lengua, ni tradiciones, ni carácter, ni bandera” scrisse. Tra i più acerrimi avversari della sua diffusione ci fu l’ex presidente della Repubblica Domingo Sarmiento, che era anche scrittore e giornalista. Sarmiento diede vita a una campagna per sopprimere la presenza di “Cuore” nelle scuole, libro che additava addirittura come cavallo di Troia per future pretese italiane su porzioni del territorio argentino (e citava come esempio gli inglesi e le Malvinas).

In questo contesto, “Cuore” fu ritirato dalle scuole. Ma non per molto. Ben presto ci si rese conto che non esisteva un testo con le caratteristiche del libro di De Amicis e si pensò di reintrodurlo tramite la formula della censura.

Gli autori Germán Berdiales e Fernando Tognetti diedero vita a una profonda revisione del libro di De Amicis, da cui nacque “Corazón. Traducción y Adaptación para los niños argentinos”. Destinato alle scuole, il nuovo testo stravolse l’originale, con il proposito di fomentare nei bambini il senso di appartenenza alla nazione che, in moltissimi casi, li stava accogliendo per farne degli argentini a tutti gli effetti. Secondo la tesi presentata nell’introduzione, “Cuore” originale era sì un’opera ammirevole, ma non consona alla sensibilità dei bimbi argentini. Berdiales e Tognetti mantengono inalterata la struttura del romanzo, ma lo rielaborano al gusto locale, a cominciare dal nome dei protagonisti: Enrico diventa Enrique, Franti è Franco, Coretti Correa, Robetti Roberts, in una libera traduzione che vuole garantire il multiculturalismo della società argentina. Gli avvenimenti storici italiani vengono mutati a favore di quelli argentini: non si commemora Vittorio Emanuele II, ma il generale Belgrano; Garibaldi scompare a favore di San Martín, l’eroe dell’indipendenza dalla Spagna. Non solo. I modelli dei giovani eroi, la cui origine geografica era servita a De Amicis a tracciare lo spirito patriottistico che pervadeva la nuova generazione italiana dalle Alpi alla Sicilia, sono modificati: il piccolo scrivano fiorentino diventa el pequeño copista rosarino, la piccola vedetta lombarda muta nel pequeño observador tucumano, il tamburino sardo si trasforma nel tamborcito salteño. 

L’opera di Berdiales e Tognetti non fu l’unico tentativo di sostituire l’impianto originale di “Cuore”. L’insegnante Carlota Garrido De La Peña lo aveva già fatto nel 1913 con “Corazón argentino”, che venne utilizzato come libro di testo nelle scuole elementari argentine ed ebbe sei riedizioni. La censura durò fino alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo quando, ormai stabilizzato il processo nazionalista, gli argentini ritennero di restituire “Cuore” alla sua versione originale, con tante scuse a De Amicis e a quanti avevano creduto che il piccolo patriota padovano fosse invece un ragazzino di San Luís.

Su tutta la vicenda, lo studioso Giovanni Albertocchi dell’università di Girona, ha dedicato un esauriente lavoro sui Quaderns d’Italià (26, 2021).

giovedì 9 marzo 2023

ll congiuntivo dell'ultimo millennio

L’italiano è in terapia intensiva, lo sappiamo da un pezzo. Abbiamo seppellito il terzo periodo ipotetico, abbiamo eretto il che polivalente a soluzione grammaticale assoluta e riempito la nostra lingua di vocaboli anglofoni. È giusto che la lingua sia in movimento, ma si ha la sensazione che invece di progredire l’italiano sembra vivere il fenomeno contrario, quello della regressione. Da decenni si parla, poi, della malattia del congiuntivo, un malato che sembra sempre sul punto di tirare le cuoia. Già nel 1984, quasi quaranta anni fa, il linguista e scrittore Cesare Marchi intitolava un suo polemico articolo “La morte del congiuntivo”, in cui dava la colpa del decesso ai mass media, colpevoli di impoverire la lingua e di afferrarsi sempre di più alle espressioni esterofile.

Il congiuntivo, però, non è morto e, seppure con difficoltà, continua a sopravvivere. Alberga nelle anime pure, quelle che in un’epoca di certezze, esprimono con riguardo il proprio punto di vista, dubitano e desiderano. Sentimenti chiari, che, dando un’occhiata ai social network non si trovano più nella grande maggioranza degli italiani. Le persone non hanno remore, ciò che esprimono sono asserzioni, affermazioni che non ammettono repliche. Tutti sanno tutto, per cui se non ho dubbi o non metto in moto il cervello, non ho bisogno di usare il congiuntivo. La crisi, più che linguistica, è quella di una società che è incapace di mettersi in gioco e quindi di esporre un pensiero critico che è relativo e non verità assoluta. Basta seguire i commenti su qualsiasi punto d’incontro virtuale. Il tempo verbale padrone è l’imperativo, signore supremo del vituperio. Le nostre opinioni sono categoriche su ogni argomento e non ammettiamo obiezioni.

Eppure, avremmo bisogno di obiettare, requisito necessario per aprirci al confronto. Il congiuntivo è il modo della riflessione, è il tempo verbale che ci mette in relazione e ci fa comprendere il mondo che ci circonda. È l’immagine della nostra consapevolezza, della nostra capacità di elevarci come esseri in grado di esprimere pensieri, di provare emozioni e di esternare i sentimenti. Umberto Eco affermava che il modo indicativo si riferisce al mondo reale, mentre il congiuntivo si riferisce a un mondo possibile. Qui sta tutta la bellezza del suo uso. Il territorio dove si muove il congiuntivo è il mondo delle nostre speranze, dei desideri e anche dei nostri timori, della nostra fragilità di esseri finiti con ansia di conoscenza. Argomenti questi che si situano nel mondo della discussione e della conversazione, della nostra capacità di comunicare con le altre persone.

Non solo. La lingua è potere. Una volta si accusava il congiuntivo di essere discriminante. Chi lo usava, era perché aveva fatto le scuole migliori e passava immediatamente ad essere consapevole del proprio ruolo all’interno della classe dirigente (la famosa frase di don Milani “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”). La breccia poteva essere colmata con lo studio, circostanza che rimane valida ancora oggi, quello studio che possa portare l’italiano medio oltre le 3000 parole che usa per esprimersi (parola di Tullio De Mauro). La lingua aumenta il livello delle competenze, scava nel profondo. Sul lavoro, apre opportunità, in politica argina il populismo. Per l’individuo, apre frontiere. Abbiamo la possibilità di fare la differenza, sta a noi averne o no l’intenzione.

lunedì 27 febbraio 2023

Conversazione con l'intelligenza artificiale

Gli esperti minimizzano: l’intelligenza artificiale non può rimpiazzare il lavoro di giornalisti e scrittori. Ho i miei seri dubbi. Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione tecnologica e così come nel corso dei secoli abbiamo mandato in pensione maniscalchi, fabbri, lattai, cestai, miniaturisti e lavandaie, in questione di poco tempo la macchina farà piazza pulita dei lavori dell’intelletto. Primo perché l’intelletto è una scocciatura, crea idee che possono risultare rivoltose, e secondo perché ormai il mercato ha bisogno di prodotti confezionati ad arte per la fruizione del pubblico. Una fruizione che deve essere priva di sbavature e che segue un copione fisso. Pensate a scrittori come Joel Dicker, E.L. James, Guillaume Musso, tanto per fare alcuni nomi conosciuti, che creano storie a tavolino, prive di emozioni stilistiche, tutti perfettini, che non sbagliano una virgola e che offrono al lettore, su un vassoio d’argento, proprio quello che si aspettano di leggere. Mai una concessione fuori dello schema prefissato. Allora, perché pagarli tanto quando il loro lavoro lo potrebbe fare una macchina?

Dalla Corea, dagli Stati Uniti ci informano che i primi libri scritti dall’I.A. sono già stati pubblicati e che possono essere reperibili su Amazon e sulle altre piattaforme digitali. Anche in Italia, il collettivo Roy Ming ci avvisa di aver realizzato una storia per bambini con l’aiuto di ChatGPT per il testo e di Midjourney per le illustrazioni.


Spinto dalla curiosità, sono andato al computer e ho avuto una conversazione con la ChatGPT su alcuni temi. Se dovrà sostituirmi, tanto vale sapere come accadrà. Si è dimostrata cortese, conosceva addirittura i miei libri anche se con qualche lacuna (la città in cui è ambientato “Il mostro di Armendáriz” è Lima e non Buenos Aires, per esempio e la trama de “Il segreto di Julia” era un poco distorta). Le ho chiesto se sarebbe stata d’accordo a scrivere un manoscritto con me e la sua risposta è stata: “con piacere. Sono qui per aiutarti in tutto ciò che concerne la scrittura”. E come? “Ti posso aiutare a scegliere un tema, a darti consigli sulla struttura e su come migliorare il tuo stile, e alla fine indicarti come trovare un editore”. Quale genere dovremmo trattare? “Il noir, la fantascienza, il fantasy e i romanzi d’amore sono i più indicati”. Benissimo e quindi come procediamo? “Devi creare personaggi interessanti e credibili, che giungano al cuore dei lettori. Chi legge ha bisogno di creare un rapporto emotivo con la storia e i personaggi”. Ah benissimo, le emozioni. Mi puoi aiutare a crearle? “Mi dispiace, ma non posseggo emozioni come gli esseri umani. A questo ci devi pensare tu. È un compito per lo scrittore. Devi, come ti dicevo, creare personaggi interessanti e sviluppare delle trame appassionanti in maniera da trasmettere sentimenti autentici grazie ai quali i lettori si emozionino con la tua storia”. Quindi, devo lavorare come sempre. Però mi puoi aiutare a sviluppare una storia avvincente? “Certo. Se hai una idea, fammela sapere. Io posso fare in modo di renderla emozionante e ben scritta”. Migliorare lo stile, insomma. Pensavo di scrivere più o meno bene e non ricorrere per questo a una macchina. Però, buono a sapersi. Pensiamo alla grana allora: mi puoi garantire il successo economico? “Il successo di un progetto letterario dipende da molti fattori, tra cui la qualità del testo, l’originalità della storia, la concorrenza nel mercato editoriale e la risposta dei lettori”.

Trama, stile, struttura. Cose che dovrebbe saper fare uno scrittore e invece, dalle sue repliche alle mie domande, era come se ChatGPT non vedesse l’ora di mettersi all’opera. Io, invece, avevo solo voglia di fare un paio di chiacchiere. Allora, ho continuato, quale sarà la funzione dello scrittore nel futuro? “Le storie e la narrativa create dall’uomo probabilmente non scompariranno, per cui gli scrittori saranno sempre necessari per la realizzazione di romanzi, racconti, copioni e altri lavori di intelletto”. Probabilmente non scompariranno, ha detto. A volte, il valore di un avverbio è determinante. Non mi restava che un’ultima domanda: un giorno mi sostituirai? “La scrittura è un’abilità umana complessa che implica non solo generare parole, ma anche la creazione di significati e di contesto. L’intelligenza artificiale è avanzata molto negli ultimi anni, ma non è ancora arrivata al punto di sostituire completamente uno scrittore”.

La macchina ha usato “ancora”: non è ancora arrivata, di nuovo un avverbio inquietante. Ergo, sarà solo una questione di tempo. Secondo uno studio dell’università di Oxford il 2049 sarà chiave: in quell’anno, infatti, l’I.A. sarà in grado di scrivere e pubblicare il suo primo best seller. Per mia fortuna, sarò morto.

sabato 7 gennaio 2023

Mafia e mercato, combinazione vincente

Joseph Iannuzzi, mafioso di lungo corso, legato alla famiglia Gambino, durante le lunghe giornate trascorse nel programma di protezione ai testimoni si dilettava a cucinare. Lo faceva per sè, per la scorta e per gli agenti dell’FBI che si presentavano a interrogarlo. Da quell’esperienza nacque “The Mafia Cookbook”, libro di ricette della mafia, che grazie al titolo esplicito e alla storia che girava intorno a Iannuzzi, vendette molto bene, tanto da essere ancora adesso, dopo trent’anni, ripubblicato. Morale di questa storia corta: la mafia vende. Brutto da dire, ma è così. Ci sono, in giro per il mondo, ristoranti, film, pizzerie, prodotti alimentari che fanno un costante riferimento alla mafia, riportando ottimi affari. Si tratta di un fenomeno prettamente italiano che celebra la criminalità organizzata come fosse un riconoscimento del genio nostrano. Non lo fanno gli altri popoli che eppure tra cartelli, yakuza, maras, triadi e fratellanze avrebbero dove attingere, ma lo facciamo noi come se si trattasse di un carattere distintivo del nostro carattere. La mafia scioglie nell’acido i bambini, fa saltare in aria i magistrati, ma cosa volete che sia se quella parolina magica mi fa vendere qualche pizza in più?

Ci muoviamo su due territori di sabbie mobili. Il primo dove la parola viene banalizzata. La mafia viene intesa come normalità, come un  convenzionale fenomeno di costume a cui, tra una carbonara e una pizza margherita, si rimuove la drammaticità. La mafia va intesa e giudicata per cio che è, criminalità allo stato puro, non ne possiamo svuotare il concetto per offrirle un salvacondotto e renderla accettabile. Eppure, è quello che succede ogni volta che i “Burger Mafia” o la “Al Capone pizza” vengono proposti al pubblico. Esemplare la sentenza del Tribunale dell’Unione europea contro “La mafia se sienta a la mesa”, una catena di ristoranti spagnoli: l’espressione “si siede a tavola” evoca convivialità e quindi dà un’immagine positiva di chi, invece, è manifestazione del male. Purtroppo, la sentenza non ha fermato la catena, che al giorno d’oggi vanta più di quaranta locali in Spagna e continua fare soldi a palate in barba alle centinaia di vittime della mafia.


Il secondo territorio è quello dove si celebra uno stereotipo che accomuna gli italiani a una delle loro peggiori espressioni come popolo. Da quando il film “Il Padrino” ha esposto le vicissitudini di una saga familiare criminale, è nato un genere di successo, che ha riproposto più e più volte negli anni le stesse situazioni, riducendosi perfino a episodi di macchiette da commedia leggera. La combinazione “italiano-mafioso” spopola all’estero, risibile e innocua all’apparenza, ma che in realtà in certi casi denigra e in altri detona inaspettati gradi di seduzione. È l’effetto del marchio, che perpetuiamo volontariamente e che poi sopportiamo con rassegnazione.

A causa della nostra volontaria strategia di mercato siamo riusciti a esportare la parola “mafia” in tutto il mondo, al punto da farla entrare nei vocabolari di ben 45 lingue differenti, più di quanto siano popolari “cappuccino” o “paparazzo”. Insomma, la combinazione è vincente e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.


Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...