giovedì 9 marzo 2023

ll congiuntivo dell'ultimo millennio

L’italiano è in terapia intensiva, lo sappiamo da un pezzo. Abbiamo seppellito il terzo periodo ipotetico, abbiamo eretto il che polivalente a soluzione grammaticale assoluta e riempito la nostra lingua di vocaboli anglofoni. È giusto che la lingua sia in movimento, ma si ha la sensazione che invece di progredire l’italiano sembra vivere il fenomeno contrario, quello della regressione. Da decenni si parla, poi, della malattia del congiuntivo, un malato che sembra sempre sul punto di tirare le cuoia. Già nel 1984, quasi quaranta anni fa, il linguista e scrittore Cesare Marchi intitolava un suo polemico articolo “La morte del congiuntivo”, in cui dava la colpa del decesso ai mass media, colpevoli di impoverire la lingua e di afferrarsi sempre di più alle espressioni esterofile.

Il congiuntivo, però, non è morto e, seppure con difficoltà, continua a sopravvivere. Alberga nelle anime pure, quelle che in un’epoca di certezze, esprimono con riguardo il proprio punto di vista, dubitano e desiderano. Sentimenti chiari, che, dando un’occhiata ai social network non si trovano più nella grande maggioranza degli italiani. Le persone non hanno remore, ciò che esprimono sono asserzioni, affermazioni che non ammettono repliche. Tutti sanno tutto, per cui se non ho dubbi o non metto in moto il cervello, non ho bisogno di usare il congiuntivo. La crisi, più che linguistica, è quella di una società che è incapace di mettersi in gioco e quindi di esporre un pensiero critico che è relativo e non verità assoluta. Basta seguire i commenti su qualsiasi punto d’incontro virtuale. Il tempo verbale padrone è l’imperativo, signore supremo del vituperio. Le nostre opinioni sono categoriche su ogni argomento e non ammettiamo obiezioni.

Eppure, avremmo bisogno di obiettare, requisito necessario per aprirci al confronto. Il congiuntivo è il modo della riflessione, è il tempo verbale che ci mette in relazione e ci fa comprendere il mondo che ci circonda. È l’immagine della nostra consapevolezza, della nostra capacità di elevarci come esseri in grado di esprimere pensieri, di provare emozioni e di esternare i sentimenti. Umberto Eco affermava che il modo indicativo si riferisce al mondo reale, mentre il congiuntivo si riferisce a un mondo possibile. Qui sta tutta la bellezza del suo uso. Il territorio dove si muove il congiuntivo è il mondo delle nostre speranze, dei desideri e anche dei nostri timori, della nostra fragilità di esseri finiti con ansia di conoscenza. Argomenti questi che si situano nel mondo della discussione e della conversazione, della nostra capacità di comunicare con le altre persone.

Non solo. La lingua è potere. Una volta si accusava il congiuntivo di essere discriminante. Chi lo usava, era perché aveva fatto le scuole migliori e passava immediatamente ad essere consapevole del proprio ruolo all’interno della classe dirigente (la famosa frase di don Milani “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”). La breccia poteva essere colmata con lo studio, circostanza che rimane valida ancora oggi, quello studio che possa portare l’italiano medio oltre le 3000 parole che usa per esprimersi (parola di Tullio De Mauro). La lingua aumenta il livello delle competenze, scava nel profondo. Sul lavoro, apre opportunità, in politica argina il populismo. Per l’individuo, apre frontiere. Abbiamo la possibilità di fare la differenza, sta a noi averne o no l’intenzione.

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