mercoledì 21 settembre 2022

Il pomodoro, dolce veleno della cucina italiana

Senza pomodoro non si fa la pizza. Senza pomodoro non si fa il sugo per la pasta e nemmeno si può preparare una caprese. Insomma, senza pomodoro, la cucina italiana sarebbe un po’ persa o, quanto meno, irriconoscibile. Presente dalle Ande al Messico, probabilmente coltivato dagli aztechi, da cui prende il nome (xictomatl e in alcuni paesi dell’area centroamericana viene ancora indicato come “chiltoma”) il pomodoro sbarca a Siviglia a metà del XVI secolo. Eppure, non fa il botto. Quel frutto di color giallo (ed ecco perché gli italiani lo chiamano da subito pomo di oro) viene ritenuto pericoloso e potenzialmente velenoso, per la presenza di un alcaloide, la tomatina, e usato quindi solo a scopi ornamentali.

A differenza di quanto si possa pensare, la diffusione dei prodotti provenienti dall’America fu abbastanza lenta in Europa. La patata, il pomodoro, il mais, il peperone, i fagioli –per citare i più popolari- furono considerati per lungo tempo delle stramberie esotiche. Il parere negativo (“pianta dal sapore puzzolente e dalle foglie tossiche”) formulato dal botanico inglese John Gerard autore del trattato “Herball” (1597) fu decisivo per bandire il pomodoro dalle tavole inglesi e nordeuropee per lunghissimo tempo. Questo rifiuto rimase radicato anche negli Stati Uniti e fino al XIX secolo, se si pensa che un filosofo e saggista di fama come Ralph Waldo Emerson reputava il pomodoro “un oggetto orripilante e velenoso”. Gli italiani furono più benevoli. Castore Durante, botanico umbro, già nel 1585 nel suo “Herbario nuovo” scriveva che i pomodori si mangiano come le melanzane, ossia “con pepe, sale e olio” anche se, aggiungeva, “danno poco o cattivo nutrimento”.

È Antonio Latini, cuoco nel vicereame di Napoli, a vincere ogni diffidenza e  a deliziare per la prima volta i commensali con la “salsa di pomodoro alla spagnola”. Siamo nel 1694 (più di duecento anni dopo la spedizione di Colombo) e nel suo trattato “Lo scalco alla moderna”, Latini scrive: "Piglierai una mezza dozzina di pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra la brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v'aggiungerai Cipolle tritate minute, a discretione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo, o Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l'accomoderai con un po' di Sale, Oglio, e Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, o per altro".

Mentre in Germania e nel Nord Europa si continua a pensare che il pomodoro possa trasformare le persone in lupi mannari, in Italia si inizia a coltivarlo e a servirlo in tavola. Il primo riferimento ufficiale dell’uso del pomodoro in cucina si deve al trattato “Il cuoco galante” (1778), che presentava le ricette del napoletano Vincenzo Corrado che a corte coglie le potenzialità gastronomiche di questo prodotto, cominciando ad aggregarlo alla carne, al pesce, alle uova e, ovviamente alla pasta. Ciononostante, il pomodoro continua a essere considerato, nelle tavole degli aristocratici e dei borghesi, una trovata eccentrica. A renderlo popolare ci penserà la gente comune, la stessa che a Palermo sopravvive grazie agli avanzi della cucina dei nobili (creando stigghiola, mievusa e quarume) e che a Genova, da ingredienti di scarto –come i pinoli e il basilico- si inventa il pesto. Nel 1839, nel ricettario di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, appare la prima ricetta ufficiale dei vermicelli al pomodoro, che mette per scritto la pratica quotidiana già da tempo consolidata del popolino napoletano, di cuocere i maccheroni per strada e condirli con il sugo di pomodoro. A ridosso del 1830 diventa popolare come ingrediente anche nella pizza, la cui fama comincia a diffondersi nelle “stanze”, le prime pizzerie. Ci penseranno i nostri immigrati a insegnare al mondo che il pomodoro non è un veleno, portando pizza e pasta un po’ ovunque.   


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