Muore Berlusconi e via, subito viene avviato il cerimoniale agiografico in sua memoria. Tante lodi e poche critiche. Amante del calcio e del suo Milan, non lo era di certo della cultura e dell’istruzione. La riforma Gelmini (ma prima c’era stata già la Moratti), varata dal quarto governo Berlusconi, è stata una manovra che ha imposto un impudico taglio finanziario a quanto di più prezioso possa avere un Paese, ossia l’educazione della propria gioventù. Il provvedimento - pensato a tavolino con l’altro ministro Tremonti - mandò a casa migliaia di insegnanti, ridusse le ore d’insegnamento settimanali, accorpò le piccole scuole (più di duemila) a centri più grandi e quindi più caotici, ridicolizzò la scuola professionale e tecnica, smembrò e delegò funzioni, tagliò 8000 milioni di euro all’istruzione per tre anni e poi altri 3000 milioni per quelli seguenti. Questo il macropanorama: nel dettaglio, fece anche sparire la carta dalle scuole, da quella da usare ai cessi, a quella per le fotocopie. Una riforma d’autore, firmata da una che sta ancora cercando il tunnel che collega il Gran Sasso con il Cern di Ginevra.
L’eredità della riforma è stato
il baratro. La conseguenza più grave è stata quella di aver aperto una breccia
educativa generazionale che si è ampliata con i governi successivi, dalla
“Buona scuola” di Renzi agli incoerenti tentativi dei suoi successori. I
risultati? Oggi, più di uno studente su due della scuola superiore prende
ripetizioni e arriva all’università impreparato. Le prove Invalsi del 2023 hanno
dimostrato che il 48% degli studenti giunge all’ultimo anno delle Superiori in
carenza rispetto al livello base di preparazione, con la percentuale che si
aggrava mano a mano che si scende verso sud (il 70% degli studenti meridionali
non compie con i requisiti minimi nello studio della matematica). Sulla lingua
straniera si stende invece un velo pietoso, quasi nessuno sa esprimersi in
inglese. Inoltre, in soli quattro anni si sono persi dieci punti percentuale.
Ignoranti e sempre più ignoranti, insomma. Andiamo all’università. Prova di
ingresso a Medicina lo scorso settembre: è rimasto fuori il 50% dei candidati
(ci sono domande di biologia, fisica, chimica, matematica e logica). Il 7%,
poi, abbandona gli studi universitari il primo anno. La quota di laureati è al
21% (in Costa Rica siamo al 23%), fanalino di coda tra i paesi europei.
Abituati al copia e incolla da
Wikipedia o ai nuovi Bignami digitali (e ora facile preda dell’intelligenza
artificiale), i nostri studenti annaspano in una scuola che non dà riferimenti,
inseriti in una struttura che, invece di essere salda, si ritrova a essere un
cantiere aperto, con regole frammentarie che cambiano a seconda della stagione
politica. Se a pensare male ci si azzecca, la riflessione dello storico
Francesco De Sanctis (“un popolo ignorante non ragiona, ubbidisce”) calza a
pennello su quelli che sono i pilastri del berlusconismo.
Ogni politico ha cercato di fare qualcosa per la scuola italiana e
RispondiEliminase e' stato valido o non valido un provvedimento lascio a voi
immagginare le conseguenze che hanno detrminato sulle giovani generazioni, speriamo in una riforma della scuola pubblica cosi' come si auspica da tempo , ma le riforme necessariamente vanno fatte dalla classe politica egemone al momento , comunque sia e' nella scuola che bisogna produrre il cambiamento sociale.