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mercoledì 21 ottobre 2020

Io sono Sakuran Zensen: il punk è vivo

 

“I am Sakuran Zensen” è l’album dell’anno. C’è poco da fare. Cinque ragazzini giapponesi hanno dato vita a un affresco punk che, in meno di mezzora ripercorre l’energia vitale del 1977 e spacca tutto. La copertina, chiaro riferimento a “End of the Century” dei Ramones, è un immediato manifesto di intenti. Undici pezzi della durata media di due minuti e mezzo, un gioiello (“Taximan”, qui sotto posto il video), schitarrate, urli, riff rock’n roll, atmosfere tiratissime, testi (quasi sempre in giapponese) da battaglia. I Sakuran Zensen buttano fuori quello che hanno da dire e lo fanno con uno spirito d’altri tempi scegliendo un linguaggio, quello del punk, che a più di 40 anni dalla sua apparizione suona come una ventata d’aria fresca nel cimitero musicale attuale. 

Su internet appare ben poco su di loro, tranne qualche accenno sul cantante Yuuki Yamamoto, la cui voce è un po’ il centro dell’edificio compositivo. Il gruppo ha iniziato a proporre la sua musica su youtube, bandcamp e sui rituali canali prima di pubblicare “I am Sakuran Zensen”, dopo un passaparola che dall’Asia è rimbalzato in America e quindi in Europa. I cinque ragazzi hanno voglia di divertirsi e lo fanno con molta determinazione, senza preoccuparsi di produzione, sovraincisioni, loop, autotune e balle varie. Suonano i loro strumenti, cantano, gridano e fanno muovere le gambe. In fondo, suonare è proprio questo: inserire il jack nell’amplificatore, accenderlo e darci dentro. Pochi accordi e tanta passione. Vista la loro fresca spontaneità, a questo punto c’è solo da augurarsi che nessun produttore americano li scopra.


 

giovedì 8 ottobre 2020

Los Saicos: quei quattro peruviani che "inventarono" il punk

 


 

Nel luglio 1963 il Perù elegge come presidente Fernando Belaúnde Terry, un architetto dalla traiettoria democratica. È un’elezione mirata, che congela gli estremismi che l’anno precedente avevano portato la sinistra al governo e quindi provocato il conseguente colpo di stato militare. In piazza erano volate botte da orbi, c’erano stati morti e l’elezione di Belaúnde aveva la chiara intenzione di calmare le acque con un’amministrazione dichiaratamente centrista ed aperta agli investimenti stranieri. Detto, fatto. Il Perù, a partire da quell’anno, si apre al resto del mondo. Sarà per una breve stagione, che durerà fino al golpe di Velasco, nell’ottobre 1968, sufficiente però perché una generazione di adolescenti sogni, canti e balli con la musica di Beatles, Rolling Stones, Elvis, Beach Boys. Con i loro dischi arrivano anche le chitarre elettriche e nel 1964 a Lince, quartiere popoloso della capitale, quattro ragazzi ci provano. Decidono di chiamarsi Los Sádicos, i sadici, poi a qualcuno viene in mente di togliere la d e rimane così Los Saicos. Una coincidenza, per assonanza fonetica in lingua spagnola, con quella ¨Psycho¨ dei Sonics (1965), gruppo a cui i peruviani sembrano essere legati da un filo invisibile attraverso il continente americano. Perché i Saicos suonano come nessuno ha fatto fino ad allora. Loro sono quattro: Rolando Carpio, il Chino (chitarra), César Castrillón (basso), Pancho Guevara (batteria) ed Erwin Flores (voce e chitarra). Flores, in un paese abituato ai bei fraseggi melodici della canción criolla, rompe ogni schema. Non canta, infatti, ma urla, ed il suo screaming viene incitato dal fratello Harry, che si improvvisa manager e riesce a far esibire il gruppo al concerto annuale della Cadena de Comentaristas de Discos del Perù. Ambiente da canzone romantica, bigottoni in platea, qualche pezzo di gruppi popolari dell’epoca e poi i Saicos che suonano ¨Come On¨ (non quella di Chuck Berry). È come passare un’unghia su una lavagna, ma dopo i primi secondi di silenzio, la platea è in piedi ad applaudirli. Da quella serata i Saicos ne escono due contratti: uno discografico ed uno televisivo. ¨Come On¨ diventa il primo di sei singoli –usciti tra il 1965 ed il 1966-, tra cui ¨Demolición¨, che diventerà il loro hit: surf, proto punk, garage ed Erwin Flores che anticipa Lux Interior di una buon decennio con un urlo –il tatatata yaya in riverbero- che diventa il tormentone di quella stagione.

I giornali peruviani parlano di “vandalismo sonoro”, ma intanto i Saicos riempiono i teatri e passano una volta alla settimana in televisione, con il loro programma ¨La Hora de los Saicos¨. Dopo ¨Come On¨ il gruppo snocciola una serie di hit, tutti rigorosamente in spagnolo e su 45 giri: ¨Cementerio¨, ¨Camisa de Fuerza¨, ¨Salvaje¨, ¨El entierro de los gatos¨, ¨Fugitivo de Alcatraz¨, ¨Besando a otra¨. I dischi sono rigorosamente senza copertina, venduti in busta plastica con una semplice fascia che riporta il nome della casa discografica. Si trovano nei mercati popolari, il vero emporio di Lima, dove si vendono assieme alla frutta e alle spezie. Los Saicos suonano dal vivo a ritmo stakanovista, a volte perfino cinque volte al giorno in cinque posti differenti, facendo il giro dei cinema e dei teatri della capitale. Il successo sembra debba durare in eterno, ma come il clima politico prossimo a cambiare, anche l’entusiasmo per i Saicos si raffredda e quando il generale Velasco rovescia il governo democratico, restringendo le libertà individuali, il gruppo si scioglie. I Saicos sono logori: bisticciano tra di loro, non compongono più e non riescono a rispondere alle esigenze della compagnia discografica che gli chiede materiale nuovo per un LP. Insomma, mancano le idee. Erwin Flores, la voce demenziale, prova prima la carriera solista in patria ed in Argentina (senza fortuna) e poi se ne va negli Stati Uniti, dove si laurea in fisica e lavora prima alla Nasa e quindi in una multinazionale farmaceutica. Castrillón lo segue a ruota. A Lima rimane solo il batterista, Pancho Guevara. Storie normali per chi conosce la musica e la sua quotidianità.


Passano gli anni e, alla fine dei Novanta, qualcuno in Spagna si ricorda di loro ed assembla i 45 giri dei Saicos in un cd, ¨Wild Teen Punk from Perù¨ per la Electro Harmonix. È l’inizio della Saicomanía, un’onda inarrestabile che si propaga prima sulle fanzine, poi sui siti internet ed arriva quindi sulle pagine dei giornali specializzati e dei quotidiani. Riascoltando i pezzi, alcuni critici non hanno dubbi ad attribuire la primigenia del punk al quartetto di Lince. Nessuno dei membri originali dei Saicos è al corrente dell’operazione ed il primo a rendersene conto è Erwin Flores, che trova il disco in un negozio. I giornalisti lo cercano e lui, fedele al personaggio dell’urlatore di ¨Demolición¨ si comporta da vero punkster quando gli chiedono la relazione tra Saicos e punk: ¨il punk è una musica di merda, per gente che non sa una merda di musica¨ dichiara. Più punk di così, non si può, altro che fisico della Nasa. Nel frattempo il Chino Carpio è morto, ma Flores ritrova l’amico Castrillón -per caso vivono entrambi nella zona di Washington DC- ed insieme prendono la palla al balzo e ricostituiscono il gruppo. Nel 2010 li rivogliono a Lima, nel quartiere Lince dove sono nati e cresciuti, a ridosso dell’oceano Pacifico. Suonano in Perù dopo 45 anni dai loro esordi e per l’occasione, proprio nel loro quartiere, viene scoperta una targa che ne ricorda le gesta. Il  Comune, addirittura, gli dedica una via. La Saicomanía non si placa ed il film-maker Héctor Chávez realizza il documentario ¨The World Should Know¨: il segreto meglio conservato dei Sixties è infine rivelato al mondo intero. Il punk, insomma, è nato in Perù.

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Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...