Il trabocco, la macchina pescatoria dannunziana, è lì, muto monumento dell’ingegno umano a fronteggiare il mare e i suoi umori. Non è l’unico. Da Ortona a San Salvo ce ne sono più di una ventina -il censimento dice ventitré- e sono parte di un litorale, quello chietino, che è stato fonte d’ispirazione per il vate abruzzese d’eccezione, Gabriele D’Annunzio.
Lo scrittore vive a San Vito
Chietino una stagione tormentata assieme all’amante Barbara Leoni. Entrambi
fuggono dalla noia dei rispettivi matrimoni e si calano nella solitudine
agreste di un rustico situato in località San Fino, “una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e
gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii”. È
l’estate del 1889 e quella esperienza lo spinge a scrivere “Il trionfo della
morte”, ultimo capitolo della Trilogia della Rosa. Barbara diventa Ippolita, la
protagonista del romanzo e i trabocchi della costa chietina assurgono a parte
imperante del paesaggio. Non solo. L’etimologia del trabocco Turchino, che si
insinua nel mare di fronte a un lato di quello che oggi è il promontorio
dannunziano, risale proprio a un passaggio che si trova ne “Il trionfo della
morte”:
-Chi è Turchino?- chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna,
attratto da quelle cose misteriose. -L’uomo del trabocco?-. E si ricordò di
quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui
sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi
scintillanti. -Sì, signore. Guarda là. Se hai buona vista, lo puoi scorgere.
Stanotte pesca con la luna. E Candia indicò sulla scogliera nerastra la grande
macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che
biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro di un anfibio antidiluviano.
Quello scheletro di legni,
argani, reti era parte del litorale chietino sin dalla metà del XVIII secolo.
Nato come approdo per le navi di piccolo cabotaggio che ricevevano il materiale
dissodato delle campagne, era stato trasformato con il tempo in un complicato
strumento di pesca. Ad idearlo erano stati proprio i contadini, che avevano
trovato così la maniera di domare l’arte della pesca senza mettere i piedi in
acqua o ricorrere a un’imbarcazione. Nei tempi di magra, quindi, potevano ricorrere
al mare per la loro sussistenza. Un’idea semplice che alimentava un sistema
macchinoso.
I trabocchi hanno incuriosito non
solo D’Annunzio, ma anche Pasolini e Dacia Maraini che ha dato una sua
interpretazione al loro uso: “Cosa ci
dicono infine questi trabocchi sorpresi nel loro lirico incanto? Che l’opera
umana è sempre macchinosa e fragile, basta un soffio per distruggerla. Ma proprio
la sua fragilità è anche la ragione della sua resistenza... sta a simbolizzare
la patetica eppure grandiosa capacità dell’essere umano di credere nel futuro
nonostante l’amarezza e la piccolezza del suo destino”.
Il trabocco oggi è stato svilito
dal turismo. Seguendo l’imperante moda di proporre la ristorazione nei luoghi
più improbabili, buona parte di quelle costruzioni funzionano come ristoranti,
proponendo menu stellati per il piacere di pochi. A mantenere la memoria dei
tempi passati, il trabocco Turchino, ristrutturato e trasformato in un piccolo
museo di cultura popolare, salvaguarda la storia della gente comune. Vale una
visita.
