mercoledì 21 settembre 2022

Il pomodoro, dolce veleno della cucina italiana

Senza pomodoro non si fa la pizza. Senza pomodoro non si fa il sugo per la pasta e nemmeno si può preparare una caprese. Insomma, senza pomodoro, la cucina italiana sarebbe un po’ persa o, quanto meno, irriconoscibile. Presente dalle Ande al Messico, probabilmente coltivato dagli aztechi, da cui prende il nome (xictomatl e in alcuni paesi dell’area centroamericana viene ancora indicato come “chiltoma”) il pomodoro sbarca a Siviglia a metà del XVI secolo. Eppure, non fa il botto. Quel frutto di color giallo (ed ecco perché gli italiani lo chiamano da subito pomo di oro) viene ritenuto pericoloso e potenzialmente velenoso, per la presenza di un alcaloide, la tomatina, e usato quindi solo a scopi ornamentali.

A differenza di quanto si possa pensare, la diffusione dei prodotti provenienti dall’America fu abbastanza lenta in Europa. La patata, il pomodoro, il mais, il peperone, i fagioli –per citare i più popolari- furono considerati per lungo tempo delle stramberie esotiche. Il parere negativo (“pianta dal sapore puzzolente e dalle foglie tossiche”) formulato dal botanico inglese John Gerard autore del trattato “Herball” (1597) fu decisivo per bandire il pomodoro dalle tavole inglesi e nordeuropee per lunghissimo tempo. Questo rifiuto rimase radicato anche negli Stati Uniti e fino al XIX secolo, se si pensa che un filosofo e saggista di fama come Ralph Waldo Emerson reputava il pomodoro “un oggetto orripilante e velenoso”. Gli italiani furono più benevoli. Castore Durante, botanico umbro, già nel 1585 nel suo “Herbario nuovo” scriveva che i pomodori si mangiano come le melanzane, ossia “con pepe, sale e olio” anche se, aggiungeva, “danno poco o cattivo nutrimento”.

È Antonio Latini, cuoco nel vicereame di Napoli, a vincere ogni diffidenza e  a deliziare per la prima volta i commensali con la “salsa di pomodoro alla spagnola”. Siamo nel 1694 (più di duecento anni dopo la spedizione di Colombo) e nel suo trattato “Lo scalco alla moderna”, Latini scrive: "Piglierai una mezza dozzina di pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra la brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v'aggiungerai Cipolle tritate minute, a discretione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo, o Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l'accomoderai con un po' di Sale, Oglio, e Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, o per altro".

Mentre in Germania e nel Nord Europa si continua a pensare che il pomodoro possa trasformare le persone in lupi mannari, in Italia si inizia a coltivarlo e a servirlo in tavola. Il primo riferimento ufficiale dell’uso del pomodoro in cucina si deve al trattato “Il cuoco galante” (1778), che presentava le ricette del napoletano Vincenzo Corrado che a corte coglie le potenzialità gastronomiche di questo prodotto, cominciando ad aggregarlo alla carne, al pesce, alle uova e, ovviamente alla pasta. Ciononostante, il pomodoro continua a essere considerato, nelle tavole degli aristocratici e dei borghesi, una trovata eccentrica. A renderlo popolare ci penserà la gente comune, la stessa che a Palermo sopravvive grazie agli avanzi della cucina dei nobili (creando stigghiola, mievusa e quarume) e che a Genova, da ingredienti di scarto –come i pinoli e il basilico- si inventa il pesto. Nel 1839, nel ricettario di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, appare la prima ricetta ufficiale dei vermicelli al pomodoro, che mette per scritto la pratica quotidiana già da tempo consolidata del popolino napoletano, di cuocere i maccheroni per strada e condirli con il sugo di pomodoro. A ridosso del 1830 diventa popolare come ingrediente anche nella pizza, la cui fama comincia a diffondersi nelle “stanze”, le prime pizzerie. Ci penseranno i nostri immigrati a insegnare al mondo che il pomodoro non è un veleno, portando pizza e pasta un po’ ovunque.   


martedì 16 agosto 2022

Come avvicinarsi al romanzo noir latinoamericano

Sabato 3 settembre 2022, alle ore 10 Costa Rica (ore 18 in Italia) si terrà la webinar “I colori del giallo” con gli scrittori Erica Arosio, Flavio Villani e il sottoscritto. Organizza la Dante Alighieri di San José e la partecipazione è libera, come attività ai margini della XXI edizione della Feria Internacional del Libro en Costa Rica. Avvicinandoci a quella data, ne approfitto per parlare un po’ di romanzo noir in vari contesti. Cominciamo con una pennellata generale sull’America Latina.

 

Nel momento di maggior interesse in Italia per il romanzo noir, rimane ai margini il giallo latinoamericano, complice probabilmente la vasta varietà proposta dall’offerta nazionale. Il nostro noir di matrice mediterranea ha fatto molteplici proseliti, si è moltiplicato lasciando le piacenti sponde per internarsi perfino nel regionalismo. Il noir italiano è comodo e sicuro: trasuda melanconia, offre scene domestiche che ci sono familiari, c’è il mare (o la nebbia, a seconda del luogo) e ci sono quei cari momenti di pausa in cui perfino il crimine più efferato viene messo da parte perché si va a tavola. Leggere i nostri autori nazionali vuol dire riconoscersi, ribadendo l’italianità con i pro e contro della nostra indole.

Andare all’estero ci obbliga a uno sforzo.  Dobbiamo addentrarci in un universo sconosciuto di cui abbiamo pochi e incerti riferimenti; ancora di più quindi se si tratta di America Latina. Eppure, vale la pena di soffermarsi sul romanzo noir latinoamericano. Nelle sue pagine troviamo l’urgenza, il dramma, la politica, l’abuso di potere e la situazione sociale, elementi che scardinano l’auto compiacimento su cui sono settati gli eroi statunitensi e del Vecchio continente. Cuba, Argentina, Cile, Messico, Perù. Il romanzo noir esplora le trame oscure non solo dei personaggi, ma di un’intera nazione: “come si può scrivere un giallo in un paese dove il crimine è fondamentalmente un crimine di Stato?” si chiedeva Paco Ignacio Taibo II. La risposta è conseguente: implicando il potere, smascherandone le sue trame. Il romanzo noir, la novela negra, in America Latina è prima di tutto denuncia. È narrare e descrivere nel profondo la realtà. Dalle dittature e dai conflitti armati del secolo passato non sono nate delle democrazie virtuose, ma sistemi di governo che, da destra a sinistra passando da un centro cinico e indifferente, non risolvono le istanze della gente comune. I personaggi offrono una visione drammatica della storia contemporanea, non si esauriscono all’interno di un cliché. Il detective, o la persona che si trova a investigare –che a volte è pure complice- denuncia non solo il crimine, ma tutto un sistema, rivelando quello che il potere si affanna a voler nascondere. È la realtà attuale, quella che si vive nel quotidiano, a esprimersi. Facciamo i nomi: è il 1994 quando Luís Sepúlveda pubblica “Nombre de torero” (“Un nome da torero”), romanzo che da solo potrebbe definire il genere. Prima di lui, però, già Rolo Díez, argentino con alcuni titoli su Tropea Editore e il cileno Ramón Díaz Eterovich, ideatore della serie del commissario Heredia (ma in Italia poco pubblicato), avevano tracciato la specificità del genere. Qui, la narrativa è alla pari del reportage, il gioco è per duri. Chi scrive si espone in prima persona per smascherare il terrorismo di Stato e i giochi di potere facendo della letteratura gialla il terreno di scontro (e ricordiamo che alcuni autori, in tempo di regime, si erano trovati dall’altra parte della barricata armi in mano, come lo stesso Díez o Raúl Argemí -in Italia edito da La Nuova Frontiera-). Paese che vai, scheletri che trovi, come nel Perù di Santiago Roncagliolo, dove la novela negra si fonde con gli accadimenti storici di un paese devastato da Sendero Luminoso e dalle dittature (lo trovate su Keller e Garzanti).


Le distinzioni regionali sono obbligatorie in un contesto ampio come quello latinoamericano. Abbiamo parlato di alcuni tratti comuni, ma non si può generalizzare. Il noir tropicalizzato di Leonardo Padura (edito da Bompiani) ha il respiro della vereda. Cuba è quello che è, uno trae le proprie conclusioni e Padura a Cuba ci vive e non ha intenzione di andarsene: “questo è il mio territorio, è il mio posto e ho deciso di restarci nonostante le difficoltà e i rimproveri che ho ricevuto”. Provare per credere, ossia leggere le peripezie di Mario Conde, il suo personaggio che è habanero nel profondo dell’anima.

L’ultima raccomandazione: non si commetta l’errore di credere che il romanzo noir di queste latitudini, dopo quello che abbiamo scritto, sia un genere politico. Vale anche in questo caso l’assioma dettato da Vázquez Montalbán: “se un libro è ben scritto, non appartiene a un genere, è buona letteratura e basta”. E se si vogliono cercare le origini del noir latino per dare fondamento a questa affermazione, date un’occhiata a “El complot mongol” (“Il complotto mongolo” rispolverato da La Linea nel 2011), di Rafael Bernal, il diplomatico messicano con il vizio del giallo e a Rubem Fonseca.

sabato 9 luglio 2022

Italo Calvino e la letteratura latinoamericana

A Italo Calvino non piacevano gli scrittori latinoamericani. Così, nella sua attività di recensore presso Einaudi bocciò decine di lavori proprio mentre le altre case editrici, attingevano a piene mani dal calderone del realismo magico e delle specifiche realtà regionali.

Siamo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso e la letteratura latinoamericana è l’ultima frontiera, una sorta di eldorado da cui trarre ossigeno in un ambiente sempre alla ricerca di novità. Il subcontinente soffre di mali endemici e proprio da questa sofferenza nascono voci irripetibili che denunciano protesta, desolazione, povertà, lotta ma dipingono anche mondi fantastici sospesi tra cielo e terra. Feltrinelli “scopre” e pubblica García Márquez, Borges, Onetti, Puig, Manuel Scorza e Alfredo Bryce, oltre al “Diario del Che”. Perfino la moderata Mondadori inserisce nella collana “Medusa” il peruviano Ciro Alegría e Miguel Ángel Asturias. Calvino, invece sulla sponda Einaudi, rimane freddino nei confronti della moda del momento. Lo spiega lui stesso in un’intervista del 1984: “da principio diffidavo degli scrittori e dei poeti latinoamericani perché mi parevano dei personaggi ufficiali. Ora se c’è una cosa che io stesso detesto è il tipo di scrittore che diventa un personaggio ufficiale. E se qualcosa avrei voluto fare nel campo della letteratura con le mie modeste forze, è cancellare dalla mappa del mondo questo tipo di scrittura verso il quale sento dell’odio... mi ero fatto l’idea che gli scrittori latinoamericani fossero tutti così e quindi detestabili”. Una dichiarazione che dimostra l’onestà intellettuale, ma anche il limite politico dello scrittore. Sono gli anni dove la sinistra impone una certa egemonia nel mondo delle lettere e modella la visione della cultura. La cultura deve avere un volto piuttosto che un altro, confessa. Agli scrittori latinoamericani (Calvino ne conosce personalmente molti) manca in certi casi l’originalità e in altri l’universalità. Di conseguenza, non entrano nel suo progetto. Non è facile. L’America Latina fino agli anni Sessanta è prigioniera di uno standard denigrativo, per cui viene ritenuta come una regione incapace di creare cultura valida. Può andar bene per il mambo, ma approfondire, beh è un’altra cosa. Il subcontinente è un luogo pittoresco, ma inadatto a proporre quell’universalità che Calvino propugnava per la sua idea di letteratura. In questo senso, non aveva tutti i torti. Mentre lui si arrovella sulla questione di come risolvere la regionalità (le Ande, l’area rioplatense, il grande Messico, le Antille: non si può generalizzare), gli editori italiani si buttano senza ritegno in quella che, a partire dalla  pubblicazione di “Cien años de soledad” e dalla morte di Che Guevara, diventa la gallina dalle uova d’oro. Il passaggio dal disinteresse più completo all’amore sfrenato avviene in un batter d’occhio. La voracità che segue divora tutto e consegna al lettore la mitizzazione dell’America Latina vista come una sola entità, un luogo incredibile dove tutto succede e tutto è possibile, che accomuna l’etnoletteratura di Arguedas al mondo onirico di Puig; la pentalogia di Scorza alla poesia di Octavio Paz. Il lettore italiano confonde l’America Latina con l’esotica terra delle rivoluzioni e del realismo magico e, giocoforza, qualsiasi scrittore viene accomunato a questi processi. La confusione è completa.

Calvino, intanto, con la sua ostruzione rimane al margine. Preferisce la qualità alla quantità e manterrà questa posizione senza mai farsi influenzare. Tra i latinoamericani salva Julio Cortázar, per cui fece la prefazione di “Storie di cronopios e famas” giudicandole “la creazione più felice e assoluta” dello scrittore argentino, e José María Arguedas. Il peruviano autore di “I fiumi profondi” (Los ríos profundos, 1958), un’opera oggi tanto dimenticata quanto eccezionale, si avvale della prefazione di Mario Vargas Llosa, un altro dei pochi autori che passano l’esame della casa Einaudi. Le successive vicende editoriali dimostreranno come, in Italia, la complessità della letteratura latinoamericana, sia un caso ancora da risolvere.


lunedì 27 giugno 2022

Girolamo Benzoni: le avventure di un milanese nel Nuovo Mondo

Girolamo Benzoni non aveva una grande considerazione degli Spagnoli. Forse perché, quando cominciò la sua avventura in America, Carlo V, sempre più padrone dell’Italia, stava entrando trionfalmente nella sua città, Milano. È il 1541, Benzoni, 22 anni, ha tanta voglia di viaggiare e di lasciarsi le questioni europee alle spalle. Parte alla volta della Spagna e raggiunto il porto di Sanlúcar de Barrameda, si imbarca per le Indie occidentali dove rimane fino al 1547. Cosa succede in quegli anni ce lo racconta proprio lui quando, già maturo, ha rimesso radici in Europa. In particolare, nel 1565 pubblica a Venezia “La historia del mondo nuovo”, il suo diario su quello che ha visto e vissuto nei possedimenti spagnoli d’oltremare.

Il testo va immediatamente a ruba. In Europa c’è fame di sapere cosa accade dall’altra parte dell’Atlantico e la propaganda spagnola, che propone versioni edulcorate della Conquista, sebbene trovi più critici che sostenitori, è quella che fa testo. “La historia del mondo nuovo” viene quindi da subito considerata un’opera che, se non proprio completamente obiettiva, racconta una versione alternativa alla narrativa spagnola. Dei tre tomi in cui è suddivisa, il secondo è quello che attrae l’attenzione, quando Benzoni –dopo essersi dilungato su osservazioni naturalistiche- racconta le proprie avventure personali che lo portano da Acla all’attuale Panama. La sua descrizione di Ciudad de Panamá, che gli Spagnoli definiscono pari a Venezia, è quella invece di una città dal ridotto traffico commerciale dove approda una quindicina di navi all’anno, un porto abbastanza misero, composto da 120 case “cerchiate di canne e parte di legnami e quasi tutte coperte di coppi”. L’abbondanza d’oro di cui si parlava nei primi anni della Conquista è già scemata: “gli Spagnuoli hanno consumato ogni cosa” scrive, annotando come il conflitto con gli indigeni sia tuttora vigente e il luogo pericoloso.

Per toccare con mano, Benzoni si avventura in una spedizione che ha come scopo quello di esplorare la regione di Suerre, nell’attuale Costa Rica. A guidarla è Diego de Gutiérrez, nobile castigliano, primo governatore della provincia di Nueva Cartago. La storia è conosciuta. Il governatore fonda Santiago, sulle sponde del Reventazón, la abbandona per un luogo ritenuto più sicuro e quindi, dopo aver ricevuto la visita dei cacicchi Camaquiri e Cocorí, li fa imprigionare per chiedere un riscatto. Gli indigeni si ribellano e fanno terra bruciata attorno agli Spagnoli. In fuga per le montagne del massiccio del Chirripó, gli europei vengono raggiunti e sopraffatti. Gutiérrez viene ucciso e Benzoni si salva per miracolo, riuscendo a raggiungere la costa e a imbarcarsi di nuovo per Panama e quindi per la provincia del Guatemala.

Benzoni, per tutta la narrazione, non  riesce a prendere le parti degli Spagnoli. È turbato dal loro comportamento e si fa portavoce del punto di vista degli indigeni. Conversa con un cacicco e ne riporta le sue opinioni sui cristiani: “dimandano oro e argento... non vogliono lavorare, son bugiardi, giocatori, perversi e bestemmiatori”. Allo stesso tempo dà una vasta descrizione degli usi e costumi dei vari popoli ed è grazie a lui che sappiamo che le genti di Cocorí dalla lingua “buonissima da imparare”, chiamano “cici” gli uomini e la Terra “Ischa”. Benzoni si sofferma sulla fauna atlantica, ricca di “porci montesi e tigri ferocissimi” e popolata da un’infinità di pipistrelli che obbligano i soldati a dormire fasciati per non essere morsi durante la notte. Fornisce anche dei disegni che ci mostrano alcuni aspetti della vita degli indigeni: la raccolta delle arachidi, i balli, le capanne, la cura del fuoco, il modo di pescare. 

Nonostante le disavventure militari vissute, Benzoni non parteggia per gli Spagnoli, che reputa crudeli (il più crudele tra i popoli, addirittura) e rosi dall’avarizia. “La historia del mondo nuovo” viene a confermare il dissenso espresso da Bartolomé de Las Casas che nel 1552 aveva pubblicato “Brevíssima relación de la destruyción de las Indias” trattato che fustigava i metodi usati dall’Impero spagnolo nel suo processo di conquista. Benzoni prosegue su quello stesso cammino. Nel suo libro sembra voler darci una descrizione imparziale del Nuovo Mondo ma poi, mano a mano che ci inoltriamo nella lettura, la narrazione cambia e ne viene fuori un atto di accusa contro i metodi degli Spagnoli. Denuncia apertamente l’ipocrisia della carità cristiana che camuffa maldestramente il processo di spoliazione di una regione tanto vasta quanto ricca. I vanagloriosi Spagnoli “dicono che son degni di gran laude perche hanno convertiti e fatto christiani tutti gli popoli” scrive Benzoni, ma per mezzo di “dispietate crudeltà che hanno usato fra di loro”. E non si salva nessuno: soldati, governatori, preti, tutti partecipano al grande gioco del saccheggio. Per chi volesse approfondire, oltre al testo originale consigliamo “Un milanese nel Nuovo Mondo. Le Indie di Girolamo Benzoni” di Carlo Angelo Tosi, edito da Edizioni Saecula (2017).



giovedì 21 aprile 2022

Per rilanciare il pacifismo di Carlo Cassola

Scrittore e pacifista, Cassola ha segnato attraverso la sua letteratura buona parte del Novecento italiano. L’autore di “La ragazza di Bube”, narratore di microcosmi e di storie personali, di passioni individuali e luoghi dell’anima, fu uno dei pochi, in epoca di ideologie settarie e di poca apertura, a oltrepassare gli schieramenti e a prendere una ferma posizione sulla pace e il disarmo.

Cassola dovette subire anche accuse impietose, come quelle mossegli da Italo Calvino in un famoso articolo apparso su “Il Giorno” nell’ottobre del 1970. Nella sua analisi, Calvino riduceva Cassola a uno scrittore di “romanzi sbiaditi” con pochi e rarefatti elementi narrativi e con un intimismo esagerato spesso comprensibile solo all’autore. Contro la sua letteratura si schierarono in tanti: Pasolini, Sanguineti, Bassani, Ginzburg lo tacciavano di romanziere d’evasione. Il problema, però, era un altro. Cassola non era uno scrittore impegnato. In un’epoca in cui gli intellettuali ex partigiani continuavano la loro lotta sulla carta stampata, le storie interiori di Cassola apparivano prive di significati tangibili.

È a questo punto che lui, combattente partigiano nel Volterrano, narratore delle “cose ai margini”, inforca decisamente la strada del pacifismo. La sua scelta parte da una personale profonda revisione della propria produzione e dalle critiche ricevute. A chi lo biasimava di non scrivere romanzi impegnati (dove, per impegno, si indicava una precisa posizione politica e sociale), Cassola risponde prendendo una propria e innovativa posizione, nel panorama culturale italiano, e a metà degli anni Settanta prende la strada dell’antimilitarismo. “ll problema dei problemi è quello di un nuovo assetto politico mondiale” afferma in un’intervista alla Radio Televisione Svizzera del maggio 1976 “dove il mondo è minacciato dall’annientamento”.

Il vero impegno, per Cassola, è questo. Chiede alla cultura e al giornalismo di fare sentire una voce ferma che ripudi la guerra. In caso contrario si assisterà alla “sconfitta dell’umanità che, accecata, commette un suicidio di massa. L’umanità che lascia il potere in mano agli imbecilli”. Il rischio di un terzo conflitto mondiale è latente, la crisi di Cuba del 1962 l’ha dimostrato, eppure la risposta del mondo intellettuale all’appello di Cassola è tiepido.

Il cambio di direzione di Cassola corrisponde con la fine della sua relazione con la casa editrice Einaudi. Una relazione lunga ma tormentata con un comitato editoriale che non sempre l’ha difeso e che anzi, spesso, ha fomentato proprio le critiche al suo lavoro. Approdato da Rizzoli, Cassola porta la sua rivoluzione pacifista nelle scuole, in accorati interventi nelle università durante uno dei periodi più caldi della nostra storia recente, gli anni del terrorismo. Le scuole sono un calderone, dove si è infiltrato il pensiero della lotta armata e dove non è facile far passare il pensiero pacifista.

Ogni stato sovrano armato è garanzia che la terza guerra mondiale verrà e distruggerà il mondo” dichiara. I governi democratici non rappresentano nessuna garanzia di pace. Alla pari di quelli dittatoriali e guerrafondai si armano per scatenare in qualsiasi momento un conflitto di proporzioni devastanti. Convinto che l’Italia possa rinunciare alle armi convoca nel 1979 il primo congresso della Lega per il disarmo unilaterale. Volevate un impegno? Eccolo qui, saldo e reale. La pace è uno schieramento che non ha bisogno di ideologie o di bandiere di partito, è trasversale e univoco. Le ambiguità, quelle sì, sono della politica.

lunedì 11 aprile 2022

Per una cultura di pace: l'esempio del Costa Rica

Il primo dicembre 1948 dovrebbe essere una data da ricordare su tutti i libri di storia. Una data da commemorare e da celebrare, ma che rimane sconosciuta ai più perché anomala in un contesto globale dove la guerra è di casa. È questa, infatti, la data in cui il Costa Rica rese effettiva la sua rinuncia all’esercito, diventando il primo paese demilitarizzato al mondo. L’articolo 12 della Costituzione proibisce l’esercito: Se proscribe el Ejército como institución permanente. Para la vigilancia y conservación del orden público, habrá las fuerzas de policía necesarias… Poche parole che, però, sono tra le più rivoluzionarie che siano state scritte lo scorso secolo: niente esercito, un’altra via è possibile.

Nel 1955, l’unico strappo alla regola: un’invasione dal Nicaragua da parte di forze ostili al governo con l’appoggio della dittatura somozista. I ticos se la cavarono da soli, organizzando la difesa e liberando quindi le città occupate dagli invasori, ricacciandoli oltre confine. Un ulteriore passo verso la smilitarizzazione è venuto nel 1984, con la Legge di Neutralità Perpetua. Proprio nel momento più cruento delle guerre centroamericane, il Costa Rica promulgava la neutralità, ribadendo la sua tradizione anti-militarista. Nel 1990 tocca a Panama sopprimere l’esercito. Da allora, la frontiera Costa Rica e Panama è l’unica frontiera demilitarizzata del mondo.

Non voglio un esercito di soldati, ma un esercito di maestri”: le parole di José Figueres Ferrer, il presidente che proibì l’esercito, risuonano come un monito oggi per chi continua a perseguire fini di distruzione camuffati da slogan pacifisti. L’armamento toglie soldi all’educazione, alla sanità, alla cultura, all’ambiente, alla società in generale, rendendoci più poveri e ammaestrandoci al nazionalismo e alla cultura di odio. L’Europa di oggi si è disamorata della cultura di pace e si trova in ostaggio della peggiore generazione che la politica possa aver prodotto. La parola pace è da lungo tempo travisata sui mezzi d’informazione, con lo scopo di abituarci al suo erroneo uso (pensiamo, per esempio, al termine “missione di pace”), le guerre vengono preparate con largo anticipo, i popoli sono povere pedine calpestate da interessi di pochi padroni.

L’assenza di un esercito ha molti nemici. Non conviene a nessuno. Il Costa Rica viene periodicamente additato da queste critiche. Gli attacchi sono trasversali e provengono sia da sinistra (tanto, in caso di invasione vi aiutano gli Usa) che da destra (per l’effettiva difesa dei confini, l’esercito deve essere ripristinato). Invece no. 74 anni di cultura pacifista si sentono e si respirano tra la gente. Ogni tico è orgoglioso di poter affermare di vivere in un posto che rasenta il paradiso, proprio perché i carri armati, i missili, i fanatici militaristi appartengono a un altro mondo: all’inferno, quello che si è costruito in Medio Oriente, in grandi regioni dell’Africa e che ora bussa alle porte dell’Europa.

Il Costa Rica ha l’opportunità di dire al mondo con autorità morale verità scomode però certe. Verità che parlano di come la spesa militare nel mondo, durante la pandemia, è aumentata”. Così si è espresso lo scorso primo dicembre, il presidente Carlos Alvarado, durante il protocollo della celebrazione dell’abolizione dell’esercito. In settanta anni, in termini economici il Costa Rica ha potuto investire nel benessere della propria gente, mantenendo una crescita del PIL attorno al 2,44% annuale, dato che, con spese militari, si sarebbe ridotto notevolmente. Gli investimenti sono stati diretti a tutti i settori che permettono a un popolo di essere civile: salute, educazione, energia pulita, riforestazione, cultura, solidarietà. Chiedete in giro. L’esercito qui non rappresenta nulla.

martedì 8 marzo 2022

La costruzione del mostro / La construcción del monstruo

È uscita in questi giorni la versione in spagnolo di “Il mostro di Armendáriz”, edito da Uruk Editores, libro su cui voglio spendere alcune parole. Sono incappato nella vicenda del mostro di Armendáriz quando mi occupavo di America Latina come corrispondente. Era una storia su cui già al tempo si era posata molta polvere, poco conosciuta nello stesso paese dove si era svolta, il Perù, nazione che anzi cercava di dimenticarsene. Succede. A volte i popoli caricano il peso di avvenimenti che, all’appuntamento con la Storia, si rivelano imbarazzanti o, ancora peggio, ignobili.

La vicenda si svolge in un periodo storico ben definito (il regime di Manuel Odría), ma ai fini del nostro scopo, la sua ubicazione geografica e temporale, ha un’importanza relativa. La storia che si racconta, infatti, appartiene all’umanità o, ancora meglio, alla disumanità che è caratteristica comune del nostro genere. Il “Monstruo de Armendáriz” è, infatti, una storia che si ripete ovunque, in tutte le società e in ogni tempo. È la costruzione del diverso, del reietto, del mostro. È la storia del lato oscuro dell’animo umano, di quella parte che viene consumata dal male e che, da singola voce, si trasforma nel grido osceno di un’intera società. È l’urlo perverso di chi chiede la guerra, di chi violenta i diritti, di chi giustifica le aberrazioni, di colui che, attraverso i suoi canali privilegiati –stampa, politica, forze dell’ordine, qualsiasi tipo di autorità- manipola l’opinione pubblica. È l’istinto primitivo del branco che attacca il singolo individuo.

Non c’è nulla di nuovo nel “Monstruo de Armendáriz”, solo la consapevolezza che il potere della collettività è un’energia instabile, che viene usata più per fare del male che per fare del bene. Nel contesto generale spicca la storia individuale del capro espiatorio di turno su cui ricade la furia del gruppo, prototipo estremo della nostra povertà morale. Attenti, quindi: ognuno di noi potrebbe diventare il prossimo mostro.


Sale en estos días la versión en español de “El Monstruo de Armendáriz”, publicado por Uruk Editores, libro al cual quiero dedicar algunas palabras. Me topé con el suceso del monstruo de Armendáriz cuando me ocupaba de América Latina como corresponsal. Era una historia sobre la cual se había posado mucho polvo, poco conocida en el mismo país donde había acaecido, el Perú, nación que, además, trataba de olvidarse de tal vil desliz. A veces pasa. Los pueblos cargan con el peso de acontecimientos que, a la cita con la Historia, se revelan embarazosos o, peor, infames.

Aunque el suceso se desarrolla en un periodo histórico bien definido (el régimen de Manuel Odría), a efectos de nuestro propósito su ubicación geográfica y temporal tiene una importancia relativa. El desenlace no pertenece a un lugar y a una época distinta, sino a la humanidad o, más bien, a la deshumanidad, que es característica común de nuestro género. “El Monstruo de Armendáriz” en efecto es una historia que se repite en toda sociedad y en todo tiempo. Es la construcción del diverso, del marginado, del monstruo. Es la historia del lado oscuro del ánimo humano, de la parte que es consumida por el mal y que, de voz individual, se torna cuando es dirigida en el grito obsceno de una entera sociedad. Es el aullido perverso de quien quiere la guerra, de quien violenta los derechos, de quien justifica las aberraciones, de quien, por medio de sus canales privilegiados –la prensa, la política, las fuerzas del orden, cualquier tipo de autoridad- manipula la opinión pública. Es el instinto primitivo de la jauría que persigue al individuo solitario.

No se cuenta nada nuevo en el “Monstruo de Armendáriz”, solo se remarca la conciencia que el poder de la colectividad es una energía instable, que se usa más a favor del mal que del bien. En el contexto general se destaca la historia individual del chivo expiatorio, sobre el cual recae la furia del grupo, extremo prototipo de nuestra pobreza moral. Atención, entonces: cada uno de nosotros podría volverse el próximo monstruo.

venerdì 25 febbraio 2022

Schiavi, oro e cannibali: il nuovo mondo di Michele da Cuneo

 

Il 25 settembre 1493, Cristoforo Colombo salpa dal porto di Cadice per la sua seconda spedizione verso le Indie Occidentali. La flotta, questa volta, è poderosa: 17 navi, 1500 uomini e, a differenza del primo viaggio esplorativo, c’è un nutrito drappello di religiosi e militari. Colombo, forse per non sentirsi troppo isolato, porta con sè il fratello Giacomo, il figlio Diego e l’amico Michele Da Cuneo, mercante savonese, appartenente a una delle famiglie più influenti di questa città.  

Michele da Cuneo (se si esclude Colombo) è il terzo italiano a imbarcarsi per le Indie. Nella prima spedizione dell’anno anteriore erano presenti altri due italiani: il genovese Giacomo Ricco (Jacome Rico) e un tale Antonio Calabrese, marinaio il cui cognome indicava la provenienza calabra. Di quest’ultimo non si sa quasi nulla, mentre del genovese è noto il triste destino. Ucciso da due compagni per futili motivi, Rico detiene il poco invidiabile primato di essere il primo cristiano a morire nel nuovo continente. Michele Da Cuneo tocca terre americane nei primi giorni del novembre 1493, quando la spedizione giunge alle Antille Minori. Colombo, in segno di amicizia, battezza con il nome di Bella Saonese, l’isola che ancora oggi conosciamo come Saona, sulla punta orientale dell’attuale Repubblica Dominicana.

Uno sguardo al Nuovo Mondo. Da Cuneo viene citato come una delle fonti più autorevoli per definire l’origine di Colombo (“poi che Genoa è Genoa, non è nato uno homo tanto magnanimo et acuto del facto del navicare como il dicto signor armirante” sostiene) e viene ricordato soprattutto per la “Lettera a Gerolamo Annari” (Aimari), diario del suo viaggio americano, che supplisce alla mancanza di qualsiasi testimonianza scritta di Colombo a proposito della seconda spedizione. La relazione del mercante è importante perché è una descrizione disincantata, spesso cinica, che non deve convincere nessuno. È un reportage rinascimentale, insomma, e come tale è permeato da tutti i pregiudizi dell’epoca. Da Cuneo non si lascia abbagliare dal mito del buon selvaggio o dai fiumi d’oro di cui si dice sia ricca la nuova terra. Per il savonese, gli indigeni non sono altro che merce, individui che non sanno “se fanno male o bene” e che, pertanto, si abbandonano a ogni sorta di bestialità: l’amore libero, la sodomia e il cannibalismo. Imbarcati per trasportarli in Europa, muoiono a decine e i cadaveri vengono gettati a mare: non sono uomini atti alla fatica, temono il freddo e hanno vita corta. Un affare poco redditizio, insomma. In quanto alla società indigena, il mercante ha il tempo di annotare: “Le femine sono quelle che fanno tutto; li òmini solo attendeno a pescare e a mangiare”.

Colombo, a un certo punto, gli regala “una Camballa belissima”, una cannibale, della quale il savonese approfitta sessualmente. Senza peli sulla lingua, racconta la sua “conquista”: l’indigena non ne vuole sapere di giacere con lui, è una furia e si difende con le unghie. Da Cuneo, allora, prima la fustiga e poi la stupra, restandone pienamente soddisfatto: “nel facto parea amaestrata a la scola de bagasse” scrive.

È intrigato dai cannibali, i veri dominatori di quei luoghi. Le comunità pacifiche sono sempre in pericolo a causa degli antropofagi che compiono razzie, distruggono i villaggi e divorano le persone (con predilezione per gli uomini, più saporiti). Hanno grandi archi, che ornano con piume di pappagalli. Sono forti rematori e guerrieri temibili anche per gli europei.

Quello descritto da Da Cuneo non è il paradiso e non è neanche l’eldorado: gli spagnoli sono ossessionati dall’oro che non trovano, l’entusiasmo suscitato dal viaggio scema con il passare del tempo e con il ritrovamente dei cadaveri dei 39 compagni lasciati in avanscoperta l’anno anteriore. Da Cuneo descrive gli spagnoli in maniera dispettiva: “mentre Spagna sarà Spagna, non mancheranno traditori” annota, parteggiando ovviamente per il connazionale Colombo, ostile a gran parte della spedizione.

Non c’è incontro, ma scontro e allora Da Cuneo si concentra alla parte che più gli interessa dell’avventura: la descrizione naturalistica. È il primo occidentale a descrivere il mais (“non è tropo bono per noi”) e a spiegare come si produce il pane dalla manioca. Allo stesso modo, dà notizie della fauna e della flora tentando di classificare la natura del tropico. Notizie, queste, che Da Cuneo offre non per dovere scientifico, ma per affanno mercantile, con il senso del capitalista che cerca di dare un valore commerciale a quanto sta vedendo per la prima volta.

Con il suo estremo realismo, Da Cuneo descrive le Indie dalla posizione di potere del nuovo arrivato. Pur senza partecipare al successivo saccheggio, il savonese sa già come andrà a finire: gli indigeni sono pari agli animali, la brama per l’oro rovinerà vite e coscienze, il nuovo mondo è territorio da razziare. C’è poco da aggiungere sulla natura umana.

 

giovedì 13 gennaio 2022

L'avventura centroamericana di Giuseppe Garibaldi

Dietro l’abside della Cattedrale di Granada, in Nicaragua, diparte una viuzza di poche decine di metri, che unisce la famosa Calzada a la calle Caimito. Lì, incastonata tra le abitazioni curiali, v’è una modesta casetta in calce bianca che reca una targa: “Aquí en 1851 vivió Giuseppe Garibaldi”. All’epoca era una locanda, “La casa de la sirena” (e la via si chiama ancora così, calle La Sirena) proprietà di un francese e dovette essere ricostruita dopo l’incendio appiccato in città dal filibustiere William Walker nella guerra del 1856.

Garibaldi, quando giunge in Nicaragua, ha 44 anni. Proviene da New York, esule dalla sterile difesa della repubblica romana e dalla morte della sua compagna Anita durante la rocambolesca fuga tra le letali acque di Comacchio. Negli Stati Uniti era arrivato dal Marocco e aveva aiutato Meucci nella sua fabbrica di candele. Quel lavoro, però, non faceva per lui, si annoiava e alla prima occasione prese di nuovo il mare. L’opportunità gliela diede Francesco Carpaneto, amico che aveva armato un vapore e commerciava con il Centro e il Sudamerica. Il 28 aprile i due partono alla volta del Perù, ma ci metteranno mesi ad arrivare. Decidono, infatti, di piazzare alcuni prodotti italiani, importati da Carpaneto, alla Fiera di San Miguel nel Salvador e come base decidono di sistemarsi nella vicina Nicaragua. I due italiani sbarcano a San Juan de Sur il 14 maggio 1851 e prendono alloggio a Granada, nella casa dietro la Cattedrale. Qui rimangono una quindicina di giorni, dal 26 maggio al 12 giugno per poi ritornare più volte durante le peripezie centroamericane. Garibaldi ha l’occasione di visitare altre località del paese: Masaya, León, Chinandega ed El Realejo. Ovunque vada lascia una testimonianza della sua operosità. A Masaya partecipa come muratore alla riparazione di una casa; nella comunità indigena del Monimbò si intrattiene a dare consigli per la costruzione di cesti con una fibra locale, la cabuya; a Granada offre i suoi consigli per installare una fabbrica di candele. Ha pure il tempo di fare la conoscenza di una ricca vedova, la signora Mantilla, con cui si intrattiene più del dovuto.

A Chinandega, il diplomatico britannico John Foster lo incontra e poi scrive al console generale del Centroamerica: “è molto modesto, con un grado estremo di semplicità”. Durante il suo soggiorno si svolge anche uno dei tanti colpi di Stato nel Nicaragua dell’epoca, avvenimento che, però non perturba Garibaldi: i golpisti, infatti, sono giacobini e vedono nel nizzardo un eroe. Garibaldi amava Granada, la cui Calzada defluiva dolcemente verso il grande lago, proprio perché la città gli ricordava un porto di mare. Tentò anche di farsi assumere come capitano del traghetto del Cocibolca, ma il vescovo di León oppose il proprio veto.  

Pur non essendoci testimonianza scritta, è quasi sicuro che Garibaldi approfittò del soggiorno nicaraguense per recarsi a Puntarenas, in Costa Rica, per visitare Giovanni Battista Culiolo, il maggiore Leggero che lo aveva accompagnato nelle peripezie della fuga da Roma ed era stato testimone della morte di Anita nelle valli di Comacchio. Culiolo, lasciata Tangeri, dove era riparato assieme a Garibaldi, aveva scelto di tentare l’avventura in Centroamerica. Stabilitosi in Costa Rica, troverà anche il tempo pochi anni più tardi, di arruolarsi nell’esercito tico per combattere il mercenario William Walker, una decisione che gli costerà il braccio destro, amputato da una cannonata nemica.

Intanto, gli affari con El Salvador non procedono. Garibaldi a metà agosto annuncia che lascerà il Centroamerica per il Perù e, in effetti, il 2 settembre si imbarca con l’amico Carpaneto. Di tutta questa attività, risalta che Garibaldi non ne faccia quasi menzione nelle sue “Memorie” (“In Granada stettimo pochi giorni - e vi fummo accolti gentilmente da alcuni Italiani ivi stabiliti”). Quanto è stato tramandato, infatti, proviene dalla storiografia locale che è invece provvida di dettagli. Garibaldi (che in quel viaggio si faceva chiamare Giuseppe Pane o Ansaldo, “per scansare curiosi e molestie poliziesche”) tratta la parentesi centroamericana con poche righe, ricordando però come, nel viaggio attraverso Panama si ammali di dengue: “In codesto ultimo viaggio, io fui assalito dalle terribili febbri endemiche in quel clima ed in quel paese seminato da paludi. Esse mi colpirono come un fulmine e mi prostrarono - Io, non fui mai, così abatutto dal male come in quell'epoca - e se non avessi avuto la fortuna di trovare degli eccellenti Italiani - tra cui due fratelli Monti - a Panama - e vari buoni Americani - io credo non mi sarei liberato dal morbo”. Insomma, il nostro eroe rischia di morire e l’Unità d’Italia di arenarsi nelle paludi panamensi.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...