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giovedì 7 gennaio 2021

Ulisse naviga nei Caraibi

L’epopea di Ulisse trasposta nei Caraibi. Questa la brillante idea che fa da sfondo alla trama del libro di Antonio Graziosi, “Ulisse nel Caribe”, intreccio tropicale in chiave attuale di peripezie che si fondono con il mito. Innanzi tutto, alcune parole sull’autore, al suo esordio letterario. Nato a Torino, 63 anni, economista, una vita trascorsa in giro per il mondo rappresentando un’agenzia delle Nazioni Unite, Graziosi ha messo infine radici in Costa Rica. Qui ha scritto in spagnolo e pubblicato per Letra Maya “Ulises en el Caribe”, presto redatto anche in italiano per Neos Edizioni di Torino.

La trasposizione è suggestiva. L’Egeo che si trasforma nei Caraibi, Odisseo che diventa Ulises Peralta, un ex carcerato che dopo trentanni di prigione per crimini politici, si mette alla ricerca della famiglia –la moglie amata- in un Centroamerica che diventa a sua volta mito. La lettura trasuda grandi intenzioni. Ci sono i luoghi, peculiari ed emblematici del tropico, immersi nella natura rigogliosa, ma ci sono soprattutto i personaggi, disegnati da Graziosi con una prosa fluida, ricca, che accompagnano il lettore con le loro storie fatali nella ricerca ossessiva in cui è impegnato l’Ulisse moderno. Primo fra tutti, Lucila, la Penelope tropicale che non è solo fugace desiderio di Ulises Peralta, ma protagonista a sua volta, con il proprio tessuto narrativo e la sua peculiare visione della storia.

Il paragone con il realismo magico è dovuto: la presenza esuberante dei paesaggi, la caratterizzazione dei personaggi, le referenze socio culturali, la descrizione di un mondo sospeso tra la realtà ed il fantastico contrassegnano le pagine di “Ulisse nel Caribe”. In concomitanza alle vicissitudini del protagonista, troviamo la presenza simbolica dello squalo balena, il ritornello che affiora periodicamente tra le pagine, il grande pesce che vive la sua esistenza marina in un parallelo allegorico con quella del terrenale Ulisse.

Ed è un mondo sognato ma reale quello che emerge, con aneliti di giustizia e tante contraddizioni, che si scontrano con l’ineluttabilità e le miserie dell’animo umano, segnato da un destino inevitabile.

 

Antonio Graziosi, Ulisse nel Caribe, Neos Edizioni, Torino, 2020.

lunedì 28 dicembre 2020

L'invenzione narrativa: "Il genio maligno" di Rafael Angel Herra

La lettura di Rafael Angel Herra è una costante sorpresa. Nulla è scontato, l’invenzione naviga tra la realtà e la fantasia, ci sbatte come se fossimo su una zattera su un mare in tempesta. Considerato uno dei principali rappresentanti dell’attuale letteratura centroamericana, Herra è stato tradotto in lingua italiana l’anno scorso con “Il genio maligno” (l’originale risale al 2014), edito da Oèdipus. Costaricano, membro dell’Accademia della Lingua di questa nazione, insignito in Italia con il premio “Alfonso Gatto” di poesia, Herra è autore versatile, che fa della pagina terreno di creazione incondizionata usando poesia, narrativa, saggistica con lo stesso intenso peso letterario. La versatilità è padrona della sua penna e questa particolare peculiarità è presente proprio ne “Il genio maligno”.

La trama ha bisogno di poche parole. Aldebarán, personaggio narrante, il Genio, inizia a raccontare una storia, quella di un uomo che è in attesa sulla sponda di un fiume. Non succede nulla, ma senza avvenimenti, non c’è racconto. Il suo unico interlocutore è il cane Diogene che lo sprona ad andare avanti, a narrare, ad entrare nell’anima di quell’uomo solitario, a creare un racconto. Aldebarán inizia così a modellare differenti versioni dell’attesa dell’uomo in riva al fiume. Diogene ascolta e interviene, interloquendo e mettendo alla prova l’instabilità del Genio. E mano a mano che procediamo con la lettura, scopriamo che il fiume non è altro che il tempo, che l’uomo vive la sua vita nelle parole di Aldebarán e conosce fortune e sfortune, gioie e delusioni, avventure e disavventure come qualsiasi essere umano. Fino alle ultime righe, rivelatrici dell’invenzione narrativa del libro.

Il narratore che accompagna il lettore lungo le righe di “Il genio maligno”, Aldebarán, è il sunto della citazione, ma è anche l’espressione del vissuto letterario di Herra, eterogeneo, profondo e sincretico, comune denominatore per chi ama la letteratura, e che paga tributo ai miti greci, a Dante, a Cervantes, a Kafka. Il tempo passa, il fiume scorre, la vita scivola via, ma la storia si ripete: “tutti i racconti sono uno e lo stesso”, afferma il saggio Diogene, cane pidocchioso ma attento ascoltatore.

Dicevo che la trama ha bisogno di poche parole. Non così il contenuto. C’è sagacia e c’è intriga in questo libro. La sagacia di Aldebarán è quella di un folletto che ci vuole ingannare; l’intriga, invece, riguarda il lettore: fino a quando siamo disposti a seguire il suo gioco?. E di domanda ne sorge un’altra: dove va a parare “Il genio maligno”?. Il racconto che non finisce mai, che si rinnova nella pagina seguente, riporta alla memoria certe affascinanti invenzioni letterarie come quella di Italo Calvino di “Se una notte d’inverno un viaggiatore” o quelle presenti in certe pagine di Donald Barthelme, che ci portano a riflettere su quelle che sono le molteplici possibilità che offre la letteratura. “Il genio maligno” potrebbe andare avanti all’infinito, riempire mille pagine, ergendosi a lemniscata letteraria. Tocca un punto che, per chi si vanta del mestiere di scrittore, è controverso ma fondamentale: in fondo, da Omero a oggi, non stiamo sempre riscrivendo la stessa storia?

Un ultimo appunto. Il libro è accompagnato dalle illustrazioni di Mónica Salazar Arce, corollario che dà al volume eleganza e unicità.

 

Rafael Angel Herra, Il genio maligno, Oèdipus editore, Salerno/Milano, 2019.

martedì 24 novembre 2020

Vita e morte dell'artista: mezzo secolo fa, il suicidio di Mishima

 


Il 25 novembre 1970 era il giorno prescelto. Yukio Mishima, ossessionato dalla perfezione e dai dettagli, aveva preparato con cura la sua uscita di scena. La mattina aveva messo in una busta diretta all’editore il suo ultimo romanzo, quel “La decomposizione dell’angelo” che chiudeva la quadrilogia “Il mare della fertilità” e si era quindi diretto verso il suo destino. Accompagnato dalla propria milizia (la Tate no Kai, la Società degli Scudi), si era avviato ad occupare il ministero della Difesa dove, preso in consegna un generale, obbligava i militari ad ascoltare un accorato discorso perché venisse ristabilita la Costituzione del 1947 e restituire così all’imperatore il suo potere.

“Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”

Colpo di Stato? No. Mishima sapeva che non sarebbe stato ascoltato. L’intero piano è parte di un copione pensato e scritto già da diverso tempo. Le sue parole, come ha previsto, non vengono prese sul serio. La tensione e il dissenso si spargono nel cortile, nel pubblico composto dagli stessi militari che più volte si erano fatti beffe di lui. Com’era da aspettarsi, ottiene solo risa, mugugni, disinteresse. Non resta che essere coerenti, morire seguendo la logica che lo ha accompagnato per tutta la vita. Si ritira dalla balconata, prende la sua katana, torna nell’ufficio del comandante, si siede sul tappeto e si apre il ventre, seguendo l’antico rituale dei samurai. La scena del seppuku è cruenta: Mishima si sventra, mentre un assistente, Hiroyasu Koga, seguendo il rito che indica che il volto del suicida non debba mostrarsi contratto dal dolore, gli mozza la testa. La stessa sorte tocca al suo migliore allievo, Masakatsu Morita, di cui si diceva fosse amante. Le due teste mozzate vengono quindi adagiate sul pavimento. È lì che le trova la polizia.

Mishima aveva 45 anni. Due anni prima era stato candidato al Nobel per la letteratura, superato nel giudizio dal connazionale e maestro Yasunari Kawabata che ebbe a dire: “Non so perché mi abbiano dato il Nobel quando esiste Mishima. L’umanità produce un genio letterario come il suo solo ogni due o tre secoli”. Mishima era un mare in tempesta. Non solo nella vita privata e pubblica, ma anche nella sua opera, composta da trentaquattro romanzi decine e decine di saggi, racconti, teatro. Nato il 14 gennaio 1925 come Kimitake Hiraoka, aveva pubblicato la sua prima opera nel 1941, ma è nel 1949 con “Confessioni di una maschera” che si fa conoscere in patria e all’estero. Il libro, pubblicato in Italia da Feltrinelli, attira l’attenzione su una letteratura, quella giapponese, rimasta al margine dell’interesse internazionale. Quella di Mishima è la voce di un paese in ricostruzione, distrutto dalla guerra, ma è una voce fuori dal coro, che non si concede al futuro e al nuovo stato delle cose, ma che perora l’idea di un Giappone autentico. Nel paese è in atto una pericolosa contaminazione destinata a sconvolgere l’anima nipponica.

Mishima, dicevamo era un tornado. La sua sessualità –“Confessioni di una maschera” non è altro che il resoconto dell’evoluzione della sua omosessualità-, l’ideale conservatore, i suoi gesti simbolici (l’apprendimento del kendo e dell’antica arte dei samurai), la fondazione di un gruppo paramilitare lo presentano come un personaggio che poco somiglia alla classica figura dello scrittore chino sui libri.

Tacciato dalla nostra critica sbrigativamente come vicino al fascismo, Mishima incarnava invece l’ideale del Giappone tradizionale, stravolto dalla sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale e spinto dai nuovi alleati a un processo di occidentalizzazione coatto. Lo scrittore voleva salvare il Giappone, la sua anima millenaria che andava dissolvendosi e lo faceva non solo attraverso i suoi gesti estremi, ma ne fissava il suo antico splendore su carta. I suoi libri sono un omaggio e un grido di riscatto di un paese che si è piegato al vincitore, assorbendone i valori e il modo di vita. Il Giappone reale scompare, nasce ora un’imitazione. Riferendosi all’ambito letterario, è la stessa cosa. Nell’ultima intervista concessa pochi giorni prima della morte disse: “A partire da oggi, non ci saranno più autori che si esprimeranno con la lingua dei nostri classici”.

Il senso della tragedia, della dissoluzione, non ci abbandona mai mentre leggiamo Mishima. La soluzione letteraria di certe sue pagine risultano così difficili da sostenere, soprattutto quando questa soluzione sappiamo come si sia espressa nella realtà. È il caso del monaco Mizoguchi che ne “Il Padiglione d’oro” conclude la sua vita con un gesto estremo; o come nell’ultima opera, “La decomposizione dell’angelo”, la cui data simbolica del 25 novembre 1970 appare a suggellare drammaticamente la parola fine della vita e dell’opera letteraria di Mishima. Opera che a distanza di mezzo secolo rimane attuale ed è capace di sorprenderci nella sua visione drammatica di un mondo che va in frantumi.

 

In musica: Dead and Night and Blood, The Stranglers, “Black and White”, United Artists, 1978.


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