giovedì 23 settembre 2021

I 200 anni del Centroamerica: com'è difficile l'indipendenza

Settembre è, in Centroamerica, il mese in cui si celebra l’anniversario dell’indipendenza dalla Spagna. In una festosa e suggestiva cerimonia, ogni anno da Città del Guatemala parte il corteo che trasporta la torcia, simbolo dell’indipendenza, da quella che allora era la capitale della Capitanía fino alla provincia più lontana, quella del Costa Rica, attraversando El Salvador, Honduras e Nicaragua. La fiamma, che rappresenta lo spirito di libertà dei centroamericani, viene accesa il primo settembre nella capitale guatemalteca e raggiunge, il 15 settembre, quella costaricana.

Si tratta di un viaggio simbolico, realizzato oggi a brevi tratti da differenti studenti delle scuole medie, che ripercorre quello svolto nel 1821 da una staffetta che portò nelle varie province centroamericane la notizia che l’assemblea dei notabili riuniti a Città del Guatemala aveva deciso di proclamare l’indipendenza. Assaporata l’autodeterminazione, le cinque province, dopo un periodo di assestamento e un inutile tentativo di federazione, scelsero di proclamarsi ognuna stato nazionale a se stante.

Quest’anno la data racchiude un significato particolare perché Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica hanno raggiunto i duecento anni di vita. Due secoli è un lungo periodo: gli stati che vantano questa longeva vita, normalmente, si fanno forti; si danno istituzioni solide; offrono progresso e benessere ai propri cittadini. Non è stato così. Gli avvenimenti storici, invece di avvicinare, hanno allontanato le nazioni scrivendo pagine spesso sanguinose, risultato di scelte autoritarie e di dipendenza, di fatto, da poteri lontani. Abbandonata la Spagna, i gruppi politici hanno cercato nuovi padroni stranieri in beneficio proprio invece di quello comune, con conseguenze che si continuano a pagare.

Il bicentenario centroamericano trova oggi un panorama poco lusinghiero. I paesi centroamericani sono un insieme geografico ma, allo stesso tempo si mantengono lontani da scelte unitarie, estranei nel riconoscersi come progenie di uno stesso ceppo. I problemi strutturali li indeboliscono e le soluzioni latitano. Ai mali antichi se ne sono aggiunti di nuovi, primo fra tutti il narcotraffico che mina le istituzioni e che si fa forte con il tempo come un cancro all’interno di un organismo. Perfino il Costa Rica, che anteriormente si era distinto come un esempio di sana democrazia nel novero delle nazioni latinoamericane, è caduto nel giogo della facile consuetudine ai trucchi del regime, alla politiquería.

In questi frangenti poco luminosi, mi piace pensare al civismo che dimostrano gli studenti che, con sole, pioggia o pandemia, accompagnano la torcia. Orgogliosi nelle loro uniformi, sostenendo la bandiera, ragazze e ragazzi incarnano, per alcuni struggenti momenti, l’esempio di come debba e possa essere il loro futuro. Nella loro ingenuità ricordano comunque che un mondo migliore è possibile.

Buon compleanno Centroamerica, che non sia troppo amaro.

lunedì 13 settembre 2021

Gli ultimi giorni di Dante

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre di settecento anni fa, moriva a Ravenna Dante Alighieri. La storia è più o meno risaputa. Dante, reduce da un’ambasciata a Venezia, contrasse la malaria nelle malsane paludi di Comacchio e tornò moribondo. Questa versione, la più accreditata, è quella che seguiremo, anche se rimangono ancora tanti punti interrogativi sugli ultimi giorni del poeta. Uno studio sui resti di Dante servirebbe a definire i molti quesiti ancora senza risposta come, per esempio, se sia morto davvero di malaria come finora si è suggerito. 

Cosa ci andò a fare il poeta a Venezia? A Ravenna, sotto la protezione del signore Guido Novello da Polenta, stava bene. Aveva finalmente trovato un mecenate che lo vezzeggiava e l’ambiente ideale per svolgere l’attività letteraria. A smuoverlo dal suo buen retiro fu un conflitto, l’ennesimo in quell’epoca tribolata, che opponeva il suo signore alla Repubblica di Venezia. Al centro della questione, il controllo delle saline di Cervia che già all’epoca dispensavano importanti quantità di sale. Gli attriti tra Venezia e Ravenna erano di lunga data e, dopo l’ennesima minaccia della Serenissima di muovere guerra, Guido Novello decise di affidare l’ambasciata per promuovere la pace all’esperto Dante Alighieri.

Il sommo poeta accettò, ma pensiamo non fosse molto contento di tornare a Venezia dove era stato alcuni anni prima. Dante, in quell’occasione, si era offeso per la maniera in cui era stato trattato dal Senato veneziano, che l’aveva costretto ad interrompere il suo discorso in latino perché nessuno comprendeva quella lingua. A nulla erano valsi gli sforzi di passare al toscano e per continuare e farsi capire, aveva dunque dovuto fare uso di un traduttore. Dante s’incavolò di brutto e considerò di essere stato trattato in modo villano, lasciandosi andare a una delle sue solite invettive, questa volta sulle origini poco nobili dei veneziani.

Nell’agosto 1321 le cose si erano di nuovo messe male per i ravennati. Guido Novello lo pregò di recarsi a Venezia a promuovere la pace e, seppur riluttante, Dante accettò. Aveva all’epoca 56 anni, non proprio un ragazzino soprattutto per i canoni dell’epoca. La sua ambasciata andò male. Dante ricevette un altro sgarbo dai veneziani e, dopo aver atteso invano, non riuscì a conferire con il governo della Repubblica. Inoltre, gli venne proibito di tornare a Ravenna via mare. Si dispose così a un difficile viaggio di ritorno di tre giorni: il primo in barca, necessario per giungere fino a Chioggia; il secondo per raggiungere Pomposa e riposarsi dai benedettini della celebre abbazia e quindi il terzo per arrivare a Ravenna. In mezzo, c’erano le pericolose valli di Comacchio, non solo per i banditi che vi si nascondevano, ma per le zanzare che infestavano le paludi. Detto, fatto. Dante si ammalò di malaria e giunto in città si abbattè sul letto che non avrebbe più lasciato da vivo.

Attorno a lui, ci furono i familiari finalmente riuniti: i figli Pietro e Jacopo, la figlia Antonia e, probabilmente, anche Gemma Donati, la moglie mai citata. Risulta incredibile che solo al momento dell’agonia e quindi della morte, Dante abbia potuto trovare un poco di pace dopo tanto fuggire. Il funerale si tenne nella chiesa di San Pietro Maggiore (oggi dedicata a San Francesco) e il poeta venne tumulato nel cimitero adiacente.

A quel punto, rimaneva un grande cruccio da risolvere. Tra le carte del maestro, mancavano gli ultimi canti del Paradiso. I figli erano sicuri che il padre li avesse terminati, ma nonostante la ricerca non venivano trovati. A risolvere la faccenda intervenne lo stesso Dante. Secondo il figlio Jacopo sarebbe stato proprio il padre, che gli era apparso in sogno, a indicargli dove cercare. Erano incassati dietro una finestretta tenuta nascosta da un tendaggio, già quasi corrosi dalla muffa come racconta Boccaccio nel suo “Trattatello in laude di Dante”: “tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi”. Dante era morto, ma la storia della “Commedia” era appena iniziata.

sabato 4 settembre 2021

Il re è nudo: Napoleone scolpito da Antonio Canova

Ad Antonio Canova non piaceva Napoleone. Il celebre scultore riteneva il corso un saccheggiatore, il responsabile della spoliazione da parte dei francesi delle opere d’arte italiane. Dopo la Campagna d’Italia, Napoleone aveva istituzionalizzato il saccheggio attraverso armistizi capestro che, oltre a porre durissime condizioni politiche e territoriali, imponeva la consegna alla Francia delle principali opere del patrimonio artistico degli stati assoggettati. Canova, all’epoca considerato uno degli artisti europei di maggior prestigio, criticò da subito la politica del “bottino di guerra” voluta da Napoleone per costituire un Museo universale a Parigi, che il generale considerava la culla della cultura europea.

Nonostante la critica e pur avendogli anche abolito il vitalizio che riceveva dallo Stato Pontificio, Napoleone considerava Canova il migliore nel suo campo e lo chiamò nella capitale francese perché lo immortalasse in un busto. Canova declinò l’invito e ci volle l’insistenza di papa Pio VII, da cui lo scultore era a servizio, per convincerlo –anzi, obbligarlo- a prendere la strada per Parigi. Canova vi giunse nell’ottobre 1802 e qui incontrò il Primo console (Napoleone diventerà imperatore due anni più tardi) per cinque sessioni, durante le quali ricavò due busti. Lo scultore si comportò in maniera professionale, ma rifiutò più volte l’invito espresso da Napoleone di stabilirsi a Parigi e tornò a Roma. Come scrisse all’amico Antonio D’Este: “non mi tratterrei qui nemmeno per tutto l’oro del mondo... vale più la mia libertà”.

Napoleone, però, non era sazio. I busti erano poca cosa per celebrare la sua gloria e commissionò a Canova una statua colossale da esporre in una piazza di Parigi. Gli spiegò di voler essere rappresentato come i grandi protagonisti della storia classica, un eroe sospeso tra mito e realtà. Canova gli rispose di non preoccuparsi: l’avrebbe raffigurato come Marte pacificatore. Si mise al lavoro e preparò una statua che raffigurava le richieste di Napoleone, un colosso di quattro metri d’altezza dove il condottiero, come un moderno Cesare, reggeva la lancia in una mano e nell’altra il globo della vittoria.

La statua arrivò a Parigi nel 1811. L’attesa era grande e Napoleone convocò per l’occasione i suoi marescialli e i notabili di Francia. Quando la statua fu svelata la folla e lo stesso Napoleone ammutolirono. L’imperatore era sì ritratto come un dio greco, ma era anche nudo. Se l’assioma classicismo-nudità funzionava per i personaggi dell’antichità, idealizzati e lontani nel tempo, l’effetto sul condottiero in carne e ossa che voleva assoggettare l’Europa intera rasentava il ridicolo. Non ci fu piazza di Parigi ad accogliere il colosso e la statua, su ordine di Napoleone, venne accantonata al Louvre, coperta perennemente da un telo.

La rivincita di Canova venne completata quattro anni dopo quando, in piena Restaurazione, si presentò al Louvre per riprendersi le opere sottratte allo Stato Pontificio. Un lavoro difficile e tortuoso, osteggiato non solo dai francesi, ma anche da austriaci e russi che un po’ avevano cominciato a credere all’idea napoleonica del Museo universale. Cosa che poi, il Louvre, in fondo, non ha mai cessato di esserlo. Più della metà delle opere trafugate da Napoleone in Italia non è mai tornata a casa e quadri, sculture, affreschi, arazzi sono ancora lì a dimostrare come le spoliazioni napoleoniche siano ancora una ferita aperta per il nostro patrimonio artistico. In quanto al Napoleone nudo di quattro metri di altezza è oggi nella casa-museo del suo arcinemico Lord Wellington, l’inflessibile inglese che riuscì a denudare il re sul campo di battaglia e a porre fine alla sua deriva dispotica.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...