sabato 31 ottobre 2020

Il giorno della Santa Muerte

2 novembre, il giorno dei morti, el día de los muertos e, in Messico, il giorno della Santa Muerte. Una tradizione millenaria che affonda le sue radici nel Messico precoloniale, nei riti dei popoli autoctoni, mexicas e aztecas su tutti e che è arrivata sino a noi in un sincretismo religioso che trabocca oggi nel fanatismo. La Santa Muerte è un culto, è devozione: nella capitale, nella calle Alfarería del quartiere di Tepito, il santuario della “niña blanca” riceve decine di pellegrini che giungono in ginocchio, penitenti, per ricevere una grazia. Quello di Tepito, nel 1997, è stato il primo santuario riconosciuto dalle autorità ed oggi la scena di venerazione si ripete in quasi tutto il Messico. A Veracruz, città dove il culto si è sviluppato in origine, i templi per la devozione si riempiono di fedeli che portano offerte, cibo, fotografie, oggetti, ex voto. Piccole sale, adornate di statue, con un palchetto dove l’immagine da adorare riceve tributo, sorgono anonime tra edifici dimessi e negozi. I fedeli sono anonimi, silenziosi, si muovono con circospezione, quasi come carbonari. Perché il Messico crede alla Santa Muerte? 

 

Condannato, deriso da vari settori, inviso alle sfere del potere, non riconosciuto dalla Chiesa cattolica, nonostante il paradosso, il culto alla morte dà speranza. È la soluzione spirituale alla vita grama, alle ostilità del quotidiano: la Santa Muerte non è demonio, ma un essere di luce, un angelo guardiano che procura protezione e favori a chi la adora. Una protezione speciale a cui accudono anche i narcos, che con la morte ballano con frequenza. Sono loro che ne hanno esportato il culto oltreconfine, in Arizona, New Mexico, California, Texas. Per dare legittimità alle azioni nefaste, che altrimenti si scontrerebbero con il loro credo religioso, magnificano un contatto con l’aldilà che ne giustifichi i loro misfatti. La Santa Muerte capisce, li accoglie.

Rappresentata da uno scheletro coperto da un mantello, la Santa Muerte ricorda a tutti l’ineluttabilità della nostra condizione: tutti, poveri o ricchi, dovremo morire. Meglio, quindi riconoscerne il potere, mentre siamo ancora in vita.  (La foto è tratta da un reportage di Ernesto Álvarez).

giovedì 29 ottobre 2020

"NYC", Fuzztones: un portale aperto sul passato

Il nome dei Fuzztones rievoca in me ricordi di un’altra vita e di altri tempi. Ho condiviso con loro la passione eterna per il garage e anche di più: palchi, tour, concerti, esperienze comuni in nome della musica. Poi, passato l’oceano per me è stato come entrare in un universo nuovo, quasi un pianeta lontano anni luce dai giorni del rock’n roll in giro per l’Europa. Gli anni Ottanta e quello che comportavano sono sbiaditi nella nebbia.

In queste condizioni l’ascolto di “NYC”, l’ultimo lavoro dei Fuzztones, è un portale che si apre con voracità sul passato. La scelta di Rudi Protrudi per celebrare i 40 anni della band è sì un tributo al garage e alla propria storia personale, ma è soprattutto il riportare sul banco degli imputati i protagonisti della scena di New York, quelli degli anni migliori. Ramones, Wayne County, Heartbreakers, Dead Boys, Cramps, Patti Smith, Mink De Ville, New York Dolls ottengono qui celebrazione e omaggio. Pezzo dopo pezzo, “NYC” ridà vita a certi riti adolescenziali, come quello della fervente attesa di dischi rivelatisi poi linfa vitale e come quello del primo ascolto, che confermava la comunione di estetica e bellezza con i tuoi artisti preferiti.  

New York all’epoca era lontana e la sua eco musicale era quella del centro del mondo che noi cercavamo di imitare. Suoni grezzi, reali, dalla strada al palco, in un percorso tortuoso dove poteva accadere di tutto. Le esperienze personali correvano sulla linea polverosa e storta del jack che dalla chitarra andava all’amplificatore. La nostra provincia, umida e schifiltosa, diventava New York (e pure Londra) grazie all’abbinamento Telecaster e Vox. I Fuzztones, in questo album, suonano una manciata di cover sulle quali prima o poi ci siamo avventurati anche noi con i nostri pochi mezzi e trasudano il freddo delle cantine e l’odore operaio del metallo delle corde e dei microfoni. “NYC” è da ascoltare senza pause, a pieno volume. A me sono piaciute in particolare “53rd & 3rd”, “Transmaniacon MC” – Blue Oyster Cult!-, “New York New York”, “Dancing Barefoot” le cui trasposizioni rivelano ancora una volta il linguaggio universale del garage.

 

martedì 27 ottobre 2020

Da scuola dittatori a hotel cinque stelle


I nomi che sono passati da questi corridoi, che si sono ospitati in queste stanze, hanno un che di sinistro: Manuel Noriega, Hugo Banzer, Efraín Rios Montt, Vladimiro Montesinos, Roberto Viola, Leopoldo Galtieri, per citarne alcuni. La lista, ovviamente, è molto più lunga. L’edificio, incastonato in un panorama mozzafiato di foresta tropicale e canali, ha avuto per una trentina d’anni un nome tristemente famoso, Fort Gulick. Era la sede della Escuela de las Américas, l’accademia militare montata nel mezzo della giungla panamense dagli Stati Uniti per addestrare l’elite di governanti che con mano dura doveva mantenere l’establishment in America Latina. Fort Gulick era anche la base operativa dell’ottavo gruppo delle Forze speciali, battaglione impegnato nelle missioni più o meno lecite su e giù per il continente americano. L’operazione più famosa rimane quella che, nel settembre-ottobre 1967, costrinse Che Guevara alla resa in Bolivia. Nei tre decenni in cui è stata aperta, la scuola ha addestrato almeno 83.000 reclute, militari chiamati a mantenere, con ogni mezzo, lo status quo nella regione. Non tutto è eterno. Nel 1999 i gringos se ne vanno e lasciano il forte ai panamensi (la scuola, intanto, era già stata trasferita a Fort Benning, in Georgia).  

La struttura, enorme, per un po’ langue sotto il nome di Fort Espinar. Il governo panamense non sa bene che farsene di quegli edifici che trasudano una storia ingombrante. Inoltre, il Paese non ha neanche un esercito che ne possa prendere possesso, visto che è stato abolito dopo l’invasione del 1989. È a questo punto che si fanno avanti gli spagnoli. Location, location, location: l’ex forte è situato in una posizione spettacolare, tra l’oceano e il canale, enclave di cemento in una foresta rigogliosa ed esuberante. La catena Meliá ha l’idea di trasformare il luogo in un hotel a cinque stelle. Sventrati i cortili delle adunate, al loro posto sono state costruite tre grandi piscine, gli interni sono stati rimodellati e l’austera costruzione è diventata Meliá Panama Canal, che oggi offre 232 camere con vista alla giungla o al famoso canale. All’entrata, il turista trova un mosaico con la scritta augurale: et in terra pax.

mercoledì 21 ottobre 2020

Io sono Sakuran Zensen: il punk è vivo

 

“I am Sakuran Zensen” è l’album dell’anno. C’è poco da fare. Cinque ragazzini giapponesi hanno dato vita a un affresco punk che, in meno di mezzora ripercorre l’energia vitale del 1977 e spacca tutto. La copertina, chiaro riferimento a “End of the Century” dei Ramones, è un immediato manifesto di intenti. Undici pezzi della durata media di due minuti e mezzo, un gioiello (“Taximan”, qui sotto posto il video), schitarrate, urli, riff rock’n roll, atmosfere tiratissime, testi (quasi sempre in giapponese) da battaglia. I Sakuran Zensen buttano fuori quello che hanno da dire e lo fanno con uno spirito d’altri tempi scegliendo un linguaggio, quello del punk, che a più di 40 anni dalla sua apparizione suona come una ventata d’aria fresca nel cimitero musicale attuale. 

Su internet appare ben poco su di loro, tranne qualche accenno sul cantante Yuuki Yamamoto, la cui voce è un po’ il centro dell’edificio compositivo. Il gruppo ha iniziato a proporre la sua musica su youtube, bandcamp e sui rituali canali prima di pubblicare “I am Sakuran Zensen”, dopo un passaparola che dall’Asia è rimbalzato in America e quindi in Europa. I cinque ragazzi hanno voglia di divertirsi e lo fanno con molta determinazione, senza preoccuparsi di produzione, sovraincisioni, loop, autotune e balle varie. Suonano i loro strumenti, cantano, gridano e fanno muovere le gambe. In fondo, suonare è proprio questo: inserire il jack nell’amplificatore, accenderlo e darci dentro. Pochi accordi e tanta passione. Vista la loro fresca spontaneità, a questo punto c’è solo da augurarsi che nessun produttore americano li scopra.


 

sabato 17 ottobre 2020

Il pisco sour, cocktail fresco e originale dal Sudamerica

 

Un cocktail delizioso, che può servire anche come aperitivo, è il pisco sour. La sua base è ovviamente il pisco, distillato di uve originario della regione peruviana (e dalla città) che porta lo stesso nome, situata a 250 chilometri a sud di Lima. Origine peruviana, rivendicato dai cileni, il pisco sour, narra la storia, nacque nel 1920 nel bar Morris, frequentato ritrovo dei capitalini che si trovava nel centro di Lima. Alla chiusura del bar, avvenuta già nel 1929, la ricetta venne portata all’hotel Maury, dove venne migliorata con alcuni ingredienti oggi ritenuti fondamentali. In quegli anni comincia anche la sua diffusione in Cile.

Come si prepara? Gli ingredienti sono i seguenti, per quattro persone: pisco peruviano (una tazza o una tazza e mezzo), succo di limone (una tazza), zucchero (una tazza). Mettete in quest’ordine nel frullatore e quando si è dissolto lo zucchero, aggiungete il ghiaccio (una tazza) e un albume d’uovo e riprendete a frullare. L’albume ha un suo importante ruolo, ossia quello di mantenere viva la spuma, caratteristica di questo cocktail, che si accomoderà sulla superficie del bicchiere. Agitate per circa un minuto e quindi aggiungete alcune gocce di amaro di angostura. Una volta versato nel bicchiere, date una spruzzata di cannella in polvere.

Il cocktail è fresco, aspro e speziato, una bontà, ideale per aprire un pranzo a base di pesce o, come fanno in Perù, in attesa del ceviche. Con gli anni il pisco sour è diventato uno dei simboli culinari del Perù, che ha dedicato, il primo sabato di febbraio, una giornata in suo onore. Inoltre, dal 2007 è considerato patrimonio culturale della nazione sudamericana.

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