mercoledì 14 maggio 2025

Le "stanze", le prime pizzerie di Napoli

Non è facile stabilire una data precisa che definisca la nascita della pizza. Piatto dei poveri per eccellenza, comincia la sua storia come una focaccia su cui vengono sparsi i resti del pescato del giorno o l’origano. Ingredienti appunto poveri che marinai, soldati, bottegai consumano sopra una focaccia bianca perché a fine Settecento la pizza, a Napoli, si mangia per strada. Ci sono i venditori ambulanti che girano per i rioni, ma poco a poco si sente la necessità di sedersi a un tavolo, proprio come si fa in famiglia. E allora, ecco che nascono le “stanze”, vani affacciati sulla strada, una camera appartenente al nucleo famigliare che viene improvvisato negozio. Si cucina all’improvvisata, sulle cucine a legna, con l’acqua che è attinta dai pozzi che scavano nel sottosuolo cittadino. La gente passa e compra la pizza: i tavoli sono una novità e una schiccheria che presto prende piede. Ci si sofferma, si fanno quattro chiacchiere e poi via di nuovo. 

Nel 1807, secondo l’Archivio di Stato napoletano, ci sono 55 esercenti pizzaioli che dispongono di bottega. Gli ambulanti, però, continuano a fare il loro mestiere. Comprano le pizze dalle “stanze” e le vendono in strada, quasi sempre a tranci, con il loro carretto. Vengono citate nei testi le stanze di Port’Alba, Pietro e basta così, le stanze di Porta Carità, quest’ultima diventata oggi la pizzeria Martozzi. Ci sono anche i primi commenti di personaggi famosi, come quello di Alexandre Dumas padre, noto amante della buona cucina, che prova la pizza nel 1835 e la considera, nonostante la semplicità, “un piatto complesso”. Samuel Morse, l’inventore dell’alfabeto dallo stesso nome, è invece categorico nel suo giudizio: “una specie di torta nauseabonda” che somiglia “a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna”. Il palato raffinato di Morse poco può sopportare la pizza, alimento povero destinato alla gente che lavora e che, spesso, non ha i soldi per potersela pagare. Ed è così che nasce l’idea della pizza a otto, un sistema che permette di mangiare i tranci una volta al giorno e poi pagare la pizza intera a fine settimana, una volta ricevuta la paga.

Napoli a quel tempo conta quasi 400.000 abitanti ed è una bomba a orologeria in materia di sanità pubblica. La rete fognaria è fatiscente, la spazzatura viene lasciata a marcire per le strade, nei quartieri del centro storico l’aria ristagna, le abitudini igieniche sono pessime. Nell’autunno del 1836, mentre il re Ferdinando II è a Vienna alla ricerca di una nuova consorte (Maria Cristina è morta a gennaio per le conseguenze del parto) scoppia nel Regno una tremenda epidemia di colera, che si protrae fino all’ottobre 1837, causando migliaia di vittime -una stima dell’epoca parla di almeno 30.000 decessi solo nella città partenopea-. Tra le vittime, anche se oggi considerata collaterale, c’è anche il poeta Giacomo Leopardi.

Ci vuole del tempo per rimettersi in piedi, ma la rinascita è veloce e passa soprattutto per un cambiamento delle abitudini dei napoletani. Le stanze si trasformano in pizzerie a tutti gli effetti, condizione che permette un controllo più sicuro da parte delle autorità. Gli ambulanti sono ancora tollerati ma si è ormai aperta una nuova epoca. Nel 1853 lo scrittore Francesco de Bourcard pubblica “Usi e costumi di Napoli e contorni”, una guida sulla città dove, tra le altre cose, cita la pizza come piatto popolare con un ricetta che anticipa la pizza diventata famosa anni più tardi con il nome di Margherita, in onore all’allora regina italiana. Intanto, nel 1871 le pizzerie sono diventate 123. La pizza emigra insieme agli italiani ed è pronta per trasformarsi nel piatto simbolo della nostra cucina.

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