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lunedì 7 settembre 2020

Neil Young: "Homegrown", ritorno a casa

All’improvviso torni nel mezzo degli anni Settanta, giugno 1974 gennaio 1975 come dicono le note di copertina. C’è un juke box nel mezzo della sala e “Heart of Gold” che suona, un paio di coppie che ballano di fronte a pochi avventori distratti. Qualcuno chiede se hai una cicca e poi se ne va appena l’accende. Ti prendi una gazzosa, vedi che non è serata e sparisci anche tu. A casa, poi, incerto sulla chitarra ti intestardisci sul giro di “The Needle and the Damage Done”, tutta di plettro perché con l’arpeggio con le dita combini solo casini. È una di quelle giornate di novembre dove piove freddo ed è una pioggia triste perché abbiamo davanti i mesi dell’inverno. Meno male che hai la chitarra. E meno male che hai canzoni da suonare. “Homegrown” è un tuffo nel passato, una capsula del tempo riportata alla luce, che al primo ascolto ti incita a ricordare chi eri, cosa pensavi, cosa ti aspettavi dalla vita. Situato cronologicamente tra “On the Beach” e “Tonight’s the Night” è un disco melanconico: per il tenore delle canzoni –Young al tempo si era appena separato dalla sua compagna- e per l’operazione riscatto dalle ragnatele del tempo. Potrebbe perfettamente essere la colonna sonora di chi torna a casa dopo anni passati a peregrinare sulle strade del mondo. Pieno di polvere, colmo di ferite nel corpo e nell’anima, “Homegrown” è il resoconto di un mondo interiore a pezzi. Disarmante (ma nell’accezione positiva del termine) per la sua semplicità compositiva, è un disco che sottolinea come, nella lontana galassia dei 70s per fare buona musica non ci fosse bisogno di tanti fronzoli: una chitarra accordata, linee melodiche e un’armonica. Ai satanisti dell’autotune e minchiate varie ne dovrebbe essere imposto l’ascolto, ma il commento è superfluo: non lo capirebbero. Pezzi migliori: da ascoltare tutto dall’inizio alla fine, se proprio vogliamo dare dei titoli “Try” e la serie finale con “Vacancy”, “Little Wing”, “Star of Bethlehem”.

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