“E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le
gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. Cosa sarebbe successo se il finale di Pinocchio
sarebbe rimasto questo, quello di un disonorato burattino morto stecchito,
impiccato alla Quercia grande?
Ci saremmo trovati di fronte a un grande romanzo gotico, erroneamente rivolto
ai bambini. I primi quindici capitoli di “Storia di un burattino” pubblicati
nel 1881 scorrono verso il finale inevitabile, la morte del suo protagonista.
L’intenzione di Collodi è quella sin dall’inizio. Basta soffermarsi sui
dettagli. L’ambiente solare della campagna toscana viene offuscato dai toni
cupi dell’intera novella: la casa di Geppetto “pigliava luce da un sottoscala” e quando Pinocchio ci si ritrova
solo “tuonava forte forte, lampeggiava
come se il cielo pigliasse fuoco”. Quando il
burattino deve andare a scuola ha nevicato tutta la notte. Più tardi Mangiafoco
“Aveva una barbaccia nera come uno
scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a
terra: basta dire che, quando camminava se la pestava coi piedi. La sua bocca
era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro
rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani faceva schioccare una grossa
frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”. Il Grillo Parlante,
ucciso con una martellata, riappare come un’ombra lugubre. Nell’ultimo capitolo
originale Pinocchio, inseguito nella foresta dal Gatto e la Volpe sembra
trovare un’inattesa salvezza: la luce di una casina suggerisce al lettore che
Pinocchio si sottrerrà ai malviventi. Invece, la scena che si presenta davanti
fa rabbrividire:
“... Allora si affacciò alla finestra
una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di
cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muover
punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
-In questa casa
non c’è nessuno; sono tutti morti.
-Aprimi almeno
tu!- gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
-Sono morta anch’io.
-Morta? E allora
cosa fai costì alla finestra?
-Aspetto la bara che venga a portarmi via”.
È il preludio al finale. Il bosco, la selva oscura che fa ricordare Dante
sulla soglia dell’inferno, è l’anticamera del regno dei morti dove la bambina
appare a Pinocchio come uno spirito guida che lo porterà nell’aldilà. Subito,
il burattino ribelle, che era stato ammonito all’inizio della storia dal Grillo
Parlante (“i ragazzi disobbedienti non
possono aver bene in questo mondo”), viene preso per il collo dai suoi
carnefici e sacrificato.
La storia doveva finire qui. Era il 17 ottobre 1881, ma le proteste dei
piccoli lettori e del suo stesso editore, costrinsero Collodi a riprendere la
narrazione e a portarla a termine due anni dopo. Non senza, però, essere
obbligato ad alcune evidenti forzature, prima fra tutte la trasformazione dello
spirito della bambina nella Fata Turchina. Nella seconda parte Pinocchio vive
una serie di avventure, alcune anche inquietanti, ma che si muovono sul piano,
appunto, dell’immaginario fiabesco, una specie di sogno angosciante da cui ci
si aspetta che si svegli da un momento all’altro. E infatti, ecco il finale
felice: a vincere è il lettore. Collodi, però, vuole lasciare una firma
beffarda su quel finale, tre punti di sospensione: “Com’era buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser
diventato un ragazzino perbene!...”. Pinocchio –ci vuol dire Collodi, piccato
per la riscrittura del romanzo- ci sta prendendo in giro: un ragazzino perbene
non lo sarebbe mai diventato.
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