Joseph Iannuzzi, mafioso di lungo
corso, legato alla famiglia Gambino, durante le lunghe giornate trascorse nel
programma di protezione ai testimoni si dilettava a cucinare. Lo faceva per sè,
per la scorta e per gli agenti dell’FBI che si presentavano a interrogarlo. Da
quell’esperienza nacque “The Mafia Cookbook”, libro di ricette della mafia, che
grazie al titolo esplicito e alla storia che girava intorno a Iannuzzi,
vendette molto bene, tanto da essere ancora adesso, dopo trent’anni,
ripubblicato. Morale di questa storia corta: la mafia vende. Brutto da dire, ma
è così. Ci sono, in giro per il mondo, ristoranti, film, pizzerie, prodotti
alimentari che fanno un costante riferimento alla mafia, riportando ottimi
affari. Si tratta di un fenomeno prettamente italiano che celebra la
criminalità organizzata come fosse un riconoscimento del genio nostrano. Non lo
fanno gli altri popoli che eppure tra cartelli, yakuza, maras, triadi e
fratellanze avrebbero dove attingere, ma lo facciamo noi come se si trattasse
di un carattere distintivo del nostro carattere. La mafia scioglie nell’acido i
bambini, fa saltare in aria i magistrati, ma cosa volete che sia se quella
parolina magica mi fa vendere qualche pizza in più?
Ci muoviamo su due territori di sabbie mobili. Il primo dove la parola viene banalizzata. La mafia viene intesa come normalità, come un convenzionale fenomeno di costume a cui, tra una carbonara e una pizza margherita, si rimuove la drammaticità. La mafia va intesa e giudicata per cio che è, criminalità allo stato puro, non ne possiamo svuotare il concetto per offrirle un salvacondotto e renderla accettabile. Eppure, è quello che succede ogni volta che i “Burger Mafia” o la “Al Capone pizza” vengono proposti al pubblico. Esemplare la sentenza del Tribunale dell’Unione europea contro “La mafia se sienta a la mesa”, una catena di ristoranti spagnoli: l’espressione “si siede a tavola” evoca convivialità e quindi dà un’immagine positiva di chi, invece, è manifestazione del male. Purtroppo, la sentenza non ha fermato la catena, che al giorno d’oggi vanta più di quaranta locali in Spagna e continua fare soldi a palate in barba alle centinaia di vittime della mafia.
Il secondo territorio è quello
dove si celebra uno stereotipo che accomuna gli italiani a una delle loro
peggiori espressioni come popolo. Da quando il film “Il Padrino” ha esposto le
vicissitudini di una saga familiare criminale, è nato un genere di successo,
che ha riproposto più e più volte negli anni le stesse situazioni, riducendosi
perfino a episodi di macchiette da commedia leggera. La combinazione
“italiano-mafioso” spopola all’estero, risibile e innocua all’apparenza, ma che
in realtà in certi casi denigra e in altri detona inaspettati gradi di
seduzione. È l’effetto del marchio, che perpetuiamo volontariamente e che poi sopportiamo
con rassegnazione.
A causa della nostra volontaria
strategia di mercato siamo riusciti a esportare la parola “mafia” in tutto il
mondo, al punto da farla entrare nei vocabolari di ben 45 lingue differenti,
più di quanto siano popolari “cappuccino” o “paparazzo”. Insomma, la
combinazione è vincente e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.
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