Ha fatto la sua apparizione anche nella programmazione di Netflix America Latina, la serie di ZeroCalcare, qui tradotta come “Cortar por la línea de puntos”. Le sei puntate di “Strappare lungo i bordi” sono piaciute ai più: un manifesto di resistenza capace di strappare risate e di far sgorgare lacrimoni nei meno duri di cuore, avvolto in una colonna sonora che, per dirla come l’autore, “la senti da tutta la vita e ti ricorda da dove vieni”. A me invece, lo devo dire, lo strappo di ZeroCalcare è risultato faticoso da seguire.
A cominciare dal linguaggio le critiche sono arrivate puntuali, a causa del romanesco usato dal protagonista, caciaro e poco comprensibile, ricco di termini dialettali e capace di storpiare anche le più semplici espressioni dell’italiano. Una scelta che, comunque, è plausibile, perché dà sostanza al personaggio e all’ambiente. Piuttosto, la questione del linguaggio ritoglie la polvere sul tema fastidioso di Roma caput mundi che sdogana in ogni occasione il romanesco come lingua universale della cinematografia nostrana, cosa che rende tantissime produzioni italiane incomprensibilI all’estero. Il romanesco è diventato la lingua ufficiale del nostro cinema e se la cosa poteva essere in passato distintiva per definire la caratterizzazione di certi personaggi (alcuni diventati popolari, come quelli proposti da Alberto Sordi e, più recentemente, da Carlo Verdone), la sua generalizzazione oggi dà solo fastidio.
La romanizzazione parte da lontano, dai tempi della radio fascista, quando i gerarchi scelsero questo standard linguistico da imporre al resto d’Italia. La capitale doveva diventare il centro anche del nostro cinema e, di conseguenza, il romanesco borghese era stato adattato con questo compito. Con il tempo -e con Roma che si impadroniva anche della televisione- il dialetto locale ha subito una deriva, trasformandosi e imbastardendosi in un profluvio di espressioni dialettali di bassa lega. La versione coatta del romanesco di oggi, povera sia strutturalmente che per estrazione sociolinguistica anche nella pronuncia, ha immiserito la comunicazione.
Nelle fiction della televisione pubblica personaggi insospettabili (alcuni esempi: Fabrizio De Andrè –genovese-, Primo Carnera –friulano-) parlano romanesco, con un risultato che rasenta il ridicolo e che mina la veridicità della storia raccontata. La prassi è comune, ostentata sia in televisione che sul grande schermo. Il cinema è un veicolo di cultura e all’estero stiamo proponendo l’equazione italiano = romano, che ha livellato la nostra peculiare eterogeneità a un modello stereotipato. Inutile spiegare agli stranieri che oltre il Grande raccordo anulare esistono altri e variegati mondi, che l’italianità è il risultato di mille somme: la propaganda ha creato il mostro.
Se noi all’estero vogliamo consigliare un film ad amici o studenti di lingue, ecco quindi che è obbligatorio imporre l’uso dei sottotitoli, spiegando di fare molta attenzione a un fatto: quello che si parla lì, non è italiano.
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