lunedì 28 aprile 2025

Quel primo giallo da centomila copie

Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore...”. L’incipit, attuale e vigoroso, sembra tratto da un romanzo uscito appena ieri. Invece, stiamo parlando di un’opera pubblicata nel 1887. L’autore, Emilio De Marchi, è un milanese che proviene dal movimento della Scapigliatura e forse senza saperlo -anche se nella prefazione ne parla come un romanzo “d’esperimento”-, ha appena pubblicato il primo giallo della letteratura italiana. Il libro si intitola “Il cappello del prete” ed ha un successo incredibile. In un’epoca in cui vendere mille copie significava aver superato ogni aspettativa, “Il cappello del prete” di copie ne fa centomila.

A poco più di un ventennio dall’Unità d’Italia, gli italiani sono ancora in gran parte analfabeti. Ciononostante c’è una grande voglia di leggere. La diffusione di romanzi e di giornali permette alla borghesia incipiente di conoscere il mondo a cui la nuova nazione si affaccia con entusiasmo ed impazienza. In quel contesto gli alfabeti erano poco più di sei milioni, all’incirca il 25% della popolazione, per cui il mercato editoriale si deve accontentare di una base di fruitori abbastanza limitata. Nonostante tutto, escono alcuni best sellers. Alcuni li ricordiamo ancora oggi, “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi su tutti, ma ci furono altri casi, di autori che abbiamo oggi dimenticato. Enrichetta Caracciolo (“Misteri del chiostro napoletano”), Michele Lessona (“Volere è potere”), Antonio Stoppani (“Il Bel Paese”) -ma questi ultimi due erano testi divulgativi- sono scrittori estremamente popolari. Assieme a loro si piazza anche De Marchi con “Il cappello del prete” che, presentato come romanzo d’appendice, riscuote un successo senza precedenti.

Pubblicato inizialmente a puntate su due giornali (“L’Italia del Popolo” di Milano e “Il Corriere” di Napoli) “Il cappello del prete” venne edito su volume nel 1888. De Marchi, che all’epoca aveva trentasei anni, dice di aver voluto scrivere un libro esplicitamente per il lettore: “l’arte è cosa divina” commenta nella prefazione “ma non è male, di tanto in tanto, scrivere per i lettori”. Lontano dalle atmosfere di “Il piacere” e de “I Malavoglia”, pubblicati lo stesso anno e destinati al ruolo di pietre miliari della  nostra letteratura ottocentesca, “Il cappello del prete” è rivolto al pubblico di massa e ricalca, in questo senso, le atmosfere dei “feuilleton” francesi. L’operazione riesce e il libro si rivela un vero e proprio caso editoriale.

La storia si svolge a Napoli e, a fianco dei personaggi principali (il barone Santafusca, il prete Cirillo, don Antonio) De Marchi pone un’umanità viva e reale, in una passerella di figure popolane che mostrano al lettore povertà e miserie dell’animo umano. Nel romanzo, però, c’è soprattutto un omicidio e un solo indizio: il cappello del prete, appunto. Da qui prende spunto la trama che serve a De Marchi, che crede nel ruolo educativo della letteratura, a dare un monito ai lettori a non lasciarsi deviare dal vizio. Nonostante le vendite, De Marchi non tornerà più su quello che da quel momento prese a chiamarsi romanzo giudiziario e più tardi, con l’avvento della serie Mondadori, il giallo. Lo scrittore, probabilmente, pur avendo tracciato il cammino, non aveva compreso le enormi potenzialità del genere.

Si può scaricare qui: https://liberliber.it/autori/autori-d/emilio-de-marchi/il-cappello-del-prete/


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