martedì 6 maggio 2025

La papessa Giovanna tra storia e leggenda

Questa settimana si apre il conclave per eleggere il nuovo papa dopo la dipartita di Francesco I. È un avvenimento che interessa tutta la cristianità -2500 milioni di persone in tutto il mondo-, soprattutto perché definirà se la timida apertura voluta da papa Bergoglio troverà un erede o se, invece, si tornerà a una conduzione della Chiesa di stampo conservatore. Tra i tanti temi in sospeso, rimane sempre quello del sacerdozio femminile, irrisolto dagli albori della cristianità. Uno dei miti nati in questo contesto è quello della papessa Giovanna, assurto come monito sulla presenza femminile all’interno della Chiesa.

È ormai accertato che quello della papessa Giovanna fu un mito messo in circolazione con lo scopo preciso di demonizzare la presenza della donna nella Chiesa cattolica. Attraverso la sua parabola si volevano dimostrare i pericoli di un’apertura e, quindi, l’inaffidabilità del genere femminile all’interno della gerarchia ecclesiastica. Non è un caso che, insieme alla storia della papessa Giovanna, apparve nello stesso periodo -siamo alla fine del XIII secolo- anche la letteratura sulle streghe, un universo immaginario che presto venne applicato alla realtà. Più tardi, la storia venne ripresa dagli ambienti protestanti per screditare la Chiesa cattolica in pieno periodo di scisma.

Ma chi sarebbe stata la papessa? Nelle cronache, alcune controverse, era una donna inglese educata a Magonza dove, grazie ai suoi travestimenti, sarebbe riuscita a diventare monaco e quindi addirittura papa nell’855 succedendo a Leone IV con il nome di Giovanni VIII. Incapace di resistere alle tentazioni della carne, continuò ad avere rapporti con i suoi amanti rimanendo in cinta. Fu così che, durante una processione pubblica due anni dopo la sua elezione, venne colpita dai dolori del parto e scoperta. La reazione della folla fu implacabile: trascinata per i piedi da un cavallo, fu lapidata senza pietà. Benedetto III, il papa successivo, si assicurò che il nome della papessa scomparisse per sempre dagli annali della Chiesa.

La proliferazione della leggenda avvenne nell’ambito del processo di discredito verso le donne. La storia, messa in giro da due cronisti, Martino Polono e Giovanni di Metz nella seconda metà del XIII secolo, trovò terreno fertile nel partito di chi non voleva ammettere le donne al potere e ancora meno, quindi, al sacerdozio. Alcuni decenni dopo, nel 1330, il vescovo galiziano Alvaro Pelayo scrisse “De planctu ecclesiae”, dove descriveva la donna come l’oggetto privilegiato del demonio scatenando di fatto, la vera e propria caccia alle streghe. Non a caso. L’opera di Pelayo si prefiggeva di contrastare l’eresia dei Guglielmiti, che veneravano la mistica Guglielma da Milano, morta in questa città nel 1280. Venerata come l’incarnazione dello Spirito Santo, secondo i suoi seguaci, la donna sarebbe salita al cielo per instaurare una nuova gerarchia femminile all’interno della cristianità. La sua vicaria, Maifreda da Pirovano, aveva assunto i poteri sacerdotali -destinati solo agli uomini- e predicava per raggiungere il soglio pontificio. Quando Maifreda officiò la messa pasquale del 1300, accompagnata da varie diaconesse, intervenne immediatamente l’Inquisizione. Bonifacio VIII chiese un processo che fosse di monito: sia Maifreda che la sua principale collaboratrice Giacoma dei Bassani vennero bruciate sul rogo. Ciononostante, c’era bisogno di una letteratura che definisse una volta per sempre il ruolo delle donne nell’ambito religioso. Mistiche sì, ma svuotate di potere e in costante atto di sottomissione verso quella che era la gerarchia ecclesiastica. La leggenda della papessa Giovanna va quindi considerata come parte di questo contesto.

Due secoli più tardi, la Riforma protestante si avvarrà di quella leggenda per farla apparire come un evento realmente accaduto. Lo scopo era quello di denigrare la Chiesa cattolica: predica bene, ma razzola male relegando le fedeli a un ruolo subalterno. E, in effetti, a distanza di tanto tempo il ruolo della donna ancora spaventa e intimorisce.

lunedì 28 aprile 2025

Quel primo giallo da centomila copie

Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore...”. L’incipit, attuale e vigoroso, sembra tratto da un romanzo uscito appena ieri. Invece, stiamo parlando di un’opera pubblicata nel 1887. L’autore, Emilio De Marchi, è un milanese che proviene dal movimento della Scapigliatura e forse senza saperlo -anche se nella prefazione ne parla come un romanzo “d’esperimento”-, ha appena pubblicato il primo giallo della letteratura italiana. Il libro si intitola “Il cappello del prete” ed ha un successo incredibile. In un’epoca in cui vendere mille copie significava aver superato ogni aspettativa, “Il cappello del prete” di copie ne fa centomila.

A poco più di un ventennio dall’Unità d’Italia, gli italiani sono ancora in gran parte analfabeti. Ciononostante c’è una grande voglia di leggere. La diffusione di romanzi e di giornali permette alla borghesia incipiente di conoscere il mondo a cui la nuova nazione si affaccia con entusiasmo ed impazienza. In quel contesto gli alfabeti erano poco più di sei milioni, all’incirca il 25% della popolazione, per cui il mercato editoriale si deve accontentare di una base di fruitori abbastanza limitata. Nonostante tutto, escono alcuni best sellers. Alcuni li ricordiamo ancora oggi, “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi su tutti, ma ci furono altri casi, di autori che abbiamo oggi dimenticato. Enrichetta Caracciolo (“Misteri del chiostro napoletano”), Michele Lessona (“Volere è potere”), Antonio Stoppani (“Il Bel Paese”) -ma questi ultimi due erano testi divulgativi- sono scrittori estremamente popolari. Assieme a loro si piazza anche De Marchi con “Il cappello del prete” che, presentato come romanzo d’appendice, riscuote un successo senza precedenti.

Pubblicato inizialmente a puntate su due giornali (“L’Italia del Popolo” di Milano e “Il Corriere” di Napoli) “Il cappello del prete” venne edito su volume nel 1888. De Marchi, che all’epoca aveva trentasei anni, dice di aver voluto scrivere un libro esplicitamente per il lettore: “l’arte è cosa divina” commenta nella prefazione “ma non è male, di tanto in tanto, scrivere per i lettori”. Lontano dalle atmosfere di “Il piacere” e de “I Malavoglia”, pubblicati lo stesso anno e destinati al ruolo di pietre miliari della  nostra letteratura ottocentesca, “Il cappello del prete” è rivolto al pubblico di massa e ricalca, in questo senso, le atmosfere dei “feuilleton” francesi. L’operazione riesce e il libro si rivela un vero e proprio caso editoriale.

La storia si svolge a Napoli e, a fianco dei personaggi principali (il barone Santafusca, il prete Cirillo, don Antonio) De Marchi pone un’umanità viva e reale, in una passerella di figure popolane che mostrano al lettore povertà e miserie dell’animo umano. Nel romanzo, però, c’è soprattutto un omicidio e un solo indizio: il cappello del prete, appunto. Da qui prende spunto la trama che serve a De Marchi, che crede nel ruolo educativo della letteratura, a dare un monito ai lettori a non lasciarsi deviare dal vizio. Nonostante le vendite, De Marchi non tornerà più su quello che da quel momento prese a chiamarsi romanzo giudiziario e più tardi, con l’avvento della serie Mondadori, il giallo. Lo scrittore, probabilmente, pur avendo tracciato il cammino, non aveva compreso le enormi potenzialità del genere.

Si può scaricare qui: https://liberliber.it/autori/autori-d/emilio-de-marchi/il-cappello-del-prete/


domenica 30 marzo 2025

Due parole sul decreto cittadinanza

La notizia ha fatto in fretta il giro del mondo e l’ha fatto perché l’Italia è una madre feconda che ha lasciato figli un poco ovunque. Mano a mano che si è diffusa ha procurato sorpresa, confusione. Ma vediamo cosa è successo. Il governo Meloni, con fretta inusitata, ha emanato un decreto cittadinanza dove cambia le norme che hanno regolato finora i criteri per l’ottenimento della cittadinanza italiana. In sintesi: gli italo-discendenti nati all’estero saranno automaticamente cittadini solo se avranno un genitori o un nonno nato in Italia. Stop alla ricerca di bisnonni e avi nelle anagrafi e nelle parrocchie, le storie personali dei nostri migranti non interessano più, e ancora meno il riscatto delle generazioni successive che, nelle radici italiane, trovano orgoglio e senso di appartenenza.  


Il decreto legge nasce dall’indifferenza e da calcoli politici ed è un decreto che spiega anche ciò che eravamo ed oggi non siamo più, quel popolo che praticava la solidarietà, che non dimenticava il sacrificio di chi aveva dovuto lasciare dietro sè gli affetti e la patria. Oggi, dobbiamo considerare che agli italiani, quelli che vivono nella penisola, importa poco o nulla del destino di chi ha dovuto separarsi dalla propria patria. Anzi, qualche politico li ha anche tacciato di “traditori” scesi dalla barca lasciando il Paese al proprio destino. L’opportunismo di certi personaggi non conosce limiti. L’altra faccia della medaglia infatti ha tinte sobrie, meste. Un Paese che non ha offerto opportunità ai propri cittadini, obbligandoli a scelte estreme, è una nazione fallita. O come consideriamo oggi, nel nostro comodo salotto perbenista quelle nazioni da cui provengono gli immigrati che premono alle nostre frontiere? Non siamo molto diversi.

I discendenti degli italiani sono quelli che ci mettono la faccia ogni giorno, all’estero, per un Paese che, a volte, non conoscono nemmeno. Lo fanno con una passione che i cittadini residenti in Italia non dimostrano perché non hanno mai provato sulla propria pelle i sacrifici di chi è emigrato. Essere italiani è un privilegio, ma molti italiani questo privilegio lo calpestano ogni giorno con condotte indegne che vanificano il lavoro di chi, da fuori, promuove l’immagine di un’Italia sana, accogliente, cordiale. Una pubblicità a costo zero, che vale molto più degli spot insulsi preparati dagli ultimi governi per vendere all’estero il “prodotto” Italia. Senza entrare nel contesto politico e nella scelta che l’ha reso operativo (ci sarebbe molto da dire anche sulle altre modifiche indicate nel decreto) questo provvedimento è uno spartiacque doloroso.  

Non dobbiamo però dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Se avete tempo, leggete queste poche righe di “Sull’oceano” di Edmondo de Amicis (siamo nel 1889), resoconto in diretta su chi si imbarcava sui bastimenti della speranza perché il proprio Paese, egoista e mal governato, li aveva ridotti alla fame:

La maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. C’eran bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quei contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, e non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno più altra uscita che la fuga o la morte. C’erano molti di quei Calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e di quei bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono col maiale e con l’asino sulla nuda terra, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno, se non quando muore per accidente uno dei loro animali. E c’erano pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie, che con una metà del loro pane e centocinquanta lire l’anno debbon mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi di paglia, entro a nicchie scavate nei muri d’una cameraccia, in cui stilla la pioggia e soffia il vento. C’era in fine un buon numero di quei vari milioni di piccoli proprietari di terre, ridotti da una gravezza di imposta unica al mondo in una condizione più infelice di quella dei proletari, abitanti in catapecchie da cui molti di questi rifuggirebbero, e tanto miseri, che “non potrebbero nemmeno vivere igienicamente, quando vi fossero obbligati per legge.” Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura.

lunedì 3 febbraio 2025

"L'ira nella palude", crimini tra le mangrovie

In Costa Rica, e in tutta l’area centroamericana, esistono storie nascoste, a volte insabbiate, a volte passate in silenzio, legate alla terra. I profitti che circolano attorno alla proprietà di grandi estensioni hanno creato conflitti che sono lungi dall’essere risolti. Da una parte ci sono le comunità autoctone, dall’altra interessi privati che vorrebbero trarre i propri personali benefici. Due modalità di vita agli opposti, che contrappongono chi cerca comunione ed equilibrio con la natura e chi, al contrario, ritiene che l’ambiente sia da controllare e sfruttare. Un conflitto che, mano a mano che i toni sono diventati esacerbati, si è fatto cruento e dove, come da copione, sono gli indigeni a farne le spese. L’Onu stessa, per quanto valga oggi la sua opinione, si è pronunciata perché gli omicidi dei leader locali non rimangano impuniti. Poi, che queste notizie non giungano all’opinione pubblica dipende da vari fattori, il principale il disinteresse che il giornalismo mainstream ha decretato per questo tipo di vicende che, è evidente, non attraggono pubblico e lettori. 

Eppure, mettere nero su bianco significa dare una dimensione alle cose. Se un fatto non appare, non esiste; in qualche modo bisogna parlarne. Trasportare la cronaca nel campo del genere noir mi è sembrato quasi un atto doveroso ed è così che è nato “La ira en el manglar”, scritto in origine in spagnolo e pubblicato da Uruk Editores e quindi tradotto in italiano, dove ha preso il nome di “L’ira nella palude” per i tipi di Neos Edizioni. https://maledettitropici.blogspot.com/2023/08/la-ira-en-el-manglar-una-novela-para-el.html 

La trama. Nei primi anni Novanta, il Costa Rica fu scosso da un fatto di cronaca che venne indicato dai mezzi d’informazione con il nome di “crimen del Guacimal”. Una vicenda di cronaca nera dalle tinte fosche, accaduta in tempi non sospetti in quanto a problematiche ambientali, nel contesto seducente ed insidioso di un bosco di mangrovie. Il fatto era insolito. Si parlò per la prima volta di un crimine ecologico, della ribellione della natura contro chi ne violava le sacre regole e dell’esclusività dell’inedito movente. Negli anni successivi, dopo aver letto gli sviluppi e i dettagli della storia, si è fatto impellente l’interesse per romanzare questa vicenda al contrario, dove la natura non è più un agente passivo, arrendevole, che si può plasmare a proprio piacimento, ma un’entità viva, capace di influire nell’animo delle persone, realizzando in questa maniera il suo proposito di difendersi da chi l’attacca. L’ira che si impossessa della palude.

https://neosedizioni.it/libri/narrativa/nero-co/lira-della-palude/

sabato 28 dicembre 2024

La storia dietro gli angeli con l'archibugio

Angeli e arcangeli, protettori ma all’occasione anche vendicatori, ornati d’oro, armati di archibugi e pomposamente vestiti di broccato sono una delle espressioni più conosciute dell’arte figurativa peruviana. Los ángeles arcabuceros vengono oggi copiati e venduti in serie ai turisti, riprendendo una corrente pittorica che si è sviluppata nella regione di Cuzco nella seconda metà del XVII secolo. La loro storia è peculiare. Al momento della loro creazione questi dipinti erano considerati strumenti di propaganda per consolidare agli occhi degli autoctoni il peso e il potere della religione cattolica. Bisognava sostituire gli elementi naturali come il sole (inti), il fulmine (illapa), la luna (quella) e tutti i fenomeni naturali con i simboli religiosi cristiani. Ad adempiere a questo compito vennero chiamati i gesuiti, la cui visione dell’arte era intesa come strategia di evangelizzazione. E infatti, fu un gesuita italiano, marchigiano per l’esattezza, a impulsare e consolidare in Perù l’arte figurativa.  

Nato a Camerino nel 1548 Bernardo Bitti, viene mandato ragazzino a Roma per studiare pittura. A venti anni entra nella Compagnia di Gesù e quando l’ordine riceve dal Nuovo mondo la richiesta di un pittore per il viceregno del Perù, i suoi superiori lo mandano a Lima. Bitti vi giunge nel 1575, a ventisette anni quando il vicerè dell’immensa regione è il bacchettone e spietato Francisco de Toledo, diventato poi famoso con il soprannome di ¨supremo organizador¨. Toledo, che è espressione estrema del giogo coloniale, prima di tutto fa fuori gli ultimi inca ribelli rimasti (è lui che manderà ad impiccare Tupác Amaru), poi consolida la mita, il sistema di lavoro obbligatorio che mantenne per secoli gli indigeni andini sotto schiavitù. Non ultimo, instaura il primo tribunale dell’Inquisizione d’oltreoceano. Un bel tipo, insomma. Sotto di lui e con la collaborazione dei religiosi (gesuiti e domenicani), impone la propaganda cattolica attraverso l’arte. Santi, madonne, profeti, scene di miracoli imbiancano i muri e le tele nelle chiese e nei conventi, nelle piazze e nei luoghi dell’amministrazione pubblica, a testimoniare il potere religioso e politico degli Spagnoli. Bitti fa parte del manipolo di artisti europei chiamati ad assolvere a quel compito. Lo fa con ardore e con prolificità. Per otto anni rimane a Lima poi, nel 1583, si sposta a Cuzco. Bitti lavora non solo nell’antica capitale incaica, ma su buona parte dell’arco andino:  a Juliapa, Puno, Chuquisaca e Arequipa prima di tornare a Lima per morirvi nel 1610. Nell’arco dei trentacinque anni trascorsi in Perù ha tutto il tempo non solo di evangelizzare, come i suoi superiori gli avevano intimato, ma di insegnare l’arte pittorica –fortemente influenzata dal manierismo- a una manciata di allievi di estrazione indigena. Il risultato è uno stile singolare che fa spesso a pugni con la prospettiva, ma che introduce la singolarità di elementi paesaggistici e culturali legati all’ambiente andino ed amazzonico. Più ci si allontana nel tempo dagli insegnamenti di Bitti e più i pittori di Cuzco si addentrano in quella che diventa la peculiare Escuela Cuzqueña, tra madonne indigene ed arcangeli vestiti da nobili spagnoli, con sacro e profano a confrontarsi sulla stessa tela. Lontano dagli occhi dei gesuiti e, di conseguenza, dal loro controllo, i colori si fanno più vivaci ed i particolari minuziosi.


L’associazione tra il nobile spagnolo e l’immaginario religioso diventa indissolubile e nella seconda metà del XVII secolo cominciano ad apparire gli arcangeli con l’archibugio, nella zona di Calamarca, nelle vicinanze di La Paz, in Bolivia. Il genere ha successo, al punto che giungono commissioni da tutta l’America dell’arco andino e fino alla pampa argentina. A Lima e a Cuzco sorgono botteghe specializzate proprio sul tema degli arcangeli armati, che diventano comuni nelle case patrizie e nei luoghi di culto. Le richieste si fanno sempre più esigenti e presto ai colori ad olio si aggiunge l’oro, a definire non solo i particolari più importanti del dipinto, ma anche le cornici, pregiate e preziosissime. Quella che doveva essere un’arte povera, nata dagli indigeni che volevano esprimere il loro contatto con il nuovo ambito religioso, diventa manifestazione di ricchezza destinata ad arredare le case signorili della borghesia latinoamericana.

lunedì 23 settembre 2024

La Madonna di Citerna: a tu per tu con l'opera d'arte

Non c’è nessuno alle tre del pomeriggio a Citerna. Forse è il caldo, forse è l’ora che invita a rinchiudersi nell’ombra delle case. Dal convento di Santa Elisabetta fa capolino una suora africana: “Ma non c’è nessuno?” chiedo e lei risponde di no, è un’ora scomoda. In fondo, siamo ad agosto. Citerna si trova nell’Alto Tevere, nella provincia di Perugia, Umbria. Di fronte c’è Monterchi, provincia di Arezzo, Toscana. La linea tra le due regioni è sospesa nell’aria, non si vede ma c’è e si sente soprattutto negli accenti di chi abita nei due paesi. Una manciata di personaggi hanno innalzato il borgo a incrocio di storia e storie: il Pomarancio, Vincenzo Vitelli, San Francesco che qui fece due miracoli, Giuseppe Garibaldi con la morente Anita. E poi Donatello, del quale non si sa se effettivamente sia arrivato fin quassù, ma di cui esiste una Madonna gelosamente custodita dai paesani.

La chiesa è quella di San Francesco, nella via principale, che servì da ospedale nel 1849 ai repubblicani romani in fuga con Garibaldi. Alle pareti un Ciburri, il Pomarancio, Raffaelino del Colle e, in un affresco, due angeli attribuiti a Luca Signorelli. I patrioti si curarono dalle ferite degli austriaci -o perirono- sotto lo sguardo pietoso di arcangeli, santi e madonne. Quella di Donatello è in una cappella chiusa a chiave, con quelle chiavi ottocentesche, dalle dimensioni da cancello del paradiso. Riposa a parte, la signora del luogo, perché non è a disposizione del pubblico non pagante e, inoltre, ha bisogno di un deumidificatore e di stare in pace.

Dopo tanti musei, l’incontro personale con l’opera d’arte pone nella giusta dimensione l’esperienza del fruitore. Diventa finalmente personale, intima. Lontani dall’affollamento che si trova nei musei, con la sovraesposizione ai capolavori, un tanto al metro quadrato, i telefonini che scattano a raffica, i selfie da decerebrati, la lassa ignoranza che regna sovrana, l’opera finalmente è un metro da te e parla. Nel silenzio e, soprattutto, nel contesto dell’ambiente originale, ci si arriva persino a immaginare l’autore che rifinisce i dettagli, che plasma le forme e i colori. L’esperienza è da provare.

La Madonna di Citerna è una scultura in terracotta alta un metro e quattordici centimetri e proprio queste dimensioni fanno pensare che Donatello, allora giovane scultore, avesse ricevuto la commissione da una famiglia nobile. Forse i Tarlati, che a Citerna hanno governato a lungo, forse i Vitelli, legati a questo feudo. La figura delicata della Vergine sostiene il Bambino dallo sguardo serio, proiettato verso il futuro che l’attende. È un’opera pregevole che a un certo punto non si sa come e quando, appare nella chiesa di San Francesco. Un parroco solerte ma a digiuno di nozioni artistiche ci mette mano e la fa ricoprire maldestramente di nuovi colori. Forse, proprio questa mimetizzazione la rendono di poco interesse, una delle tante opere che vengono depositate a riposare nelle nostre chiese. Solo nel 2001 l’occhio attento di una ricercatrice, Laura Ciferri, riconosce nella statua la mano di Donatello. Dopo sette anni di restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze la Madonna torna nel suo stato originale e viene riportata a Citerna. Una decisione saggia, che evita una volta tanto l’emorragia delle opere d’arte locali verso i grandi musei. L’opera che rimane nel suo ambiente, circoscritta al paese dove appartiene, è un oggetto parlante, è una testimonianza storica e non decontestualizzata nel composito contenitore del bacino museale. Smette di essere un oggetto inanimato, vive e respira, esalta le nostre emozioni.

https://www.citernaturismo.it/madonna-di-donatello/

lunedì 16 settembre 2024

Salieri e Mozart: una bufala che dura da due secoli

Ricorrono in questi giorni i quaranta anni dalla presentazione nelle sale cinematografiche dell’”Amadeus” di Milos Forman. Grande mistificazione, esercizio riuscito d’intrattenimento, il film oltre a vincere ben otto premi Oscar, rinvigorì la leggenda dell’avvelenamento di Mozart da parte di un astioso e invidioso Antonio Salieri. Niente di più lontano dalla verità, ma intanto Salieri da quel fatale 1984 si è guadagnato l’immeritata infamia di aver soppresso per sempre la voce del musicista più geniale del suo tempo.

Veneto di Legnago, eccellente compositore, Salieri dovette convivere con il talento di Mozart e subirne le glorie e il fascino senza, però, patirne più di tanto. Direttore del Teatro dell’Opera di Vienna a 19 anni, compositore della corte asburgica a 24, con alunni del calibro di Beethoven, Czerny, Schubert e Liszt, scelto dal neonato Teatro alla Scala di Milano per la prima rappresentazione in assoluto, Salieri godeva della massima stima dell’imperatore. Una posizione che significava anche onori a profusione. Mozart arriva a Vienna nel 1781 e la convivenza crea l’ambiente per una sana concorrenza, alimentata anche dal fine senso per la musica di Giuseppe II. Tutto qui. Abbondano però le malelingue. Forse il padre di Mozart, piccato per l’insuccesso di “Le nozze di Figaro”, forse il poeta Giovanni Battista Casti, cominciano a mettere in giro falsità. Alla morte di Mozart la situazione peggiora.  

Seriamente ammalato, cieco, Salieri passa l’ultimo anno e mezzo della sua vita in ospedale a Vienna e, sembra, si autoaccusi di aver procurato la morte di Mozart con un veleno. La storia prende piede e viene riportata da differenti fonti come veritiera. Era però un pettegolezzo che girava da tempo, se già nel 1822 Salieri rispondeva a Rossini che lo punzecchiava tra il serio e il faceto sul suo coinvolgimento nella morte di Mozart: “Le sembro un assassino?”. Ritornerà sull’argomento con il musicista ceco Ignaz Moscheles, che lo visita in ospedale quando ormai gli manca poco da vivere: “Posso in assoluta buona fede assicurare che in quella vicenda non c’è nulla di vero”. Salieri muore nel maggio 1825, ma non passa poco tempo che il drammaturgo Puskin fiuta l’intreccio drammatico della vicenda e compone “Salieri e Mozart” –titolo provvisorio: “Invidia”, una cosina da 231 versi-, proponendo al pubblico la leggenda dell’avvelenamento che fino a quel momento era rimasta relegata nei circoli musicali. Finita qui? No, perché nel crepuscolo dell’Ottocento, Rimsky Korsakov pensa bene di trasformare il canovaccio puskiniano addirittura in un’opera. Lo fa inserendo. con tocco da maestro. la storia dello sconosciuto che commissiona il Requiem a Mozart. Dettagli che poco a poco creano un’opera di fantasia che l’inglese Peter Shaffer riprende nel 1979 per il teatro. Da lì, il passo al grande schermo con “Amadeus”.


Il regista Forman avvisa nelle interviste che si tratta di una libera interpretazione, una fantasia sulla relazione tra Salieri e Mozart. Ma non è abbastanza. La bufala prende piede e per più di un ventennio dall’apparizione del film, Salieri viene additato come il musicista invidioso che provocò la morte di Mozart. L’idea è morbosa, adatta al grande pubblico, che si ciba di sensazionalismo. Bufala storica a cui molti credono e pochi sdoganano per quello che è, una storiella da cinema. Documentarsi, infatti, costa tempo, meglio andare per le spicce: se c’è un film che ha vinto otto Oscar, deve essere vero. Per Antonio Salieri sono tempi grami. Poi, poco a poco, la lenta e dovuta riabilitazione.

Quella voglia di Grand Tour

  “ L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo ...