mercoledì 24 settembre 2025

L'amore ai tempi dell'Inquisizione

C’era una volta l’Inquisizione e non solo in Europa, ma anche nei centri nevralgici dell’America Latina come Lima, Cartagena e Città del Messico città dove l’11 giugno 1649 si tenne il più importante auto da fe del continente: 109 penitenti, di cui 13 giustiziati in piazza. Strumento di controllo religioso ed ideologico, l’Inquisizione venne soppressa solo nel 1834 dopo centinaia di processi, auto da fe e vite rovinate. Tra queste, quella di un singolare personaggio italiano, Stefano Corti, lombardo da Lomazzo.

Nato nel 1753 e, rimasto presto orfano, Corti venne educato dallo zio sacerdote che lo mandò poi in bottega a Milano a imparare un mestiere, quello dello speziale. A Pavia, più tardi, si laurea in Medicina e poi, a 28 anni, si imbarca per Barcellona. Qui, le cose non vanno tanto bene e per evitare guai seri ripara a Madrid, dove ottiene la protezione di José Vásquez Téllez, nobile che viene nominato governatore del Costa Rica. È il 1790 e Corti accetta la proposta di Vásquez di seguirlo in America. Corti si adegua subito alla vita di quella che è, a discapito del nome, la provincia spagnola più arretrata. All’epoca è un uomo di 37 anni e secondo la descrizione che ne fa più tardi il segretario dell’Inquisizione messicana, Bernardo Ruíz de Molina, è un individuo più alto della media, robusto, dai capelli rossi, il naso aquilino e gli occhi neri. Stefano Corti a Cartago si trova bene. Ha cambiato il suo nome di battesimo per quello spagnolo di Esteban, è il medico di fiducia del governatore e, grazie alla sua abilità, si guadagna subito la stima dei notabili della città. Vive con una vedova e le sue due figlie e già qui le malignità cominciano a correre: “doña Joaquina López del Corral tenía hijas de buen ver, núbiles y un tanto fáciles” (citato dallo storico Manuel Valladares Rubio). Come dice il detto: pueblo chico, infierno grande. Gli speziali, i curanderos, i barbieri a cui ha tolto il lavoro lo accusano di pratiche immorali. E anche i mariti cornuti. Lo scrittore Joaquín Gutiérrez Mangel asserisce che le visite di Corti alle ammalate aumentavano quando i loro mariti si assentavano per dare la caccia agli indios o si recavano a controllare i loro affari nelle piantagioni di cacao. “Se le lenzuola parlassero” continua “la discendenza di Corti riempirebbe pagine intere dell’Anagrafe del Costa Rica, a cominciare da tutti coloro che portano il cognome Yglesias” (questo cognome veniva dato ai trovatelli abbandonati nelle chiese). L’italiano pagherà cara la fama di donnaiolo impenitente.  Gli eccessi che già lo avevano portato alla fuga da Barcellona (dove si era vantato di aver preso la verginità di nove donzelle) si ripetono nel Nuovo Mondo.

I nemici fioccano e, data la protezione del governatore, i suoi detrattori si rivolgono alla Curia che in pochi mesi prepara un castello accusatorio tale da portarlo alla prigionia, al sequestro dei beni e al suo trasferimento a Città del Messico per essere processato dal Tribunale della Santa Inquisizione. In totale, dovranno essere discussi 24 delitti gravi tra cui: la lussuria, la blasfemia, il disprezzo dei sacramenti e il concubinaggio. 

Cartago, insomma, si libera del seduttore Corti che nel giugno 1794 intraprende il lunghissimo viaggio via terra verso Città del Messico. Lo fa sempre scortato, trascorrendo mesi nelle prigioni delle varie province centroamericane, offrendo a chi ne ha bisogno la sua arte medica e lasciando ovunque un ricordo favorevole. Arriva in Messico dopo tremila chilometri a dorso di mulo e un anno esatto dopo la sua partenza. Qui si fa sette mesi di prigione prima di essere portato davanti al tribunale. Nel frattempo, ha sempre mantenuto un’attitudine mansueta: prega, legge la Bibbia, cura gli ammalati, non fa nessun accenno ad avventure amorose. I frati messicani, però, non si fanno turlupinare. L’accusano di essere un seguace di Rousseau e di Voltaire e aumentano i capi d’accusa da ventiquattro a ottantotto. Corti si dice malato: ha l’artrite, il mal di fegato, è inappetente. Per un po’ riesce a farla franca, poi viene portato davanti ai giudici e non sfugge al verdetto. Gli si chiede di abiurare e Corti in abito da inquisito (scapolare, corda da impiccato al collo, morsetto alla bocca) lo fa immediatamente. In questa maniera salva la vita, ma deve sottostare alla condanna, che prevede l’espatrio verso le colonie africane, dove dovrà trascorrere i seguenti otto anni. In attesa di una nave che lo porti a destinazione, Corti viene ospitato dai Padri Carmelitani a Puebla. Qui, manco a dirlo, acquista di nuovo una grande popolarità, curando e guarendo un gran numero di pazienti. Al convento, ci va solo a dormire e, per il resto, ritorna alle gesta di sempre. L’Inquisizione, ovviamente, non ci sta e pretende dal viceré Azanza che si compiano gli ordini. Nel marzo 1797 Corti si imbarca su una nave da guerra a Veracruz ma ancora una volta il destino ci mette la mano. Il galeone deve partecipare a manovre belliche e lo lascia all’Avana, dove diviene medico di fiducia del giudice Luis Viguri, l’incaricato di stabilire arrivi e partenze dall’isola. Viguri, nonostante le ingiunzioni civili e religiose insiste che Corti non può lasciare Cuba per via delle sue condizioni di salute. L’italiano è malato di gotta, febbricitante ogni qualvolta che un vascello con destinazione Cadice giunge in porto. Il tira e molla dura cinque anni. Nel novembre 1802 giunge l’ingiunzione reale: Corti deve essere messo sulla prima nave e portato in Spagna dove sconterà la sua condanna e verrà scortato in Africa. Il 27 di quel mese le guardie lo vanno a prendere ma non lo trovano. Lo cercano per tutta Cuba, ma l’italiano è come se si fosse volatilizzato. Qualcuno dice di averlo incontrato alle Bahamas, sempre dedito cura dei malati, mentre lo storico costaricano Ricardo Fernández Guardia asserisce che sia morto a Filadelfia, nel 1825. Niente di più probabile che, di fronte all’ipocrisia e al puritanesimo della società coloniale spagnola, Corti abbia cercato di finire i suoi giorni sotto falso nome in un contesto dove poteva esercitare la medicina in santa pace.

Sul tema dell’Inquisizione in America Latina, consiglio la lettura di “La gesta del marrano” del cileno Marcos Aguinis.

martedì 9 settembre 2025

La macchinosa semplicità del trabocco

Il trabocco, la macchina pescatoria dannunziana, è lì, muto monumento dell’ingegno umano a fronteggiare il mare e i suoi umori. Non è l’unico. Da Ortona a San Salvo ce ne sono più di una ventina -il censimento dice ventitré- e sono parte di un litorale, quello chietino, che è stato fonte d’ispirazione per il vate abruzzese d’eccezione, Gabriele D’Annunzio.

Lo scrittore vive a San Vito Chietino una stagione tormentata assieme all’amante Barbara Leoni. Entrambi fuggono dalla noia dei rispettivi matrimoni e si calano nella solitudine agreste di un rustico situato in località San Fino, “una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii”. È l’estate del 1889 e quella esperienza lo spinge a scrivere “Il trionfo della morte”, ultimo capitolo della Trilogia della Rosa. Barbara diventa Ippolita, la protagonista del romanzo e i trabocchi della costa chietina assurgono a parte imperante del paesaggio. Non solo. L’etimologia del trabocco Turchino, che si insinua nel mare di fronte a un lato di quello che oggi è il promontorio dannunziano, risale proprio a un passaggio che si trova ne “Il trionfo della morte”:

-Chi è Turchino?- chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna, attratto da quelle cose misteriose. -L’uomo del trabocco?-. E si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti. -Sì, signore. Guarda là. Se hai buona vista, lo puoi scorgere. Stanotte pesca con la luna. E Candia indicò sulla scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro di un anfibio antidiluviano.

Quello scheletro di legni, argani, reti era parte del litorale chietino sin dalla metà del XVIII secolo. Nato come approdo per le navi di piccolo cabotaggio che ricevevano il materiale dissodato delle campagne, era stato trasformato con il tempo in un complicato strumento di pesca. Ad idearlo erano stati proprio i contadini, che avevano trovato così la maniera di domare l’arte della pesca senza mettere i piedi in acqua o ricorrere a un’imbarcazione. Nei tempi di magra, quindi, potevano ricorrere al mare per la loro sussistenza. Un’idea semplice che alimentava un sistema macchinoso.

I trabocchi hanno incuriosito non solo D’Annunzio, ma anche Pasolini e Dacia Maraini che ha dato una sua interpretazione al loro uso: “Cosa ci dicono infine questi trabocchi sorpresi nel loro lirico incanto? Che l’opera umana è sempre macchinosa e fragile, basta un soffio per distruggerla. Ma proprio la sua fragilità è anche la ragione della sua resistenza... sta a simbolizzare la patetica eppure grandiosa capacità dell’essere umano di credere nel futuro nonostante l’amarezza e la piccolezza del suo destino”.

Il trabocco oggi è stato svilito dal turismo. Seguendo l’imperante moda di proporre la ristorazione nei luoghi più improbabili, buona parte di quelle costruzioni funzionano come ristoranti, proponendo menu stellati per il piacere di pochi. A mantenere la memoria dei tempi passati, il trabocco Turchino, ristrutturato e trasformato in un piccolo museo di cultura popolare, salvaguarda la storia della gente comune. Vale una visita.  

https://traboccoturchino.com/

Italofonia, il merito degli italo-discendenti

Puntuale come ogni anno ad ottobre, arriva la Settimana della Lingua Italiana nel mondo (13-19 ottobre per l’esattezza), appuntamento che qu...