martedì 8 giugno 2021

Cristoforo Colombo spagnolo a tutti i costi

Il 20 maggio 1506 muore a Valladolid Cristoforo Colombo a causa, probabilmente, di un attacco cardiaco. Aveva 55 anni e, sebbene molti storici insistano sulla sua condizione di quasi indigenza, non morì nè povero nè dimenticato. Anzi, al momento della morte si trovava a Valladolid proprio per far valere i propri diritti di fronte al sovrano. Ritenuto al suo tempo cittadino genovese, con il passare del tempo la nazionalità di Colombo è stata messa continuamente in discussione. Ora, l’Università di Granada, grazie alle nuove tecniche sul Dna, annuncia che a ottobre sarà in grado di dare la risposta definitiva sui natali del navigatore.

A questo punto, sorge la domanda: qual è la trascendenza, oggi, di sapere di quale nazionalità fosse Colombo? Tanta insistenza pare quasi sospetta ed in effetti sarebbe il compimento del secolare processo di spagnolizzazione della figura dell’“Almirante”, processo cominciato, in un certo senso, proprio dallo stesso Colombo.  

Colombo ce la mise tutta, durante la sua vita, per cancellare le proprie origini. Sia lui che i suoi figli lasciarono ai posteri, a differenza di tanti contemporanei, fiumi d’inchiostro badando però bene di entrare nel dettaglio sull’origine della famiglia. Da una parte c’era la volontà specifica di Colombo di nascondere, probabilmente, gli umili –o comunque non nobili- natali che lo imbarazzavano e dall’altra il desiderio di venire riconosciuto dalla nobiltà castigliana come pari. Colombo voleva essere “di casta” per dare valore giuridico ai vari titoli ottenuti come scopritore delle nuove terre e doveva esserlo per poter difendere i propri privilegi dall’affamata aristocrazia locale. Non era però un segreto, per alcuni, la provenienza di Colombo: Ruy González de Pineda, ambasciatore a Londra, scriveva che “saranno mandate altre cinque navi, al comando di un altro genovese come Colombo”. Lo stesso navigatore, in una delle sue rare ammissioni, affermava in un documento del 1498 davanti a un notaio: “nato a Genova, sono venuto in Castiglia per servire i Re Cattolici”. Dove Genova, ricordiamo, poteva essere qualsiasi punto dell’allora prospera Repubblica.

L’impegno a celare le proprie origini lo occupò tutta la vita. Anche i figli rispettarono la consegna, almeno fino a quando Hernando, uomo colto, capace di raccogliere una biblioteca di 15.000 volumi (e quindi ricco sfondato, alla faccia della teoria del Colombo indigente) dichiarò nel suo testamento di essere “figlio di Cristoforo Colombo, genovese” e rivela quali fossero i suoi nonni: Domenico Colombo e Susanna Fontanarossa, di professione tessitori. Sarebbe sufficiente per darsi soddisfatti.

La storiografia spagnola, invece, non demorde. Lungo i secoli, cerca ovunque le tracce di un’origine iberica di Colombo che cambia secondo i tempi e le occasioni: galiziano, catalano, castigliano, basco, ma pur sempre con natali ben saldi nella penisola. C’è una necessità intrinseca, che risponde all’impulso della coscienza nazionalista iberica di dare al processo della scoperta dell’America e della sua colonizzazione l’impronta spagnola. Un’impronta, quindi, che non ammette ingerenze dall’esterno. L’italianità di Colombo, in cambio, è come il peccato originale, una macchia che non quadra con tutto il resto. Per farlo, si è screditato il valore del navigatore (la teoria che se scoprì l’America, il merito fu dei Pinzón, che dominavano l’arte marina; le accuse di pessimo amministratore e di crudeltà, per esempio) in vita e in morte. Ora, con la scienza come alleata, il Dna potrà finalmente dare risposte definitive su una questione che, in realtà, interessa solo gli spagnoli. Se si scoprirà che Colombo era di stirpe iberica, pazienza. Non cambia molto ai fini di quella che è stata la triste, drammatica storia della colonizzazione.

lunedì 31 maggio 2021

Dante, l'impegno politico e l'esilio

Nelle note a margine della conferenza “Los caminos de Dante. Firenze y el exilio” del passato venerdì 28 maggio, tenutasi nel sito della Biblioteca Nacional de Costa Rica (è possibile rivederla su https://www.facebook.com/bibliotecanacional.mcj.cr) spiccano alcuni appunti che non è stato possibile elaborare per il tempo a disposizione. In particolare, come l’impegno politico costi a Dante l’esilio. Dante nasce, cresce, si fa uomo a Firenze, una città che gli calza come un’armatura: rampollo di una famiglia benestante, esponente di riguardo del dolce stil novo, autore di “La vita nuova” e voce rispettata al centro del dibattito sull’uso o no del volgare.

La politica, però, ieri come oggi è una brutta bestia. Dante ci si impegna e ci si impegola, facendosi coinvolgere nel partito dei guelfi bianchi, sviluppando una testarda e idealista campagna morale contro i mali del suo tempo. Appoggia l’autonomia comunale contro ogni tipo di ingerenza esterna e chiede a se stesso e agli altri una virtù che pochi conoscono: l’onestà. Firenze sta crescendo e appare a chi la visita un fenomeno urbano e sociale in piena espansione. Dante ne denuncia invece la fragilità interna, dovuta ai difetti dell’animo umano, che si lascia sopraffare dalla smania del potere. Punta il dito contro i potenti della sua epoca, addirittura contro il papa soldato Bonifacio VIII che, spada in mano, tuona per espandere il potere temporale della Chiesa. Ritenuto da Dante responsabile della corruzione ecclesiastica, Bonifacio è però avversario temibile. Cosa ci guadagna il poeta da questa sua campagna? Una condanna a morte, l’esilio vita natural durante, l’ignominia del suo nome sbeffeggiato come traditore, la vergogna e il sequestro dei beni. La sua vendetta ha un titolo ed è la “Divina Commedia” dove entrano tutti, ma proprio tutti, i suoi accusatori. Ed è così che il corpo letterario dell’opera, si trasforma in un trattato morale contro la degenerazione dei costumi, il malaffare, l’avidità provocata dal potere, il peccato in generale che va oltre l’accezione del termine nell’ambito di etica cristiana, ed è una macchia indelebile in chi non sa essere uomo tra gli uomini.

Profondamente religioso, Dante diventa così il primo vero intellettuale laico della storia occidentale. Dalla sua cattedra itinerante, ci dice che non dobbiamo abituarci alla deriva della società, ma che abbiamo l’obbligo morale di reagire. Ci insegna a non essere ignavi (ricordate i versi dedicati a papa Celestino? “vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”), ma di prenderci le nostre responsabilità. Non c’è condanna a morte o esilio che tenga, o saremmo destinati per l’eternità a inseguire l’insegna bianca priva di significato, disdegnati sia dalla beatitudine che dagli inferi.

Quella voglia di Grand Tour

  “ L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo ...