martedì 9 settembre 2025

La macchinosa semplicità del trabocco

Il trabocco, la macchina pescatoria dannunziana, è lì, muto monumento dell’ingegno umano a fronteggiare il mare e i suoi umori. Non è l’unico. Da Ortona a San Salvo ce ne sono più di una ventina -il censimento dice ventitré- e sono parte di un litorale, quello chietino, che è stato fonte d’ispirazione per il vate abruzzese d’eccezione, Gabriele D’Annunzio.

Lo scrittore vive a San Vito Chietino una stagione tormentata assieme all’amante Barbara Leoni. Entrambi fuggono dalla noia dei rispettivi matrimoni e si calano nella solitudine agreste di un rustico situato in località San Fino, “una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii”. È l’estate del 1889 e quella esperienza lo spinge a scrivere “Il trionfo della morte”, ultimo capitolo della Trilogia della Rosa. Barbara diventa Ippolita, la protagonista del romanzo e i trabocchi della costa chietina assurgono a parte imperante del paesaggio. Non solo. L’etimologia del trabocco Turchino, che si insinua nel mare di fronte a un lato di quello che oggi è il promontorio dannunziano, risale proprio a un passaggio che si trova ne “Il trionfo della morte”:

-Chi è Turchino?- chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna, attratto da quelle cose misteriose. -L’uomo del trabocco?-. E si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti. -Sì, signore. Guarda là. Se hai buona vista, lo puoi scorgere. Stanotte pesca con la luna. E Candia indicò sulla scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro di un anfibio antidiluviano.

Quello scheletro di legni, argani, reti era parte del litorale chietino sin dalla metà del XVIII secolo. Nato come approdo per le navi di piccolo cabotaggio che ricevevano il materiale dissodato delle campagne, era stato trasformato con il tempo in un complicato strumento di pesca. Ad idearlo erano stati proprio i contadini, che avevano trovato così la maniera di domare l’arte della pesca senza mettere i piedi in acqua o ricorrere a un’imbarcazione. Nei tempi di magra, quindi, potevano ricorrere al mare per la loro sussistenza. Un’idea semplice che alimentava un sistema macchinoso.

I trabocchi hanno incuriosito non solo D’Annunzio, ma anche Pasolini e Dacia Maraini che ha dato una sua interpretazione al loro uso: “Cosa ci dicono infine questi trabocchi sorpresi nel loro lirico incanto? Che l’opera umana è sempre macchinosa e fragile, basta un soffio per distruggerla. Ma proprio la sua fragilità è anche la ragione della sua resistenza... sta a simbolizzare la patetica eppure grandiosa capacità dell’essere umano di credere nel futuro nonostante l’amarezza e la piccolezza del suo destino”.

Il trabocco oggi è stato svilito dal turismo. Seguendo l’imperante moda di proporre la ristorazione nei luoghi più improbabili, buona parte di quelle costruzioni funzionano come ristoranti, proponendo menu stellati per il piacere di pochi. A mantenere la memoria dei tempi passati, il trabocco Turchino, ristrutturato e trasformato in un piccolo museo di cultura popolare, salvaguarda la storia della gente comune. Vale una visita.  

https://traboccoturchino.com/

giovedì 28 agosto 2025

Quando andammo in Crimea

 “L’aggressione russa all’oppresso ottomano” fu il pretesto, centosettanta anni fa, perché il Regno di Sardegna approntasse una spedizione in Crimea. Di scuse, per mettersi nei guai, se ne trovano sempre. Oggi, quel conflitto da molti dimenticato, rivive amplificato dai proclami guerrafondai di certi ambienti politici avvezzi al potere fine a se stesso. Per chi è di Torino, come me, invece, la Crimea è sempre stata presente grazie ad una toponomastica stradale estesa e dettagliata sul tema. Girando per il capoluogo piemontese ci imbattiamo nella centralissima via Cernaia e ancora a piazza Crimea con il relativo obelisco in ricordo dei caduti, via La Marmora (Alfonso, comandante del contingente sabaudo), corso Sebastopoli. Inoltre, un piccolo borgo a ridosso del Po, gioiello architettonico di palazzine liberty ed eclettiche, è oggi uno dei quartieri più esclusivi di Torino, il quartiere Crimea, appunto. 


Ma cosa ci siamo andati a fare in Crimea? La guerra di Crimea nasce soprattutto per dare una lezione allo zar, tanto per cambiare. All’origine c’è la contesa tra Napoleone III e Nicola I su chi dovesse controllare i luoghi sacri della cristianità in Palestina: i monaci cattolici o quelli ortodossi. Un braccio di ferro che culmina con una prova di forza della marina francese che obbliga i Turchi, che controllano il Medio Oriente, ad accettare l’ultimatum napoleonico. La Russia, a quel punto, non ci sta e occupa militarmente Moldavia e Valacchia. L’escalation continua colpo su colpo, fino a giungere alla mobilitazione dei britannici a fianco dell’Impero Ottomano. Francia e Inghilterra entrano quindi nel Mar Nero. Un pretesto secondario, insomma, scatena il finimondo. La paura è che “il grande malato”, l’impero Ottomano, venga spezzettato e i russi possano penetrare nei Balcani e controllare il Bosforo e, di conseguenza, l’accesso al Mediterraneo.

Vittorio Emanuele II non vuole restare a guardare. Ha da poco combattuto la sfortunata Prima Guerra d’Indipendenza e, sostenuto dal conte di Cavour, comprende che in quel particolare momento c’è bisogno di riconoscimento internazionale e di dimostrare alla rivale Austria, che tentennava sulla posizione da tenere in quel conflitto, che il piccolo regno può contare sull’appoggio delle grandi potenze. Il Regno di Sardegna entra in guerra e lo fa in una fase già avanzata, nell’aprile 1855, mandando un contingente di 18.000 soldati (piemontesi, sardi, liguri e savoiardi) che si attestano alle porte di Sebastopoli. Ad attenderli trovano un tempo da cani (prima l’afa e poi la neve), le pulci, le zanzare, il colera, il tifo. Intanto, in Europa la guerra di Crimea mitificata da una serie di articoli dal campo di battaglia. I giornalisti in prima linea assicurano storie succose per l’opinione pubblica in patria, determinando non solo eroi e villani, ma dispensando anche consigli di moda (lord Cardigan offrirà un capo di successo) e storie strappalacrime, come il sacrificio dell’amazzone lady Campbell. La sottile linea rossa citata dal giornalista William H. Russell o la carica dei Seicento immortalati dal poeta Tennyson entrano a fare parte della cultura popolare. Tolstoj, artigliere dell’esercito russo, scriverà sulla vicenda e gli orrori della guerra “I racconti di Sebastopoli”. I pittori si sbizzarriscono. Yvon, Barrias, Simpson, Induno: ogni nazione coinvolta partecipa all’iconografia militare apportando gesta eroiche per il proprio bando.

La guerra finisce nel febbraio 1856. I russi rinunciano a Moldavia e Valacchia e Cavour, al Congresso di Parigi che sanziona la pace, alza la voce sulla questione italiana irrisolta. Il bilancio dell’intervento sardo parla di quasi 2000 tra morti e feriti: la metà, però, se li è portati via il colera e non il fuoco nemico. La malattia, curata con decotti di riso e rum in mancanza di medicinali, uccise anche Alessandro La Marmora, fratello del capo spedizione Alfonso e fondatore del corpo dei Bersaglieri. I tempi, però, per la Seconda Guerra d’Indipendenza, sono maturi.

sabato 16 agosto 2025

Tra palme e gelsomini, il buen retiro di Hammamet

A fine luglio ho avuto il piacere di essere invitato ad Hammamet, in Tunisia, a presentare il mio ultimo libro, “L’ira nella palude”. È stata un’esperienza grata, che mi ha permesso di conoscere la città e una parte importante della variegata comunità italiana di questo paese africano. Per noi italiani la fama di Hammamet è stata per anni accomunata al nome di Bettino Craxi, che qui spese gli ultimi anni della sua vita, ma percorrendo le sue vie e conversando con i residenti si scopre che questa località ha accolto nel secolo passato altri ospiti illustri: Paul Klee, Elsa Schiaparelli, Jean Cocteau, Andrè Gide, Frédéric Mitterrand tra gli altri, nonché il facoltoso filantropo romeno Gheorge Sebastian che ha lasciato in città un’impronta permanente. Winston Churchill, ospite dell’hotel Les Orangers, ha cercato qui la pace necessaria per staccarsi dalla politica e dedicarsi alla pittura e scrivere le sue memorie.

Hammamet dispone di clima e spiagge meravigliose, oltre alla storica medina, che è poi l’anima del luogo. Al di là delle offerte commerciali di rito, preparate con cura per uso e consumo dei turisti, la medina offre spaccati di vita e indicazioni sulla cultura locale. I pesci scacciamalocchio dipinti sulle pareti o i simboli marcati su ogni porta di casa, che raccontano storie famigliari, sono un paio dei tratti alla vista di tutti. Basta solo allontanarsi un poco dagli itinerari delle botteghe per respirare l’aura originale della medina, avvolta nel silenzio e nella quiete. Talvolta, voci di donne o i sapori della cucina impregnati di harissa, traspirano dalle case. Fuori dalle mura, l’ambiente muta. Regna uno scompiglio organizzato, poco comprensibile al visitatore occasionale, ma comune qui come altrove nel mondo arabo.

Hammamet ha visto insediarsi nel corso dei secoli Fenici, Cartaginesi, Romani, Arabi, Turchi e Francesi. Oggi è il buen retiro di almeno settemila italiani che hanno trovato non solo una pur comoda agevolazione fiscale, ma anche la possibilità di poter vivere l’età pensionabile in maniera leggera. Si riscoprono i ritmi lenti, con le mattinate nei caffè che guardano al Mediterraneo, il tardo pomeriggio sui lidi e le serate nei club a competere nel burraco. L’Italia, per molti, è diventata sinonimo di disillusione. Tra i nostri compatrioti aleggia la sensazione di aver lasciato un Paese a cui è stato dato tutto e che, in cambio, ha restituito poco o nulla. Si seguono sempre le vicende della penisola ma con distacco, come se il corso degli eventi ormai appartenga a un mondo dal quale ci si è tirati fuori appena in tempo.

“Credi a chi cerca la verità. Dubita di chi la trova” scriveva André Gide, che nel 1893 approdava per la prima volta in Tunisia dove trovò poi terreno fertile per la propria crescita personale. I nostri connazionali, che sono giunti qui se proprio non sono alla ricerca della verità, sono comunque alla ricerca di una realtà dove le cose possano di nuovo assumere contorni credibili, a misura d’uomo. I residenti mi spiegano che l’aria, eterea, indolente, aria che sa di salsedine, gelsomino e spezie, poco a poco ti entra dentro e non ti lascia più. Hammamet, pare, ha questa caratteristica. Oltre a quella, definitiva per molti italiani, che dimostra come un altro mondo sia possibile. 

lunedì 26 maggio 2025

Quella voglia di Grand Tour

 L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo”. Così scriveva Giorgio Manganelli ricordando i tempi in cui la nostra penisola si apriva ai primi viaggiatori, studiosi e letterati spinti dal desiderio di conoscere in prima persona le vestigia dell’antichità classica lasciate da Greci, Etruschi, Romani.

Il vero e proprio interesse per l’Italia nacque con il “Viaggio in Italia” che Goethe pubblicò nel 1816 come diario dell’itinerario che aveva realizzato nella penisola nel 1786. Goethe, entusiasta dell’Italia, non fece altro che rendere pubblica quella che era diventata un’attività comune tra i pupilli delle famiglie altolocate del Nord Europa -sia nobili che borghesi- e che aveva avuto origine già alla fine del XVII secolo quando Richard Lassels aveva pubblicato “Voyage in Italy”. Era il 1670 e quel sacerdote inglese con l’hobby dell’avventura aveva al tempo compiuto cinque viaggi in Italia. Forte della sua esperienza aveva coniato il termine Grand Tour, come espressione di viaggio culturale e formativo e, senza saperlo, aveva posto la base semantica per due nuove parole: turista e turismo.

Nel XVIII secolo il Grand Tour è prerogativa dei rampolli delle famiglie nobili, che affrontano il viaggio con lo scopo di arricchire il proprio bagaglio culturale. Dopo la parentesi napoleonica e l’Europa ridotta a un campo di battaglia, i fautori della rivoluzione industriale elevano il Grand Tour a formula di rito, espressione massima del benessere raggiunto dai nuovi ricchi. L’influenza ancora viva dell’Illuminismo pervade le menti. Si sente impellente il bisogno del sapere, la necessità di realizzare esperienze in prima persona che portino i giovani a toccare con mano il passato e, dove si può, l’antichità classica. L’Italia offre queste prerogative ed è a portata di mano. I laghi del settentrione, la Liguria, Venezia, Firenze e Roma diventano mete imprenscindibili e chi ha tempo, denaro e coraggio si spinge anche a Napoli e in Sicilia. Gli spostamenti sono travagliati e i resoconti ci aiutano a immaginarci l’Italia dell’epoca. Le strade sono impervie e spesso le carrozze devono lasciar posto a cavalli e muli; le stazioni di posta sono prive di ogni comodità; certe zone sono battute dai banditi. Goethe, inoltre, ci aggiunge la sporcizia. Venezia, Napoli, Palermo non brillano per l’ordine. Parlando di Venezia, il letterato tedesco scrive: “sono rimasto colpito dalla grande sporcizia delle strade” situazione che ritrova a Palermo, dove il sudiciume serve addirittura a fare da strato per ricoprire il manto stradale.

Ciononostante, non c’è ostacolo che tenga. Guidati dagli schizzi di Piranesi e di altri paesaggisti, i viaggiatori hanno l’obiettivo di arrivare almeno a Roma per vedere il Colosseo con i propri occhi. I più temerari raggiungono le coste, da quella ligure a quella sorrentina che, con l’avvento del Romanticismo, diventano simboli destinati a perdurare nell’immaginario della gioventù dell’epoca. Il Grand Tour però non era solo tuffarsi nell’antichità. L’Italia del tempo, infatti, ha molto da offrire: il neoclassicismo, l’architettura palladiana, la commedia dell’arte, l’opera lirica vengono apprezzati, assimilati ed esportati. La concezione didattica del viaggio impone di partecipare ai salotti letterari, di creare bozzetti di viaggio, di accaparrarsi antichità che, vere o false, vengono proposte da sedicenti venditori. La lista dei personaggi famosi è lunga. Mary Shelley, George Byron, Stendhal, John Ruskin, Georges Bizet, John Keats, Charles Dickens, George Eliot, Louise May Alcott sono solo alcuni degli illustri ospiti. Il loro Grand Tour è l’embrione del turismo moderno, ma ancora pervaso da un ingenuo alone di romanticismo. George Byron regala all’Italia uno dei suoi versi più famosi (“Oh Italia, tu che hai il fatal dono della bellezza”), mentre Mary Shelley, la mamma di Frankenstein, più pragmatica annota: “L’Italia è un luogo affascinante, ricco di storia e di arte, ma anche di tristezza e di dolore”. Poche cose sono cambiate da allora nel nostro animo.

mercoledì 14 maggio 2025

Le "stanze", le prime pizzerie di Napoli

Non è facile stabilire una data precisa che definisca la nascita della pizza. Piatto dei poveri per eccellenza, comincia la sua storia come una focaccia su cui vengono sparsi i resti del pescato del giorno o l’origano. Ingredienti appunto poveri che marinai, soldati, bottegai consumano sopra una focaccia bianca perché a fine Settecento la pizza, a Napoli, si mangia per strada. Ci sono i venditori ambulanti che girano per i rioni, ma poco a poco si sente la necessità di sedersi a un tavolo, proprio come si fa in famiglia. E allora, ecco che nascono le “stanze”, vani affacciati sulla strada, una camera appartenente al nucleo famigliare che viene improvvisato negozio. Si cucina all’improvvisata, sulle cucine a legna, con l’acqua che è attinta dai pozzi che scavano nel sottosuolo cittadino. La gente passa e compra la pizza: i tavoli sono una novità e una schiccheria che presto prende piede. Ci si sofferma, si fanno quattro chiacchiere e poi via di nuovo. 

Nel 1807, secondo l’Archivio di Stato napoletano, ci sono 55 esercenti pizzaioli che dispongono di bottega. Gli ambulanti, però, continuano a fare il loro mestiere. Comprano le pizze dalle “stanze” e le vendono in strada, quasi sempre a tranci, con il loro carretto. Vengono citate nei testi le stanze di Port’Alba, Pietro e basta così, le stanze di Porta Carità, quest’ultima diventata oggi la pizzeria Martozzi. Ci sono anche i primi commenti di personaggi famosi, come quello di Alexandre Dumas padre, noto amante della buona cucina, che prova la pizza nel 1835 e la considera, nonostante la semplicità, “un piatto complesso”. Samuel Morse, l’inventore dell’alfabeto dallo stesso nome, è invece categorico nel suo giudizio: “una specie di torta nauseabonda” che somiglia “a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna”. Il palato raffinato di Morse poco può sopportare la pizza, alimento povero destinato alla gente che lavora e che, spesso, non ha i soldi per potersela pagare. Ed è così che nasce l’idea della pizza a otto, un sistema che permette di mangiare i tranci una volta al giorno e poi pagare la pizza intera a fine settimana, una volta ricevuta la paga.

Napoli a quel tempo conta quasi 400.000 abitanti ed è una bomba a orologeria in materia di sanità pubblica. La rete fognaria è fatiscente, la spazzatura viene lasciata a marcire per le strade, nei quartieri del centro storico l’aria ristagna, le abitudini igieniche sono pessime. Nell’autunno del 1836, mentre il re Ferdinando II è a Vienna alla ricerca di una nuova consorte (Maria Cristina è morta a gennaio per le conseguenze del parto) scoppia nel Regno una tremenda epidemia di colera, che si protrae fino all’ottobre 1837, causando migliaia di vittime -una stima dell’epoca parla di almeno 30.000 decessi solo nella città partenopea-. Tra le vittime, anche se oggi considerata collaterale, c’è anche il poeta Giacomo Leopardi.

Ci vuole del tempo per rimettersi in piedi, ma la rinascita è veloce e passa soprattutto per un cambiamento delle abitudini dei napoletani. Le stanze si trasformano in pizzerie a tutti gli effetti, condizione che permette un controllo più sicuro da parte delle autorità. Gli ambulanti sono ancora tollerati ma si è ormai aperta una nuova epoca. Nel 1853 lo scrittore Francesco de Bourcard pubblica “Usi e costumi di Napoli e contorni”, una guida sulla città dove, tra le altre cose, cita la pizza come piatto popolare con un ricetta che anticipa la pizza diventata famosa anni più tardi con il nome di Margherita, in onore all’allora regina italiana. Intanto, nel 1871 le pizzerie sono diventate 123. La pizza emigra insieme agli italiani ed è pronta per trasformarsi nel piatto simbolo della nostra cucina.

martedì 6 maggio 2025

La papessa Giovanna tra storia e leggenda

Questa settimana si apre il conclave per eleggere il nuovo papa dopo la dipartita di Francesco I. È un avvenimento che interessa tutta la cristianità -2500 milioni di persone in tutto il mondo-, soprattutto perché definirà se la timida apertura voluta da papa Bergoglio troverà un erede o se, invece, si tornerà a una conduzione della Chiesa di stampo conservatore. Tra i tanti temi in sospeso, rimane sempre quello del sacerdozio femminile, irrisolto dagli albori della cristianità. Uno dei miti nati in questo contesto è quello della papessa Giovanna, assurto come monito sulla presenza femminile all’interno della Chiesa.

È ormai accertato che quello della papessa Giovanna fu un mito messo in circolazione con lo scopo preciso di demonizzare la presenza della donna nella Chiesa cattolica. Attraverso la sua parabola si volevano dimostrare i pericoli di un’apertura e, quindi, l’inaffidabilità del genere femminile all’interno della gerarchia ecclesiastica. Non è un caso che, insieme alla storia della papessa Giovanna, apparve nello stesso periodo -siamo alla fine del XIII secolo- anche la letteratura sulle streghe, un universo immaginario che presto venne applicato alla realtà. Più tardi, la storia venne ripresa dagli ambienti protestanti per screditare la Chiesa cattolica in pieno periodo di scisma.

Ma chi sarebbe stata la papessa? Nelle cronache, alcune controverse, era una donna inglese educata a Magonza dove, grazie ai suoi travestimenti, sarebbe riuscita a diventare monaco e quindi addirittura papa nell’855 succedendo a Leone IV con il nome di Giovanni VIII. Incapace di resistere alle tentazioni della carne, continuò ad avere rapporti con i suoi amanti rimanendo in cinta. Fu così che, durante una processione pubblica due anni dopo la sua elezione, venne colpita dai dolori del parto e scoperta. La reazione della folla fu implacabile: trascinata per i piedi da un cavallo, fu lapidata senza pietà. Benedetto III, il papa successivo, si assicurò che il nome della papessa scomparisse per sempre dagli annali della Chiesa.

La proliferazione della leggenda avvenne nell’ambito del processo di discredito verso le donne. La storia, messa in giro da due cronisti, Martino Polono e Giovanni di Metz nella seconda metà del XIII secolo, trovò terreno fertile nel partito di chi non voleva ammettere le donne al potere e ancora meno, quindi, al sacerdozio. Alcuni decenni dopo, nel 1330, il vescovo galiziano Alvaro Pelayo scrisse “De planctu ecclesiae”, dove descriveva la donna come l’oggetto privilegiato del demonio scatenando di fatto, la vera e propria caccia alle streghe. Non a caso. L’opera di Pelayo si prefiggeva di contrastare l’eresia dei Guglielmiti, che veneravano la mistica Guglielma da Milano, morta in questa città nel 1280. Venerata come l’incarnazione dello Spirito Santo, secondo i suoi seguaci, la donna sarebbe salita al cielo per instaurare una nuova gerarchia femminile all’interno della cristianità. La sua vicaria, Maifreda da Pirovano, aveva assunto i poteri sacerdotali -destinati solo agli uomini- e predicava per raggiungere il soglio pontificio. Quando Maifreda officiò la messa pasquale del 1300, accompagnata da varie diaconesse, intervenne immediatamente l’Inquisizione. Bonifacio VIII chiese un processo che fosse di monito: sia Maifreda che la sua principale collaboratrice Giacoma dei Bassani vennero bruciate sul rogo. Ciononostante, c’era bisogno di una letteratura che definisse una volta per sempre il ruolo delle donne nell’ambito religioso. Mistiche sì, ma svuotate di potere e in costante atto di sottomissione verso quella che era la gerarchia ecclesiastica. La leggenda della papessa Giovanna va quindi considerata come parte di questo contesto.

Due secoli più tardi, la Riforma protestante si avvarrà di quella leggenda per farla apparire come un evento realmente accaduto. Lo scopo era quello di denigrare la Chiesa cattolica: predica bene, ma razzola male relegando le fedeli a un ruolo subalterno. E, in effetti, a distanza di tanto tempo il ruolo della donna ancora spaventa e intimorisce.

lunedì 28 aprile 2025

Quel primo giallo da centomila copie

Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore...”. L’incipit, attuale e vigoroso, sembra tratto da un romanzo uscito appena ieri. Invece, stiamo parlando di un’opera pubblicata nel 1887. L’autore, Emilio De Marchi, è un milanese che proviene dal movimento della Scapigliatura e forse senza saperlo -anche se nella prefazione ne parla come un romanzo “d’esperimento”-, ha appena pubblicato il primo giallo della letteratura italiana. Il libro si intitola “Il cappello del prete” ed ha un successo incredibile. In un’epoca in cui vendere mille copie significava aver superato ogni aspettativa, “Il cappello del prete” di copie ne fa centomila.

A poco più di un ventennio dall’Unità d’Italia, gli italiani sono ancora in gran parte analfabeti. Ciononostante c’è una grande voglia di leggere. La diffusione di romanzi e di giornali permette alla borghesia incipiente di conoscere il mondo a cui la nuova nazione si affaccia con entusiasmo ed impazienza. In quel contesto gli alfabeti erano poco più di sei milioni, all’incirca il 25% della popolazione, per cui il mercato editoriale si deve accontentare di una base di fruitori abbastanza limitata. Nonostante tutto, escono alcuni best sellers. Alcuni li ricordiamo ancora oggi, “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi su tutti, ma ci furono altri casi, di autori che abbiamo oggi dimenticato. Enrichetta Caracciolo (“Misteri del chiostro napoletano”), Michele Lessona (“Volere è potere”), Antonio Stoppani (“Il Bel Paese”) -ma questi ultimi due erano testi divulgativi- sono scrittori estremamente popolari. Assieme a loro si piazza anche De Marchi con “Il cappello del prete” che, presentato come romanzo d’appendice, riscuote un successo senza precedenti.

Pubblicato inizialmente a puntate su due giornali (“L’Italia del Popolo” di Milano e “Il Corriere” di Napoli) “Il cappello del prete” venne edito su volume nel 1888. De Marchi, che all’epoca aveva trentasei anni, dice di aver voluto scrivere un libro esplicitamente per il lettore: “l’arte è cosa divina” commenta nella prefazione “ma non è male, di tanto in tanto, scrivere per i lettori”. Lontano dalle atmosfere di “Il piacere” e de “I Malavoglia”, pubblicati lo stesso anno e destinati al ruolo di pietre miliari della  nostra letteratura ottocentesca, “Il cappello del prete” è rivolto al pubblico di massa e ricalca, in questo senso, le atmosfere dei “feuilleton” francesi. L’operazione riesce e il libro si rivela un vero e proprio caso editoriale.

La storia si svolge a Napoli e, a fianco dei personaggi principali (il barone Santafusca, il prete Cirillo, don Antonio) De Marchi pone un’umanità viva e reale, in una passerella di figure popolane che mostrano al lettore povertà e miserie dell’animo umano. Nel romanzo, però, c’è soprattutto un omicidio e un solo indizio: il cappello del prete, appunto. Da qui prende spunto la trama che serve a De Marchi, che crede nel ruolo educativo della letteratura, a dare un monito ai lettori a non lasciarsi deviare dal vizio. Nonostante le vendite, De Marchi non tornerà più su quello che da quel momento prese a chiamarsi romanzo giudiziario e più tardi, con l’avvento della serie Mondadori, il giallo. Lo scrittore, probabilmente, pur avendo tracciato il cammino, non aveva compreso le enormi potenzialità del genere.

Si può scaricare qui: https://liberliber.it/autori/autori-d/emilio-de-marchi/il-cappello-del-prete/


Italofonia, il merito degli italo-discendenti

Puntuale come ogni anno ad ottobre, arriva la Settimana della Lingua Italiana nel mondo (13-19 ottobre per l’esattezza), appuntamento che qu...