lunedì 11 gennaio 2021

Più forte di Maradona: la storia del Mágico González

 


 

Quando chiesero a Maradona se ci fosse un giocatore migliore di lui, il Pibe rispose affermativamente: “Certo: è Jorge Alberto González, un fenomeno”. Fuori dalla Spagna e dal suo natale El Salvador è quasi uno sconosciuto, però González, soprannominato il Mágico, classe 1958, è stato uno dei più talentuosi giocatori della sua generazione. A frenarne la fortuna calcistica fu il suo carattere, insofferente a regole, orari e conformismo. “Il calcio per me è un gioco” diceva nelle interviste, “non potrà mai essere un lavoro”. Infatti, nonostante le sue innegabili doti, non riuscirà mai a dare il salto in un grande club.

Nato a San Salvador, il padre Oscar, allenatore di calcio gli mette subito un pallone tra i piedi. Attaccante, magro come un chiodo, faccia alla Rino Gaetano, a 16 anni esordisce nella Prima divisione del suo paese e, vestendo la maglia del Fas, vince due campionati. Le qualificazioni per il Mondiale spagnolo del 1982 lo vedono come protagonista. Nella fase dei gruppi segna cinque gol e alla resa dei conti, il suo El Salvador elimina il Messico di Hugo Sánchez vincendo 1-0. L’impresa sportiva regala un poco di allegria in un paese che sta sprofondando nella guerra civile.

Il Mundial, però, è da dimenticare. La Azul y blanco ne prende dieci dall’Ungheria e poi perde anche contro Argentina e Belgio. La figura fatta è pessima, ma a González arrivano differenti offerte sia dall’Europa che dall’America. Lo vuole il PSG reduce dalla sua prima vittoria di prestigio (la Coupe de France), ma il giorno della firma, a conferma del carattere bislacco, il Mágico non si presenta. Preferisce la Spagna, dove non deve imparare nessuna lingua straniera e a spuntarla è il Cádiz, non proprio una grande squadra visto che è appena retrocesso in Seconda divisione e non vanta nessun titolo.

I compagni di squadra rimangono impressionati. Durante gli allenamenti González palleggia con tutto: arance, palline di ping pong, perfino pacchetti di sigarette. Scommette con i portieri: la palla te la metto là e vince sempre. Ha una facilità di corsa e una progressione impressionante. Dorme, però, anche troppo, perché oltre ai campi di calcio il Mágico ha una grande attrazione per la vita notturna. L’allenatore gli deve mettere un compagno di squadra che lo deve svegliare, metterlo sotto la doccia e portarlo al campo. Quando è acceso, in campo la vittoria è assicurata, altrimenti... Il calcio, come dicevamo, è un gioco, non un lavoro. Il Cádiz, però, torna subito in Prima divisione e, con lui, ci rimarrà otto stagioni, retrocedendo proprio l’anno in cui González abbandonerà il club.

Nel frattempo, arriva la grande occasione. È l’estate del 1984 e il Mágico viene chiamato dal Barcelona che lo porta in tournee negli Stati Uniti. Con Maradona gioca due partite, segna al Cosmos e al Fluminense, incanta con le sue giocate. Il Pibe lo applaude, non aveva mai visto un fenomeno tale e scomoda, per paragonarlo, tutti i grandi nomi dell’olimpo calcistico. Tutto bene? No. González non piace ai dirigenti blaugrana. Dorme tutto il giorno e, la notte, fa casino con Maradona. Viene così rispedito al Cádiz, che invece di tenerlo lo gira al Real Valladolid per una stagione. Ma neanche Los Pucelas ne vogliono sapere di giocatori indisciplinati sia in campo che fuori. Gonz
ález è infatti uno di quelli che non si adattano agli schemi, giocano con fantasia e improvvisazione. Per questo le sue giocate strappano appluasi, i suoi gol sono da cineteca, ma per gli allenatori quel giocatore magro, insofferente alla tattica, è un problema. Cádiz diventerà quindi la sua casa definitiva (nel 1990 rifiuterà l’Atalanta), l’unico posto dove lo capiscono. Il Mágico ripaga l’affetto del suo pubblico guidando la squadra alla semifinale della Copa de Liga, massimo risultato mai ottenuto dalla Banda, dove però sbatte contro la corazzata Real Madrid. Nel 1991, con 33 anni sul groppone, il Cádiz lo saluta e lui ritorna a El Salvador, dove intanto è tornata la pace, nel suo club di sempre il Fas, dove giocherà fino a 41 anni suonati.

La decennale esperienza spagnola lascia il segno. Nel 2011 il suo gol al Barcelona nella stagione 1987-88 viene votato come il più bello nella storia del calcio spagnolo. È un gol alla Maradona: prende palla nella sua metà campo, si porta a spasso tre difensori blaugrana ed infila il portiere che esce per contrastarlo. La vita dopo il fútbol è dura. Per un tempo, finisce a guidare taxi; poi la nazionale del suo paese lo prende come assistente. El Salvador gli dedica pure lo Stadio olimpico, omaggio in vita a quello che è stato considerato come il più grande calciatore centroamericano di tutti i tempi.

giovedì 7 gennaio 2021

Ulisse naviga nei Caraibi

L’epopea di Ulisse trasposta nei Caraibi. Questa la brillante idea che fa da sfondo alla trama del libro di Antonio Graziosi, “Ulisse nel Caribe”, intreccio tropicale in chiave attuale di peripezie che si fondono con il mito. Innanzi tutto, alcune parole sull’autore, al suo esordio letterario. Nato a Torino, 63 anni, economista, una vita trascorsa in giro per il mondo rappresentando un’agenzia delle Nazioni Unite, Graziosi ha messo infine radici in Costa Rica. Qui ha scritto in spagnolo e pubblicato per Letra Maya “Ulises en el Caribe”, presto redatto anche in italiano per Neos Edizioni di Torino.

La trasposizione è suggestiva. L’Egeo che si trasforma nei Caraibi, Odisseo che diventa Ulises Peralta, un ex carcerato che dopo trentanni di prigione per crimini politici, si mette alla ricerca della famiglia –la moglie amata- in un Centroamerica che diventa a sua volta mito. La lettura trasuda grandi intenzioni. Ci sono i luoghi, peculiari ed emblematici del tropico, immersi nella natura rigogliosa, ma ci sono soprattutto i personaggi, disegnati da Graziosi con una prosa fluida, ricca, che accompagnano il lettore con le loro storie fatali nella ricerca ossessiva in cui è impegnato l’Ulisse moderno. Primo fra tutti, Lucila, la Penelope tropicale che non è solo fugace desiderio di Ulises Peralta, ma protagonista a sua volta, con il proprio tessuto narrativo e la sua peculiare visione della storia.

Il paragone con il realismo magico è dovuto: la presenza esuberante dei paesaggi, la caratterizzazione dei personaggi, le referenze socio culturali, la descrizione di un mondo sospeso tra la realtà ed il fantastico contrassegnano le pagine di “Ulisse nel Caribe”. In concomitanza alle vicissitudini del protagonista, troviamo la presenza simbolica dello squalo balena, il ritornello che affiora periodicamente tra le pagine, il grande pesce che vive la sua esistenza marina in un parallelo allegorico con quella del terrenale Ulisse.

Ed è un mondo sognato ma reale quello che emerge, con aneliti di giustizia e tante contraddizioni, che si scontrano con l’ineluttabilità e le miserie dell’animo umano, segnato da un destino inevitabile.

 

Antonio Graziosi, Ulisse nel Caribe, Neos Edizioni, Torino, 2020.

lunedì 4 gennaio 2021

Quando gli italiani inventarono lo sciopero

Italiani, gente che emigra. Se ne andarono a milioni nella seconda metà dell’Ottocento, in cerca di fortuna e di opportunità, in grande maggioranza nell’agognata “Merica”, la terra delle grandi occasioni. La manodopera italiana arrivò un poco ovunque, perfino negli angoli più remoti del continente per realizzare grandi opere (alla costruzione del Canale di Panama vi lavorarono 4000 Italiani) o semplicemente per cercare fortuna. Due contingenti di italiani giunsero in Costa Rica in due riprese (nel novembre 1887 e nel maggio 1888) per costruire la parte mancante della ferrovia dell’Atlantico, che deve unire la capitale San José al porto di Limón. Il committente è Minor Keith, un imprenditore statunitense a cui il governo tico ha consegnato il compito di costruire la ferrovia. Il primo tratto, quello più semplice, è già stato completato. La manodopera era stata affidata a un gruppo di lavoratori provenienti da Curacao e da un altro, più numeroso, di cinesi. Si lavora nella giungla, in condizioni estreme. Cinesi e antillani, in semischiavitù, non hanno il diritto di lamentarsi. Gli italiani, invece, sconvolgeranno il sistema. Provenienti in maggioranza dalle campagne mantovane, e in minor numero dalla provincia di Rovigo, sono in 1310. Subito, si rendono conto di essere stati buggerati. Il clima risulta intollerabile, la geografia impietosa, le condizioni di lavoro pessime.


Negli accampamenti mancano i servizi medici, le giornate lavorative sono interminabili, il salario è ridotto al minimo, il rancio scarso. Il pane viene consegnato a giorni alterni ed è sempre rancido. Gli incidenti e le malattie fanno una settantina di vittime mortali nel breve periodo che va da giugno a ottobre. Proprio a giugno cominciano le proteste, ma ogni rivendicazione cade nel vuoto. Continuano le umiliazioni e le tragedie.

Il 20 ottobre 1888 la misura è colma. Da tre mesi gli italiani non ricevono lo stipendio. Denunciano, inoltre, di aver un solo medico a disposizione nei nove accampamenti dell’azienda, sparsi in un raggio di trenta chilometri. Nel più lontano, immerso nella giungla, la percentuale degli ammalati è del 78%. Languono in branda senza assistenza medica, preda delle febbre gialla. L’unica soluzione è lo sciopero. È la prima volta in Costa Rica, probabilmente in tutto il Centroamerica, regione dove i potenti –oligarchi, terratenenti, caudillos- sono abituati a fare il bello e il cattivo tempo. Abbandonano il posto di lavoro e dalla giungla, in una marcia di 50 chilometri, marcata dagli stenti e dai pericoli (durante la peripezia muoiono in sei) raggiungono la città di Cartago. Da lì, rifocillatisi, si presentano nella capitale dove il governo li minaccia: o vi trovate un lavoro (era proibito il vagabondaggio) o vi sbattiamo in prigione. Minor Keith è ancor più sprezzante: “Non vi pagherò una lira e non vi darò da mangiare finché non tornerete al lavoro” minaccia. Il contratto però parla chiaro: l’imprenditore è obbligato a dare assistenza medica, a compiere con il pagamento del salario e a garantire i pasti. In caso contrario, i lavoratori possono chiedere il rimpatrio a spese dell’azienda.

Il 15 novembre gli italiani si scontrano con la polizia e in ventidue (i delegati dello sciopero) terminano in cella. Sembra che la situazione sia irreversibile. Il governo non può cedere, sarebbe come dimostrare la propria debolezza di fronte a un gruppo di facinorosi: è importante mantenere la pax sociale ed evitare che lo sciopero si estenda. Piuttosto, essendo alla ricerca di manodopera, invita gli operai a riprendere il lavoro e, come premio, riceveranno la nazionalità e la promessa di farsi raggiungere dalle famiglie. La risposta è no.


Si instaura così un tavolo di negoziati a cui partecipano il console italiano, l’azienda e il governo. Ma a limare le differenze ci pensano gli abitanti di San José e Cartago, che offrono agli italiani un lavoro, almeno fino a quando la situazione non verrà risolta. Governo e azienda si impegnano a questo punto di organizzare il viaggio di ritorno degli italiani. Il 16 marzo 1889 si imbarcano sul vapore francese “De Lesseps” in 847 non prima di aver ringraziato sulla stampa l’aiuto offerto dai semplici cittadini che avevano messo a disposizione le loro case e i loro negozi per aiutarli.

Alcune centinaia di emigranti decideranno comunque di rimanere in Costa Rica, creando di fatto la comunità italiana che ancora oggi ha un ruolo importante nella società locale. Intanto, continua su https://sullerotaiedeitutiles.com/ la raccolta di materiale per poter ampliare l’informazione sull’intera esperienza dei 1310 italiani nella costruzione del Ferrocarril al Atlántico. Ad allestirlo sono Lorenzo Pirovano e Rossella Rocchino, che hanno già prodotto un documentario su questo tema (“Sulle rotaie dei tútiles”).

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...