giovedì 9 ottobre 2025

Italofonia, il merito degli italo-discendenti

Puntuale come ogni anno ad ottobre, arriva la Settimana della Lingua Italiana nel mondo (13-19 ottobre per l’esattezza), appuntamento che questa edizione avrà come tema “Italofonia: lingua oltre i confini”. Si aspettano centinaia di manifestazioni e si spera che queste riescano ad approfondire le tematiche non solo linguistiche o culturali, ma anche sociali e politiche che l’italofonia comporta. In questo contesto bisogna elogiare il lavoro svolto dalle comunità di italo discendenti che, nonostante il passare del tempo, mantengono vivo il vincolo con il Paese d’origine, un’Italia che a dire il vero non è sempre presente nelle istanze che li riguardano. Spesso lasciati soli dalle istituzioni, a volte persino trattati come quei parenti di cui nessuno vuole saperne più, gli italo-discendenti -e con loro gli italiani emigrati di recente all’estero- hanno dato e danno l’apporto fondamentale per la diffusione della civiltà italiana. Dalla loro parte ci sono la caparbietà, la costanza, l’amore per la propria terra e le proprie origini, più forti di ogni ostacolo. Preservare la lingua significa preservare l’identità, mantenere intatto il legame con le radici e trasmettere questo insieme di valori alle nuove generazioni.

Si calcola che attualmente sono circa 2 milioni e mezzo le persone che parlano l’italiano in America Latina, con importanti presenze come sappiamo in Argentina, Brasile e Venezuela. Nel caso del Centroamerica, sono due i Paesi trainanti dell’italofonia: il Guatemala e il Costa Rica. Qui, la comunità degli italo-discendenti si è rafforzata alla fine del secolo scorso di un’importante colonia di emigrati che ha saputo rinnovare l’interesse per la lingua e la cultura italiana, facendo passi da gigante nei campi dell’imprenditoria, con il settore gastronomico a fare da traino. Di conseguenza, si è creato un significativo interesse per l’apprendimento della lingua italiana, mezzo privilegiato per avvicinarsi a tutto ciò che significa Italia. È nato così anche un risveglio, un risorgimento culturale, che ha portato centinaia di ragazzi, i cui avi provenivano dalla nostra penisola, ad avvicinarsi all’Italia (ricordiamo che in Costa Rica il 7,5% della popolazione ha origini italiane).

L’italofonia, quindi, come un bene da custodire. Senza dubbio, ma andando oltre gli slogan che spesso la politica vuole appiccicare a tutti i costi quando è alla ricerca di consensi, bisogna attuare e creare appoggio e sostegno a chi si trova in prima linea all’estero. Il governo attuale da un lato taglia i ponti con il passato, con un decreto che offende le comunità di italo-discendenti e dall’altro pretende che queste stesse comunità mantengano vive e diffondano la lingua italiana, assieme ai nostri usi e costumi. È una contraddizione, un’altra delle tante che l’emigrato si trova a vivere sulla propria pelle. Che poi, la questione dell’italofonia, si gioca anche in casa, per esempio ponendo un freno agli anglicismi usati oggi in forma sfrenata sui testi e nell’italiano parlato. Cominciamo a conoscere e ad apprezzare la nostra lingua e creeremo davvero quel senso di identità collettiva che renderà effettivo il ponte culturale che l’italofonia deve procurare tra il Paese d’origine e il resto delle comunità sparse per il mondo. 

 

Per approfondire:

https://maledettitropici.blogspot.com/2023/03/ll-congiuntivo-dellultimo-millennio.html

https://maledettitropici.blogspot.com/2021/03/ditelo-in-italiano-lattacco-dellinglese.html


mercoledì 24 settembre 2025

L'amore ai tempi dell'Inquisizione

C’era una volta l’Inquisizione e non solo in Europa, ma anche nei centri nevralgici dell’America Latina come Lima, Cartagena e Città del Messico città dove l’11 giugno 1649 si tenne il più importante auto da fe del continente: 109 penitenti, di cui 13 giustiziati in piazza. Strumento di controllo religioso ed ideologico, l’Inquisizione venne soppressa solo nel 1834 dopo centinaia di processi, auto da fe e vite rovinate. Tra queste, quella di un singolare personaggio italiano, Stefano Corti, lombardo da Lomazzo.

Nato nel 1753 e, rimasto presto orfano, Corti venne educato dallo zio sacerdote che lo mandò poi in bottega a Milano a imparare un mestiere, quello dello speziale. A Pavia, più tardi, si laurea in Medicina e poi, a 28 anni, si imbarca per Barcellona. Qui, le cose non vanno tanto bene e per evitare guai seri ripara a Madrid, dove ottiene la protezione di José Vásquez Téllez, nobile che viene nominato governatore del Costa Rica. È il 1790 e Corti accetta la proposta di Vásquez di seguirlo in America. Corti si adegua subito alla vita di quella che è, a discapito del nome, la provincia spagnola più arretrata. All’epoca è un uomo di 37 anni e secondo la descrizione che ne fa più tardi il segretario dell’Inquisizione messicana, Bernardo Ruíz de Molina, è un individuo più alto della media, robusto, dai capelli rossi, il naso aquilino e gli occhi neri. Stefano Corti a Cartago si trova bene. Ha cambiato il suo nome di battesimo per quello spagnolo di Esteban, è il medico di fiducia del governatore e, grazie alla sua abilità, si guadagna subito la stima dei notabili della città. Vive con una vedova e le sue due figlie e già qui le malignità cominciano a correre: “doña Joaquina López del Corral tenía hijas de buen ver, núbiles y un tanto fáciles” (citato dallo storico Manuel Valladares Rubio). Come dice il detto: pueblo chico, infierno grande. Gli speziali, i curanderos, i barbieri a cui ha tolto il lavoro lo accusano di pratiche immorali. E anche i mariti cornuti. Lo scrittore Joaquín Gutiérrez Mangel asserisce che le visite di Corti alle ammalate aumentavano quando i loro mariti si assentavano per dare la caccia agli indios o si recavano a controllare i loro affari nelle piantagioni di cacao. “Se le lenzuola parlassero” continua “la discendenza di Corti riempirebbe pagine intere dell’Anagrafe del Costa Rica, a cominciare da tutti coloro che portano il cognome Yglesias” (questo cognome veniva dato ai trovatelli abbandonati nelle chiese). L’italiano pagherà cara la fama di donnaiolo impenitente.  Gli eccessi che già lo avevano portato alla fuga da Barcellona (dove si era vantato di aver preso la verginità di nove donzelle) si ripetono nel Nuovo Mondo.

I nemici fioccano e, data la protezione del governatore, i suoi detrattori si rivolgono alla Curia che in pochi mesi prepara un castello accusatorio tale da portarlo alla prigionia, al sequestro dei beni e al suo trasferimento a Città del Messico per essere processato dal Tribunale della Santa Inquisizione. In totale, dovranno essere discussi 24 delitti gravi tra cui: la lussuria, la blasfemia, il disprezzo dei sacramenti e il concubinaggio. 

Cartago, insomma, si libera del seduttore Corti che nel giugno 1794 intraprende il lunghissimo viaggio via terra verso Città del Messico. Lo fa sempre scortato, trascorrendo mesi nelle prigioni delle varie province centroamericane, offrendo a chi ne ha bisogno la sua arte medica e lasciando ovunque un ricordo favorevole. Arriva in Messico dopo tremila chilometri a dorso di mulo e un anno esatto dopo la sua partenza. Qui si fa sette mesi di prigione prima di essere portato davanti al tribunale. Nel frattempo, ha sempre mantenuto un’attitudine mansueta: prega, legge la Bibbia, cura gli ammalati, non fa nessun accenno ad avventure amorose. I frati messicani, però, non si fanno turlupinare. L’accusano di essere un seguace di Rousseau e di Voltaire e aumentano i capi d’accusa da ventiquattro a ottantotto. Corti si dice malato: ha l’artrite, il mal di fegato, è inappetente. Per un po’ riesce a farla franca, poi viene portato davanti ai giudici e non sfugge al verdetto. Gli si chiede di abiurare e Corti in abito da inquisito (scapolare, corda da impiccato al collo, morsetto alla bocca) lo fa immediatamente. In questa maniera salva la vita, ma deve sottostare alla condanna, che prevede l’espatrio verso le colonie africane, dove dovrà trascorrere i seguenti otto anni. In attesa di una nave che lo porti a destinazione, Corti viene ospitato dai Padri Carmelitani a Puebla. Qui, manco a dirlo, acquista di nuovo una grande popolarità, curando e guarendo un gran numero di pazienti. Al convento, ci va solo a dormire e, per il resto, ritorna alle gesta di sempre. L’Inquisizione, ovviamente, non ci sta e pretende dal viceré Azanza che si compiano gli ordini. Nel marzo 1797 Corti si imbarca su una nave da guerra a Veracruz ma ancora una volta il destino ci mette la mano. Il galeone deve partecipare a manovre belliche e lo lascia all’Avana, dove diviene medico di fiducia del giudice Luis Viguri, l’incaricato di stabilire arrivi e partenze dall’isola. Viguri, nonostante le ingiunzioni civili e religiose insiste che Corti non può lasciare Cuba per via delle sue condizioni di salute. L’italiano è malato di gotta, febbricitante ogni qualvolta che un vascello con destinazione Cadice giunge in porto. Il tira e molla dura cinque anni. Nel novembre 1802 giunge l’ingiunzione reale: Corti deve essere messo sulla prima nave e portato in Spagna dove sconterà la sua condanna e verrà scortato in Africa. Il 27 di quel mese le guardie lo vanno a prendere ma non lo trovano. Lo cercano per tutta Cuba, ma l’italiano è come se si fosse volatilizzato. Qualcuno dice di averlo incontrato alle Bahamas, sempre dedito cura dei malati, mentre lo storico costaricano Ricardo Fernández Guardia asserisce che sia morto a Filadelfia, nel 1825. Niente di più probabile che, di fronte all’ipocrisia e al puritanesimo della società coloniale spagnola, Corti abbia cercato di finire i suoi giorni sotto falso nome in un contesto dove poteva esercitare la medicina in santa pace.

Sul tema dell’Inquisizione in America Latina, consiglio la lettura di “La gesta del marrano” del cileno Marcos Aguinis.

martedì 9 settembre 2025

La macchinosa semplicità del trabocco

Il trabocco, la macchina pescatoria dannunziana, è lì, muto monumento dell’ingegno umano a fronteggiare il mare e i suoi umori. Non è l’unico. Da Ortona a San Salvo ce ne sono più di una ventina -il censimento dice ventitré- e sono parte di un litorale, quello chietino, che è stato fonte d’ispirazione per il vate abruzzese d’eccezione, Gabriele D’Annunzio.

Lo scrittore vive a San Vito Chietino una stagione tormentata assieme all’amante Barbara Leoni. Entrambi fuggono dalla noia dei rispettivi matrimoni e si calano nella solitudine agreste di un rustico situato in località San Fino, “una casa construita in un pianoro, a mezzo del colle, tra gli aranci e gli olivi, affacciata su una piccola baia che chiudevano due promontorii”. È l’estate del 1889 e quella esperienza lo spinge a scrivere “Il trionfo della morte”, ultimo capitolo della Trilogia della Rosa. Barbara diventa Ippolita, la protagonista del romanzo e i trabocchi della costa chietina assurgono a parte imperante del paesaggio. Non solo. L’etimologia del trabocco Turchino, che si insinua nel mare di fronte a un lato di quello che oggi è il promontorio dannunziano, risale proprio a un passaggio che si trova ne “Il trionfo della morte”:

-Chi è Turchino?- chiese Giorgio, che pendeva dalle labbra della donna, attratto da quelle cose misteriose. -L’uomo del trabocco?-. E si ricordò di quel viso terreo, quasi senza mento, poco più grosso di un pugno, da cui sporgeva un lungo naso, aguzzo come il muso di un luccio, tra due piccoli occhi scintillanti. -Sì, signore. Guarda là. Se hai buona vista, lo puoi scorgere. Stanotte pesca con la luna. E Candia indicò sulla scogliera nerastra la grande macchina pescatoria composta di tronchi scortecciati, di assi e di gomene, che biancheggiava singolarmente, simile allo scheletro di un anfibio antidiluviano.

Quello scheletro di legni, argani, reti era parte del litorale chietino sin dalla metà del XVIII secolo. Nato come approdo per le navi di piccolo cabotaggio che ricevevano il materiale dissodato delle campagne, era stato trasformato con il tempo in un complicato strumento di pesca. Ad idearlo erano stati proprio i contadini, che avevano trovato così la maniera di domare l’arte della pesca senza mettere i piedi in acqua o ricorrere a un’imbarcazione. Nei tempi di magra, quindi, potevano ricorrere al mare per la loro sussistenza. Un’idea semplice che alimentava un sistema macchinoso.

I trabocchi hanno incuriosito non solo D’Annunzio, ma anche Pasolini e Dacia Maraini che ha dato una sua interpretazione al loro uso: “Cosa ci dicono infine questi trabocchi sorpresi nel loro lirico incanto? Che l’opera umana è sempre macchinosa e fragile, basta un soffio per distruggerla. Ma proprio la sua fragilità è anche la ragione della sua resistenza... sta a simbolizzare la patetica eppure grandiosa capacità dell’essere umano di credere nel futuro nonostante l’amarezza e la piccolezza del suo destino”.

Il trabocco oggi è stato svilito dal turismo. Seguendo l’imperante moda di proporre la ristorazione nei luoghi più improbabili, buona parte di quelle costruzioni funzionano come ristoranti, proponendo menu stellati per il piacere di pochi. A mantenere la memoria dei tempi passati, il trabocco Turchino, ristrutturato e trasformato in un piccolo museo di cultura popolare, salvaguarda la storia della gente comune. Vale una visita.  

https://traboccoturchino.com/

giovedì 28 agosto 2025

Quando andammo in Crimea

 “L’aggressione russa all’oppresso ottomano” fu il pretesto, centosettanta anni fa, perché il Regno di Sardegna approntasse una spedizione in Crimea. Di scuse, per mettersi nei guai, se ne trovano sempre. Oggi, quel conflitto da molti dimenticato, rivive amplificato dai proclami guerrafondai di certi ambienti politici avvezzi al potere fine a se stesso. Per chi è di Torino, come me, invece, la Crimea è sempre stata presente grazie ad una toponomastica stradale estesa e dettagliata sul tema. Girando per il capoluogo piemontese ci imbattiamo nella centralissima via Cernaia e ancora a piazza Crimea con il relativo obelisco in ricordo dei caduti, via La Marmora (Alfonso, comandante del contingente sabaudo), corso Sebastopoli. Inoltre, un piccolo borgo a ridosso del Po, gioiello architettonico di palazzine liberty ed eclettiche, è oggi uno dei quartieri più esclusivi di Torino, il quartiere Crimea, appunto. 


Ma cosa ci siamo andati a fare in Crimea? La guerra di Crimea nasce soprattutto per dare una lezione allo zar, tanto per cambiare. All’origine c’è la contesa tra Napoleone III e Nicola I su chi dovesse controllare i luoghi sacri della cristianità in Palestina: i monaci cattolici o quelli ortodossi. Un braccio di ferro che culmina con una prova di forza della marina francese che obbliga i Turchi, che controllano il Medio Oriente, ad accettare l’ultimatum napoleonico. La Russia, a quel punto, non ci sta e occupa militarmente Moldavia e Valacchia. L’escalation continua colpo su colpo, fino a giungere alla mobilitazione dei britannici a fianco dell’Impero Ottomano. Francia e Inghilterra entrano quindi nel Mar Nero. Un pretesto secondario, insomma, scatena il finimondo. La paura è che “il grande malato”, l’impero Ottomano, venga spezzettato e i russi possano penetrare nei Balcani e controllare il Bosforo e, di conseguenza, l’accesso al Mediterraneo.

Vittorio Emanuele II non vuole restare a guardare. Ha da poco combattuto la sfortunata Prima Guerra d’Indipendenza e, sostenuto dal conte di Cavour, comprende che in quel particolare momento c’è bisogno di riconoscimento internazionale e di dimostrare alla rivale Austria, che tentennava sulla posizione da tenere in quel conflitto, che il piccolo regno può contare sull’appoggio delle grandi potenze. Il Regno di Sardegna entra in guerra e lo fa in una fase già avanzata, nell’aprile 1855, mandando un contingente di 18.000 soldati (piemontesi, sardi, liguri e savoiardi) che si attestano alle porte di Sebastopoli. Ad attenderli trovano un tempo da cani (prima l’afa e poi la neve), le pulci, le zanzare, il colera, il tifo. Intanto, in Europa la guerra di Crimea mitificata da una serie di articoli dal campo di battaglia. I giornalisti in prima linea assicurano storie succose per l’opinione pubblica in patria, determinando non solo eroi e villani, ma dispensando anche consigli di moda (lord Cardigan offrirà un capo di successo) e storie strappalacrime, come il sacrificio dell’amazzone lady Campbell. La sottile linea rossa citata dal giornalista William H. Russell o la carica dei Seicento immortalati dal poeta Tennyson entrano a fare parte della cultura popolare. Tolstoj, artigliere dell’esercito russo, scriverà sulla vicenda e gli orrori della guerra “I racconti di Sebastopoli”. I pittori si sbizzarriscono. Yvon, Barrias, Simpson, Induno: ogni nazione coinvolta partecipa all’iconografia militare apportando gesta eroiche per il proprio bando.

La guerra finisce nel febbraio 1856. I russi rinunciano a Moldavia e Valacchia e Cavour, al Congresso di Parigi che sanziona la pace, alza la voce sulla questione italiana irrisolta. Il bilancio dell’intervento sardo parla di quasi 2000 tra morti e feriti: la metà, però, se li è portati via il colera e non il fuoco nemico. La malattia, curata con decotti di riso e rum in mancanza di medicinali, uccise anche Alessandro La Marmora, fratello del capo spedizione Alfonso e fondatore del corpo dei Bersaglieri. I tempi, però, per la Seconda Guerra d’Indipendenza, sono maturi.

sabato 16 agosto 2025

Tra palme e gelsomini, il buen retiro di Hammamet

A fine luglio ho avuto il piacere di essere invitato ad Hammamet, in Tunisia, a presentare il mio ultimo libro, “L’ira nella palude”. È stata un’esperienza grata, che mi ha permesso di conoscere la città e una parte importante della variegata comunità italiana di questo paese africano. Per noi italiani la fama di Hammamet è stata per anni accomunata al nome di Bettino Craxi, che qui spese gli ultimi anni della sua vita, ma percorrendo le sue vie e conversando con i residenti si scopre che questa località ha accolto nel secolo passato altri ospiti illustri: Paul Klee, Elsa Schiaparelli, Jean Cocteau, Andrè Gide, Frédéric Mitterrand tra gli altri, nonché il facoltoso filantropo romeno Gheorge Sebastian che ha lasciato in città un’impronta permanente. Winston Churchill, ospite dell’hotel Les Orangers, ha cercato qui la pace necessaria per staccarsi dalla politica e dedicarsi alla pittura e scrivere le sue memorie.

Hammamet dispone di clima e spiagge meravigliose, oltre alla storica medina, che è poi l’anima del luogo. Al di là delle offerte commerciali di rito, preparate con cura per uso e consumo dei turisti, la medina offre spaccati di vita e indicazioni sulla cultura locale. I pesci scacciamalocchio dipinti sulle pareti o i simboli marcati su ogni porta di casa, che raccontano storie famigliari, sono un paio dei tratti alla vista di tutti. Basta solo allontanarsi un poco dagli itinerari delle botteghe per respirare l’aura originale della medina, avvolta nel silenzio e nella quiete. Talvolta, voci di donne o i sapori della cucina impregnati di harissa, traspirano dalle case. Fuori dalle mura, l’ambiente muta. Regna uno scompiglio organizzato, poco comprensibile al visitatore occasionale, ma comune qui come altrove nel mondo arabo.

Hammamet ha visto insediarsi nel corso dei secoli Fenici, Cartaginesi, Romani, Arabi, Turchi e Francesi. Oggi è il buen retiro di almeno settemila italiani che hanno trovato non solo una pur comoda agevolazione fiscale, ma anche la possibilità di poter vivere l’età pensionabile in maniera leggera. Si riscoprono i ritmi lenti, con le mattinate nei caffè che guardano al Mediterraneo, il tardo pomeriggio sui lidi e le serate nei club a competere nel burraco. L’Italia, per molti, è diventata sinonimo di disillusione. Tra i nostri compatrioti aleggia la sensazione di aver lasciato un Paese a cui è stato dato tutto e che, in cambio, ha restituito poco o nulla. Si seguono sempre le vicende della penisola ma con distacco, come se il corso degli eventi ormai appartenga a un mondo dal quale ci si è tirati fuori appena in tempo.

“Credi a chi cerca la verità. Dubita di chi la trova” scriveva André Gide, che nel 1893 approdava per la prima volta in Tunisia dove trovò poi terreno fertile per la propria crescita personale. I nostri connazionali, che sono giunti qui se proprio non sono alla ricerca della verità, sono comunque alla ricerca di una realtà dove le cose possano di nuovo assumere contorni credibili, a misura d’uomo. I residenti mi spiegano che l’aria, eterea, indolente, aria che sa di salsedine, gelsomino e spezie, poco a poco ti entra dentro e non ti lascia più. Hammamet, pare, ha questa caratteristica. Oltre a quella, definitiva per molti italiani, che dimostra come un altro mondo sia possibile. 

lunedì 26 maggio 2025

Quella voglia di Grand Tour

 L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo”. Così scriveva Giorgio Manganelli ricordando i tempi in cui la nostra penisola si apriva ai primi viaggiatori, studiosi e letterati spinti dal desiderio di conoscere in prima persona le vestigia dell’antichità classica lasciate da Greci, Etruschi, Romani.

Il vero e proprio interesse per l’Italia nacque con il “Viaggio in Italia” che Goethe pubblicò nel 1816 come diario dell’itinerario che aveva realizzato nella penisola nel 1786. Goethe, entusiasta dell’Italia, non fece altro che rendere pubblica quella che era diventata un’attività comune tra i pupilli delle famiglie altolocate del Nord Europa -sia nobili che borghesi- e che aveva avuto origine già alla fine del XVII secolo quando Richard Lassels aveva pubblicato “Voyage in Italy”. Era il 1670 e quel sacerdote inglese con l’hobby dell’avventura aveva al tempo compiuto cinque viaggi in Italia. Forte della sua esperienza aveva coniato il termine Grand Tour, come espressione di viaggio culturale e formativo e, senza saperlo, aveva posto la base semantica per due nuove parole: turista e turismo.

Nel XVIII secolo il Grand Tour è prerogativa dei rampolli delle famiglie nobili, che affrontano il viaggio con lo scopo di arricchire il proprio bagaglio culturale. Dopo la parentesi napoleonica e l’Europa ridotta a un campo di battaglia, i fautori della rivoluzione industriale elevano il Grand Tour a formula di rito, espressione massima del benessere raggiunto dai nuovi ricchi. L’influenza ancora viva dell’Illuminismo pervade le menti. Si sente impellente il bisogno del sapere, la necessità di realizzare esperienze in prima persona che portino i giovani a toccare con mano il passato e, dove si può, l’antichità classica. L’Italia offre queste prerogative ed è a portata di mano. I laghi del settentrione, la Liguria, Venezia, Firenze e Roma diventano mete imprenscindibili e chi ha tempo, denaro e coraggio si spinge anche a Napoli e in Sicilia. Gli spostamenti sono travagliati e i resoconti ci aiutano a immaginarci l’Italia dell’epoca. Le strade sono impervie e spesso le carrozze devono lasciar posto a cavalli e muli; le stazioni di posta sono prive di ogni comodità; certe zone sono battute dai banditi. Goethe, inoltre, ci aggiunge la sporcizia. Venezia, Napoli, Palermo non brillano per l’ordine. Parlando di Venezia, il letterato tedesco scrive: “sono rimasto colpito dalla grande sporcizia delle strade” situazione che ritrova a Palermo, dove il sudiciume serve addirittura a fare da strato per ricoprire il manto stradale.

Ciononostante, non c’è ostacolo che tenga. Guidati dagli schizzi di Piranesi e di altri paesaggisti, i viaggiatori hanno l’obiettivo di arrivare almeno a Roma per vedere il Colosseo con i propri occhi. I più temerari raggiungono le coste, da quella ligure a quella sorrentina che, con l’avvento del Romanticismo, diventano simboli destinati a perdurare nell’immaginario della gioventù dell’epoca. Il Grand Tour però non era solo tuffarsi nell’antichità. L’Italia del tempo, infatti, ha molto da offrire: il neoclassicismo, l’architettura palladiana, la commedia dell’arte, l’opera lirica vengono apprezzati, assimilati ed esportati. La concezione didattica del viaggio impone di partecipare ai salotti letterari, di creare bozzetti di viaggio, di accaparrarsi antichità che, vere o false, vengono proposte da sedicenti venditori. La lista dei personaggi famosi è lunga. Mary Shelley, George Byron, Stendhal, John Ruskin, Georges Bizet, John Keats, Charles Dickens, George Eliot, Louise May Alcott sono solo alcuni degli illustri ospiti. Il loro Grand Tour è l’embrione del turismo moderno, ma ancora pervaso da un ingenuo alone di romanticismo. George Byron regala all’Italia uno dei suoi versi più famosi (“Oh Italia, tu che hai il fatal dono della bellezza”), mentre Mary Shelley, la mamma di Frankenstein, più pragmatica annota: “L’Italia è un luogo affascinante, ricco di storia e di arte, ma anche di tristezza e di dolore”. Poche cose sono cambiate da allora nel nostro animo.

mercoledì 14 maggio 2025

Le "stanze", le prime pizzerie di Napoli

Non è facile stabilire una data precisa che definisca la nascita della pizza. Piatto dei poveri per eccellenza, comincia la sua storia come una focaccia su cui vengono sparsi i resti del pescato del giorno o l’origano. Ingredienti appunto poveri che marinai, soldati, bottegai consumano sopra una focaccia bianca perché a fine Settecento la pizza, a Napoli, si mangia per strada. Ci sono i venditori ambulanti che girano per i rioni, ma poco a poco si sente la necessità di sedersi a un tavolo, proprio come si fa in famiglia. E allora, ecco che nascono le “stanze”, vani affacciati sulla strada, una camera appartenente al nucleo famigliare che viene improvvisato negozio. Si cucina all’improvvisata, sulle cucine a legna, con l’acqua che è attinta dai pozzi che scavano nel sottosuolo cittadino. La gente passa e compra la pizza: i tavoli sono una novità e una schiccheria che presto prende piede. Ci si sofferma, si fanno quattro chiacchiere e poi via di nuovo. 

Nel 1807, secondo l’Archivio di Stato napoletano, ci sono 55 esercenti pizzaioli che dispongono di bottega. Gli ambulanti, però, continuano a fare il loro mestiere. Comprano le pizze dalle “stanze” e le vendono in strada, quasi sempre a tranci, con il loro carretto. Vengono citate nei testi le stanze di Port’Alba, Pietro e basta così, le stanze di Porta Carità, quest’ultima diventata oggi la pizzeria Martozzi. Ci sono anche i primi commenti di personaggi famosi, come quello di Alexandre Dumas padre, noto amante della buona cucina, che prova la pizza nel 1835 e la considera, nonostante la semplicità, “un piatto complesso”. Samuel Morse, l’inventore dell’alfabeto dallo stesso nome, è invece categorico nel suo giudizio: “una specie di torta nauseabonda” che somiglia “a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna”. Il palato raffinato di Morse poco può sopportare la pizza, alimento povero destinato alla gente che lavora e che, spesso, non ha i soldi per potersela pagare. Ed è così che nasce l’idea della pizza a otto, un sistema che permette di mangiare i tranci una volta al giorno e poi pagare la pizza intera a fine settimana, una volta ricevuta la paga.

Napoli a quel tempo conta quasi 400.000 abitanti ed è una bomba a orologeria in materia di sanità pubblica. La rete fognaria è fatiscente, la spazzatura viene lasciata a marcire per le strade, nei quartieri del centro storico l’aria ristagna, le abitudini igieniche sono pessime. Nell’autunno del 1836, mentre il re Ferdinando II è a Vienna alla ricerca di una nuova consorte (Maria Cristina è morta a gennaio per le conseguenze del parto) scoppia nel Regno una tremenda epidemia di colera, che si protrae fino all’ottobre 1837, causando migliaia di vittime -una stima dell’epoca parla di almeno 30.000 decessi solo nella città partenopea-. Tra le vittime, anche se oggi considerata collaterale, c’è anche il poeta Giacomo Leopardi.

Ci vuole del tempo per rimettersi in piedi, ma la rinascita è veloce e passa soprattutto per un cambiamento delle abitudini dei napoletani. Le stanze si trasformano in pizzerie a tutti gli effetti, condizione che permette un controllo più sicuro da parte delle autorità. Gli ambulanti sono ancora tollerati ma si è ormai aperta una nuova epoca. Nel 1853 lo scrittore Francesco de Bourcard pubblica “Usi e costumi di Napoli e contorni”, una guida sulla città dove, tra le altre cose, cita la pizza come piatto popolare con un ricetta che anticipa la pizza diventata famosa anni più tardi con il nome di Margherita, in onore all’allora regina italiana. Intanto, nel 1871 le pizzerie sono diventate 123. La pizza emigra insieme agli italiani ed è pronta per trasformarsi nel piatto simbolo della nostra cucina.

Italofonia, il merito degli italo-discendenti

Puntuale come ogni anno ad ottobre, arriva la Settimana della Lingua Italiana nel mondo (13-19 ottobre per l’esattezza), appuntamento che qu...