Non c’è nessuno alle tre del pomeriggio a Citerna. Forse è il caldo, forse è l’ora che invita a rinchiudersi nell’ombra delle case. Dal convento di Santa Elisabetta fa capolino una suora africana: “Ma non c’è nessuno?” chiedo e lei risponde di no, è un’ora scomoda. In fondo, siamo ad agosto. Citerna si trova nell’Alto Tevere, nella provincia di Perugia, Umbria. Di fronte c’è Monterchi, provincia di Arezzo, Toscana. La linea tra le due regioni è sospesa nell’aria, non si vede ma c’è e si sente soprattutto negli accenti di chi abita nei due paesi. Una manciata di personaggi hanno innalzato il borgo a incrocio di storia e storie: il Pomarancio, Vincenzo Vitelli, San Francesco che qui fece due miracoli, Giuseppe Garibaldi con la morente Anita. E poi Donatello, del quale non si sa se effettivamente sia arrivato fin quassù, ma di cui esiste una Madonna gelosamente custodita dai paesani.
La chiesa è quella di San
Francesco, nella via principale, che servì da ospedale nel 1849 ai repubblicani
romani in fuga con Garibaldi. Alle pareti un Ciburri, il Pomarancio, Raffaelino
del Colle e, in un affresco, due angeli attribuiti a Luca Signorelli. I
patrioti si curarono dalle ferite degli austriaci -o perirono- sotto lo sguardo
pietoso di arcangeli, santi e madonne. Quella di Donatello è in una cappella
chiusa a chiave, con quelle chiavi ottocentesche, dalle dimensioni da cancello del
paradiso. Riposa a parte, la signora del luogo, perché non è a disposizione del
pubblico non pagante e, inoltre, ha bisogno di un deumidificatore e di stare in
pace.
Dopo tanti musei, l’incontro
personale con l’opera d’arte pone nella giusta dimensione l’esperienza del
fruitore. Diventa finalmente personale, intima. Lontani dall’affollamento che
si trova nei musei, con la sovraesposizione ai capolavori, un tanto al metro
quadrato, i telefonini che scattano a raffica, i selfie da decerebrati, la
lassa ignoranza che regna sovrana, l’opera finalmente è un metro da te e parla.
Nel silenzio e, soprattutto, nel contesto dell’ambiente originale, ci si arriva
persino a immaginare l’autore che rifinisce i dettagli, che plasma le forme e i
colori. L’esperienza è da provare.
La Madonna di Citerna è una
scultura in terracotta alta un metro e quattordici centimetri e proprio queste
dimensioni fanno pensare che Donatello, allora giovane scultore, avesse
ricevuto la commissione da una famiglia nobile. Forse i Tarlati, che a Citerna
hanno governato a lungo, forse i Vitelli, legati a questo feudo. La figura delicata
della Vergine sostiene il Bambino dallo sguardo serio, proiettato verso il
futuro che l’attende. È un’opera pregevole che a un certo punto non si sa come
e quando, appare nella chiesa di San Francesco. Un parroco solerte ma a digiuno
di nozioni artistiche ci mette mano e la fa ricoprire maldestramente di nuovi
colori. Forse, proprio questa mimetizzazione la rendono di poco interesse, una
delle tante opere che vengono depositate a riposare nelle nostre chiese. Solo
nel 2001 l’occhio attento di una ricercatrice, Laura Ciferri, riconosce nella
statua la mano di Donatello. Dopo sette anni di restauro presso l’Opificio
delle Pietre Dure di Firenze la Madonna torna nel suo stato originale e viene
riportata a Citerna. Una decisione saggia, che evita una volta tanto
l’emorragia delle opere d’arte locali verso i grandi musei. L’opera che rimane
nel suo ambiente, circoscritta al paese dove appartiene, è un oggetto parlante,
è una testimonianza storica e non decontestualizzata nel composito contenitore del
bacino museale. Smette di essere un oggetto inanimato, vive e respira, esalta
le nostre emozioni.