lunedì 26 maggio 2025

Quella voglia di Grand Tour

 L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo”. Così scriveva Giorgio Manganelli ricordando i tempi in cui la nostra penisola si apriva ai primi viaggiatori, studiosi e letterati spinti dal desiderio di conoscere in prima persona le vestigia dell’antichità classica lasciate da Greci, Etruschi, Romani.

Il vero e proprio interesse per l’Italia nacque con il “Viaggio in Italia” che Goethe pubblicò nel 1816 come diario dell’itinerario che aveva realizzato nella penisola nel 1786. Goethe, entusiasta dell’Italia, non fece altro che rendere pubblica quella che era diventata un’attività comune tra i pupilli delle famiglie altolocate del Nord Europa -sia nobili che borghesi- e che aveva avuto origine già alla fine del XVII secolo quando Richard Lassels aveva pubblicato “Voyage in Italy”. Era il 1670 e quel sacerdote inglese con l’hobby dell’avventura aveva al tempo compiuto cinque viaggi in Italia. Forte della sua esperienza aveva coniato il termine Grand Tour, come espressione di viaggio culturale e formativo e, senza saperlo, aveva posto la base semantica per due nuove parole: turista e turismo.

Nel XVIII secolo il Grand Tour è prerogativa dei rampolli delle famiglie nobili, che affrontano il viaggio con lo scopo di arricchire il proprio bagaglio culturale. Dopo la parentesi napoleonica e l’Europa ridotta a un campo di battaglia, i fautori della rivoluzione industriale elevano il Grand Tour a formula di rito, espressione massima del benessere raggiunto dai nuovi ricchi. L’influenza ancora viva dell’Illuminismo pervade le menti. Si sente impellente il bisogno del sapere, la necessità di realizzare esperienze in prima persona che portino i giovani a toccare con mano il passato e, dove si può, l’antichità classica. L’Italia offre queste prerogative ed è a portata di mano. I laghi del settentrione, la Liguria, Venezia, Firenze e Roma diventano mete imprenscindibili e chi ha tempo, denaro e coraggio si spinge anche a Napoli e in Sicilia. Gli spostamenti sono travagliati e i resoconti ci aiutano a immaginarci l’Italia dell’epoca. Le strade sono impervie e spesso le carrozze devono lasciar posto a cavalli e muli; le stazioni di posta sono prive di ogni comodità; certe zone sono battute dai banditi. Goethe, inoltre, ci aggiunge la sporcizia. Venezia, Napoli, Palermo non brillano per l’ordine. Parlando di Venezia, il letterato tedesco scrive: “sono rimasto colpito dalla grande sporcizia delle strade” situazione che ritrova a Palermo, dove il sudiciume serve addirittura a fare da strato per ricoprire il manto stradale.

Ciononostante, non c’è ostacolo che tenga. Guidati dagli schizzi di Piranesi e di altri paesaggisti, i viaggiatori hanno l’obiettivo di arrivare almeno a Roma per vedere il Colosseo con i propri occhi. I più temerari raggiungono le coste, da quella ligure a quella sorrentina che, con l’avvento del Romanticismo, diventano simboli destinati a perdurare nell’immaginario della gioventù dell’epoca. Il Grand Tour però non era solo tuffarsi nell’antichità. L’Italia del tempo, infatti, ha molto da offrire: il neoclassicismo, l’architettura palladiana, la commedia dell’arte, l’opera lirica vengono apprezzati, assimilati ed esportati. La concezione didattica del viaggio impone di partecipare ai salotti letterari, di creare bozzetti di viaggio, di accaparrarsi antichità che, vere o false, vengono proposte da sedicenti venditori. La lista dei personaggi famosi è lunga. Mary Shelley, George Byron, Stendhal, John Ruskin, Georges Bizet, John Keats, Charles Dickens, George Eliot, Louise May Alcott sono solo alcuni degli illustri ospiti. Il loro Grand Tour è l’embrione del turismo moderno, ma ancora pervaso da un ingenuo alone di romanticismo. George Byron regala all’Italia uno dei suoi versi più famosi (“Oh Italia, tu che hai il fatal dono della bellezza”), mentre Mary Shelley, la mamma di Frankenstein, più pragmatica annota: “L’Italia è un luogo affascinante, ricco di storia e di arte, ma anche di tristezza e di dolore”. Poche cose sono cambiate da allora nel nostro animo.

mercoledì 14 maggio 2025

Le "stanze", le prime pizzerie di Napoli

Non è facile stabilire una data precisa che definisca la nascita della pizza. Piatto dei poveri per eccellenza, comincia la sua storia come una focaccia su cui vengono sparsi i resti del pescato del giorno o l’origano. Ingredienti appunto poveri che marinai, soldati, bottegai consumano sopra una focaccia bianca perché a fine Settecento la pizza, a Napoli, si mangia per strada. Ci sono i venditori ambulanti che girano per i rioni, ma poco a poco si sente la necessità di sedersi a un tavolo, proprio come si fa in famiglia. E allora, ecco che nascono le “stanze”, vani affacciati sulla strada, una camera appartenente al nucleo famigliare che viene improvvisato negozio. Si cucina all’improvvisata, sulle cucine a legna, con l’acqua che è attinta dai pozzi che scavano nel sottosuolo cittadino. La gente passa e compra la pizza: i tavoli sono una novità e una schiccheria che presto prende piede. Ci si sofferma, si fanno quattro chiacchiere e poi via di nuovo. 

Nel 1807, secondo l’Archivio di Stato napoletano, ci sono 55 esercenti pizzaioli che dispongono di bottega. Gli ambulanti, però, continuano a fare il loro mestiere. Comprano le pizze dalle “stanze” e le vendono in strada, quasi sempre a tranci, con il loro carretto. Vengono citate nei testi le stanze di Port’Alba, Pietro e basta così, le stanze di Porta Carità, quest’ultima diventata oggi la pizzeria Martozzi. Ci sono anche i primi commenti di personaggi famosi, come quello di Alexandre Dumas padre, noto amante della buona cucina, che prova la pizza nel 1835 e la considera, nonostante la semplicità, “un piatto complesso”. Samuel Morse, l’inventore dell’alfabeto dallo stesso nome, è invece categorico nel suo giudizio: “una specie di torta nauseabonda” che somiglia “a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna”. Il palato raffinato di Morse poco può sopportare la pizza, alimento povero destinato alla gente che lavora e che, spesso, non ha i soldi per potersela pagare. Ed è così che nasce l’idea della pizza a otto, un sistema che permette di mangiare i tranci una volta al giorno e poi pagare la pizza intera a fine settimana, una volta ricevuta la paga.

Napoli a quel tempo conta quasi 400.000 abitanti ed è una bomba a orologeria in materia di sanità pubblica. La rete fognaria è fatiscente, la spazzatura viene lasciata a marcire per le strade, nei quartieri del centro storico l’aria ristagna, le abitudini igieniche sono pessime. Nell’autunno del 1836, mentre il re Ferdinando II è a Vienna alla ricerca di una nuova consorte (Maria Cristina è morta a gennaio per le conseguenze del parto) scoppia nel Regno una tremenda epidemia di colera, che si protrae fino all’ottobre 1837, causando migliaia di vittime -una stima dell’epoca parla di almeno 30.000 decessi solo nella città partenopea-. Tra le vittime, anche se oggi considerata collaterale, c’è anche il poeta Giacomo Leopardi.

Ci vuole del tempo per rimettersi in piedi, ma la rinascita è veloce e passa soprattutto per un cambiamento delle abitudini dei napoletani. Le stanze si trasformano in pizzerie a tutti gli effetti, condizione che permette un controllo più sicuro da parte delle autorità. Gli ambulanti sono ancora tollerati ma si è ormai aperta una nuova epoca. Nel 1853 lo scrittore Francesco de Bourcard pubblica “Usi e costumi di Napoli e contorni”, una guida sulla città dove, tra le altre cose, cita la pizza come piatto popolare con un ricetta che anticipa la pizza diventata famosa anni più tardi con il nome di Margherita, in onore all’allora regina italiana. Intanto, nel 1871 le pizzerie sono diventate 123. La pizza emigra insieme agli italiani ed è pronta per trasformarsi nel piatto simbolo della nostra cucina.

martedì 6 maggio 2025

La papessa Giovanna tra storia e leggenda

Questa settimana si apre il conclave per eleggere il nuovo papa dopo la dipartita di Francesco I. È un avvenimento che interessa tutta la cristianità -2500 milioni di persone in tutto il mondo-, soprattutto perché definirà se la timida apertura voluta da papa Bergoglio troverà un erede o se, invece, si tornerà a una conduzione della Chiesa di stampo conservatore. Tra i tanti temi in sospeso, rimane sempre quello del sacerdozio femminile, irrisolto dagli albori della cristianità. Uno dei miti nati in questo contesto è quello della papessa Giovanna, assurto come monito sulla presenza femminile all’interno della Chiesa.

È ormai accertato che quello della papessa Giovanna fu un mito messo in circolazione con lo scopo preciso di demonizzare la presenza della donna nella Chiesa cattolica. Attraverso la sua parabola si volevano dimostrare i pericoli di un’apertura e, quindi, l’inaffidabilità del genere femminile all’interno della gerarchia ecclesiastica. Non è un caso che, insieme alla storia della papessa Giovanna, apparve nello stesso periodo -siamo alla fine del XIII secolo- anche la letteratura sulle streghe, un universo immaginario che presto venne applicato alla realtà. Più tardi, la storia venne ripresa dagli ambienti protestanti per screditare la Chiesa cattolica in pieno periodo di scisma.

Ma chi sarebbe stata la papessa? Nelle cronache, alcune controverse, era una donna inglese educata a Magonza dove, grazie ai suoi travestimenti, sarebbe riuscita a diventare monaco e quindi addirittura papa nell’855 succedendo a Leone IV con il nome di Giovanni VIII. Incapace di resistere alle tentazioni della carne, continuò ad avere rapporti con i suoi amanti rimanendo in cinta. Fu così che, durante una processione pubblica due anni dopo la sua elezione, venne colpita dai dolori del parto e scoperta. La reazione della folla fu implacabile: trascinata per i piedi da un cavallo, fu lapidata senza pietà. Benedetto III, il papa successivo, si assicurò che il nome della papessa scomparisse per sempre dagli annali della Chiesa.

La proliferazione della leggenda avvenne nell’ambito del processo di discredito verso le donne. La storia, messa in giro da due cronisti, Martino Polono e Giovanni di Metz nella seconda metà del XIII secolo, trovò terreno fertile nel partito di chi non voleva ammettere le donne al potere e ancora meno, quindi, al sacerdozio. Alcuni decenni dopo, nel 1330, il vescovo galiziano Alvaro Pelayo scrisse “De planctu ecclesiae”, dove descriveva la donna come l’oggetto privilegiato del demonio scatenando di fatto, la vera e propria caccia alle streghe. Non a caso. L’opera di Pelayo si prefiggeva di contrastare l’eresia dei Guglielmiti, che veneravano la mistica Guglielma da Milano, morta in questa città nel 1280. Venerata come l’incarnazione dello Spirito Santo, secondo i suoi seguaci, la donna sarebbe salita al cielo per instaurare una nuova gerarchia femminile all’interno della cristianità. La sua vicaria, Maifreda da Pirovano, aveva assunto i poteri sacerdotali -destinati solo agli uomini- e predicava per raggiungere il soglio pontificio. Quando Maifreda officiò la messa pasquale del 1300, accompagnata da varie diaconesse, intervenne immediatamente l’Inquisizione. Bonifacio VIII chiese un processo che fosse di monito: sia Maifreda che la sua principale collaboratrice Giacoma dei Bassani vennero bruciate sul rogo. Ciononostante, c’era bisogno di una letteratura che definisse una volta per sempre il ruolo delle donne nell’ambito religioso. Mistiche sì, ma svuotate di potere e in costante atto di sottomissione verso quella che era la gerarchia ecclesiastica. La leggenda della papessa Giovanna va quindi considerata come parte di questo contesto.

Due secoli più tardi, la Riforma protestante si avvarrà di quella leggenda per farla apparire come un evento realmente accaduto. Lo scopo era quello di denigrare la Chiesa cattolica: predica bene, ma razzola male relegando le fedeli a un ruolo subalterno. E, in effetti, a distanza di tanto tempo il ruolo della donna ancora spaventa e intimorisce.

lunedì 28 aprile 2025

Quel primo giallo da centomila copie

Il barone Carlo Coriolano di Santafusca non credeva in Dio e meno ancora nel diavolo; e, per quanto buon napoletano, nemmeno nelle streghe e nella iettatura. A vent’anni voleva farsi frate, ma imbattutosi in un dotto scienziato francese, un certo dottor Panterre, perseguitato dal governo di Napoleone III per la sua propaganda materialistica ed anarchica, colla fantasia rapida e violenta propria dei meridionali, si innamorò delle dottrine del bizzarro cospiratore...”. L’incipit, attuale e vigoroso, sembra tratto da un romanzo uscito appena ieri. Invece, stiamo parlando di un’opera pubblicata nel 1887. L’autore, Emilio De Marchi, è un milanese che proviene dal movimento della Scapigliatura e forse senza saperlo -anche se nella prefazione ne parla come un romanzo “d’esperimento”-, ha appena pubblicato il primo giallo della letteratura italiana. Il libro si intitola “Il cappello del prete” ed ha un successo incredibile. In un’epoca in cui vendere mille copie significava aver superato ogni aspettativa, “Il cappello del prete” di copie ne fa centomila.

A poco più di un ventennio dall’Unità d’Italia, gli italiani sono ancora in gran parte analfabeti. Ciononostante c’è una grande voglia di leggere. La diffusione di romanzi e di giornali permette alla borghesia incipiente di conoscere il mondo a cui la nuova nazione si affaccia con entusiasmo ed impazienza. In quel contesto gli alfabeti erano poco più di sei milioni, all’incirca il 25% della popolazione, per cui il mercato editoriale si deve accontentare di una base di fruitori abbastanza limitata. Nonostante tutto, escono alcuni best sellers. Alcuni li ricordiamo ancora oggi, “Cuore” di De Amicis e “Pinocchio” di Collodi su tutti, ma ci furono altri casi, di autori che abbiamo oggi dimenticato. Enrichetta Caracciolo (“Misteri del chiostro napoletano”), Michele Lessona (“Volere è potere”), Antonio Stoppani (“Il Bel Paese”) -ma questi ultimi due erano testi divulgativi- sono scrittori estremamente popolari. Assieme a loro si piazza anche De Marchi con “Il cappello del prete” che, presentato come romanzo d’appendice, riscuote un successo senza precedenti.

Pubblicato inizialmente a puntate su due giornali (“L’Italia del Popolo” di Milano e “Il Corriere” di Napoli) “Il cappello del prete” venne edito su volume nel 1888. De Marchi, che all’epoca aveva trentasei anni, dice di aver voluto scrivere un libro esplicitamente per il lettore: “l’arte è cosa divina” commenta nella prefazione “ma non è male, di tanto in tanto, scrivere per i lettori”. Lontano dalle atmosfere di “Il piacere” e de “I Malavoglia”, pubblicati lo stesso anno e destinati al ruolo di pietre miliari della  nostra letteratura ottocentesca, “Il cappello del prete” è rivolto al pubblico di massa e ricalca, in questo senso, le atmosfere dei “feuilleton” francesi. L’operazione riesce e il libro si rivela un vero e proprio caso editoriale.

La storia si svolge a Napoli e, a fianco dei personaggi principali (il barone Santafusca, il prete Cirillo, don Antonio) De Marchi pone un’umanità viva e reale, in una passerella di figure popolane che mostrano al lettore povertà e miserie dell’animo umano. Nel romanzo, però, c’è soprattutto un omicidio e un solo indizio: il cappello del prete, appunto. Da qui prende spunto la trama che serve a De Marchi, che crede nel ruolo educativo della letteratura, a dare un monito ai lettori a non lasciarsi deviare dal vizio. Nonostante le vendite, De Marchi non tornerà più su quello che da quel momento prese a chiamarsi romanzo giudiziario e più tardi, con l’avvento della serie Mondadori, il giallo. Lo scrittore, probabilmente, pur avendo tracciato il cammino, non aveva compreso le enormi potenzialità del genere.

Si può scaricare qui: https://liberliber.it/autori/autori-d/emilio-de-marchi/il-cappello-del-prete/


domenica 30 marzo 2025

Due parole sul decreto cittadinanza

La notizia ha fatto in fretta il giro del mondo e l’ha fatto perché l’Italia è una madre feconda che ha lasciato figli un poco ovunque. Mano a mano che si è diffusa ha procurato sorpresa, confusione. Ma vediamo cosa è successo. Il governo Meloni, con fretta inusitata, ha emanato un decreto cittadinanza dove cambia le norme che hanno regolato finora i criteri per l’ottenimento della cittadinanza italiana. In sintesi: gli italo-discendenti nati all’estero saranno automaticamente cittadini solo se avranno un genitori o un nonno nato in Italia. Stop alla ricerca di bisnonni e avi nelle anagrafi e nelle parrocchie, le storie personali dei nostri migranti non interessano più, e ancora meno il riscatto delle generazioni successive che, nelle radici italiane, trovano orgoglio e senso di appartenenza.  


Il decreto legge nasce dall’indifferenza e da calcoli politici ed è un decreto che spiega anche ciò che eravamo ed oggi non siamo più, quel popolo che praticava la solidarietà, che non dimenticava il sacrificio di chi aveva dovuto lasciare dietro sè gli affetti e la patria. Oggi, dobbiamo considerare che agli italiani, quelli che vivono nella penisola, importa poco o nulla del destino di chi ha dovuto separarsi dalla propria patria. Anzi, qualche politico li ha anche tacciato di “traditori” scesi dalla barca lasciando il Paese al proprio destino. L’opportunismo di certi personaggi non conosce limiti. L’altra faccia della medaglia infatti ha tinte sobrie, meste. Un Paese che non ha offerto opportunità ai propri cittadini, obbligandoli a scelte estreme, è una nazione fallita. O come consideriamo oggi, nel nostro comodo salotto perbenista quelle nazioni da cui provengono gli immigrati che premono alle nostre frontiere? Non siamo molto diversi.

I discendenti degli italiani sono quelli che ci mettono la faccia ogni giorno, all’estero, per un Paese che, a volte, non conoscono nemmeno. Lo fanno con una passione che i cittadini residenti in Italia non dimostrano perché non hanno mai provato sulla propria pelle i sacrifici di chi è emigrato. Essere italiani è un privilegio, ma molti italiani questo privilegio lo calpestano ogni giorno con condotte indegne che vanificano il lavoro di chi, da fuori, promuove l’immagine di un’Italia sana, accogliente, cordiale. Una pubblicità a costo zero, che vale molto più degli spot insulsi preparati dagli ultimi governi per vendere all’estero il “prodotto” Italia. Senza entrare nel contesto politico e nella scelta che l’ha reso operativo (ci sarebbe molto da dire anche sulle altre modifiche indicate nel decreto) questo provvedimento è uno spartiacque doloroso.  

Non dobbiamo però dimenticare chi siamo e da dove veniamo. Se avete tempo, leggete queste poche righe di “Sull’oceano” di Edmondo de Amicis (siamo nel 1889), resoconto in diretta su chi si imbarcava sui bastimenti della speranza perché il proprio Paese, egoista e mal governato, li aveva ridotti alla fame:

La maggior parte, bisognava riconoscerlo, eran gente costretta a emigrare dalla fame, dopo essersi dibattuta inutilmente, per anni, sotto l’artiglio della miseria. C’eran bene di quei lavoratori avventizi del Vercellese, che con moglie e figliuoli, ammazzandosi a lavorare, non riescono a guadagnare cinquecento lire l’anno, quando pure trovan lavoro; di quei contadini del Mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere, con le quali, bollite nell’acqua, non si sostentano, ma riescono a non morire durante l’inverno; e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia che per una lira al giorno sudano ore ed ore, sferzati dal sole, con la febbre nell’ossa, sull’acqua melmosa che li avvelena, per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido. C’erano anche di quei contadini del Pavese che, per vestirsi e provvedersi strumenti da lavoro, ipotecano le proprie braccia, e non potendo lavorar tanto da pagare il debito, rinnovano la locazione in fin d’ogni anno a condizioni più dure, riducendosi a una schiavitù affamata e senza speranza, da cui non hanno più altra uscita che la fuga o la morte. C’erano molti di quei Calabresi che vivon d’un pane di lenticchie selvatiche, somigliante a un impasto di segatura di legna e di mota, e che nelle cattive annate mangiano le erbacce dei campi, cotte senza sale, o divorano le cime crude delle sulle, come il bestiame, e di quei bifolchi della Basilicata, che fanno cinque o sei miglia ogni giorno per recarsi sul luogo del lavoro, portando gli strumenti sul dorso, e dormono col maiale e con l’asino sulla nuda terra, in orribili stamberghe senza camino, rischiarate da pezzi di legno resinoso, non assaggiando un pezzo di carne in tutto l’anno, se non quando muore per accidente uno dei loro animali. E c’erano pure molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie, che con una metà del loro pane e centocinquanta lire l’anno debbon mantenere la famiglia in città, lontana da loro, e nella campagna dove si stroncano, dormono sopra sacchi di paglia, entro a nicchie scavate nei muri d’una cameraccia, in cui stilla la pioggia e soffia il vento. C’era in fine un buon numero di quei vari milioni di piccoli proprietari di terre, ridotti da una gravezza di imposta unica al mondo in una condizione più infelice di quella dei proletari, abitanti in catapecchie da cui molti di questi rifuggirebbero, e tanto miseri, che “non potrebbero nemmeno vivere igienicamente, quando vi fossero obbligati per legge.” Tutti costoro non emigravano per spirito d’avventura.

lunedì 3 febbraio 2025

"L'ira nella palude", crimini tra le mangrovie

In Costa Rica, e in tutta l’area centroamericana, esistono storie nascoste, a volte insabbiate, a volte passate in silenzio, legate alla terra. I profitti che circolano attorno alla proprietà di grandi estensioni hanno creato conflitti che sono lungi dall’essere risolti. Da una parte ci sono le comunità autoctone, dall’altra interessi privati che vorrebbero trarre i propri personali benefici. Due modalità di vita agli opposti, che contrappongono chi cerca comunione ed equilibrio con la natura e chi, al contrario, ritiene che l’ambiente sia da controllare e sfruttare. Un conflitto che, mano a mano che i toni sono diventati esacerbati, si è fatto cruento e dove, come da copione, sono gli indigeni a farne le spese. L’Onu stessa, per quanto valga oggi la sua opinione, si è pronunciata perché gli omicidi dei leader locali non rimangano impuniti. Poi, che queste notizie non giungano all’opinione pubblica dipende da vari fattori, il principale il disinteresse che il giornalismo mainstream ha decretato per questo tipo di vicende che, è evidente, non attraggono pubblico e lettori. 

Eppure, mettere nero su bianco significa dare una dimensione alle cose. Se un fatto non appare, non esiste; in qualche modo bisogna parlarne. Trasportare la cronaca nel campo del genere noir mi è sembrato quasi un atto doveroso ed è così che è nato “La ira en el manglar”, scritto in origine in spagnolo e pubblicato da Uruk Editores e quindi tradotto in italiano, dove ha preso il nome di “L’ira nella palude” per i tipi di Neos Edizioni. https://maledettitropici.blogspot.com/2023/08/la-ira-en-el-manglar-una-novela-para-el.html 

La trama. Nei primi anni Novanta, il Costa Rica fu scosso da un fatto di cronaca che venne indicato dai mezzi d’informazione con il nome di “crimen del Guacimal”. Una vicenda di cronaca nera dalle tinte fosche, accaduta in tempi non sospetti in quanto a problematiche ambientali, nel contesto seducente ed insidioso di un bosco di mangrovie. Il fatto era insolito. Si parlò per la prima volta di un crimine ecologico, della ribellione della natura contro chi ne violava le sacre regole e dell’esclusività dell’inedito movente. Negli anni successivi, dopo aver letto gli sviluppi e i dettagli della storia, si è fatto impellente l’interesse per romanzare questa vicenda al contrario, dove la natura non è più un agente passivo, arrendevole, che si può plasmare a proprio piacimento, ma un’entità viva, capace di influire nell’animo delle persone, realizzando in questa maniera il suo proposito di difendersi da chi l’attacca. L’ira che si impossessa della palude.

https://neosedizioni.it/libri/narrativa/nero-co/lira-della-palude/

sabato 28 dicembre 2024

La storia dietro gli angeli con l'archibugio

Angeli e arcangeli, protettori ma all’occasione anche vendicatori, ornati d’oro, armati di archibugi e pomposamente vestiti di broccato sono una delle espressioni più conosciute dell’arte figurativa peruviana. Los ángeles arcabuceros vengono oggi copiati e venduti in serie ai turisti, riprendendo una corrente pittorica che si è sviluppata nella regione di Cuzco nella seconda metà del XVII secolo. La loro storia è peculiare. Al momento della loro creazione questi dipinti erano considerati strumenti di propaganda per consolidare agli occhi degli autoctoni il peso e il potere della religione cattolica. Bisognava sostituire gli elementi naturali come il sole (inti), il fulmine (illapa), la luna (quella) e tutti i fenomeni naturali con i simboli religiosi cristiani. Ad adempiere a questo compito vennero chiamati i gesuiti, la cui visione dell’arte era intesa come strategia di evangelizzazione. E infatti, fu un gesuita italiano, marchigiano per l’esattezza, a impulsare e consolidare in Perù l’arte figurativa.  

Nato a Camerino nel 1548 Bernardo Bitti, viene mandato ragazzino a Roma per studiare pittura. A venti anni entra nella Compagnia di Gesù e quando l’ordine riceve dal Nuovo mondo la richiesta di un pittore per il viceregno del Perù, i suoi superiori lo mandano a Lima. Bitti vi giunge nel 1575, a ventisette anni quando il vicerè dell’immensa regione è il bacchettone e spietato Francisco de Toledo, diventato poi famoso con il soprannome di ¨supremo organizador¨. Toledo, che è espressione estrema del giogo coloniale, prima di tutto fa fuori gli ultimi inca ribelli rimasti (è lui che manderà ad impiccare Tupác Amaru), poi consolida la mita, il sistema di lavoro obbligatorio che mantenne per secoli gli indigeni andini sotto schiavitù. Non ultimo, instaura il primo tribunale dell’Inquisizione d’oltreoceano. Un bel tipo, insomma. Sotto di lui e con la collaborazione dei religiosi (gesuiti e domenicani), impone la propaganda cattolica attraverso l’arte. Santi, madonne, profeti, scene di miracoli imbiancano i muri e le tele nelle chiese e nei conventi, nelle piazze e nei luoghi dell’amministrazione pubblica, a testimoniare il potere religioso e politico degli Spagnoli. Bitti fa parte del manipolo di artisti europei chiamati ad assolvere a quel compito. Lo fa con ardore e con prolificità. Per otto anni rimane a Lima poi, nel 1583, si sposta a Cuzco. Bitti lavora non solo nell’antica capitale incaica, ma su buona parte dell’arco andino:  a Juliapa, Puno, Chuquisaca e Arequipa prima di tornare a Lima per morirvi nel 1610. Nell’arco dei trentacinque anni trascorsi in Perù ha tutto il tempo non solo di evangelizzare, come i suoi superiori gli avevano intimato, ma di insegnare l’arte pittorica –fortemente influenzata dal manierismo- a una manciata di allievi di estrazione indigena. Il risultato è uno stile singolare che fa spesso a pugni con la prospettiva, ma che introduce la singolarità di elementi paesaggistici e culturali legati all’ambiente andino ed amazzonico. Più ci si allontana nel tempo dagli insegnamenti di Bitti e più i pittori di Cuzco si addentrano in quella che diventa la peculiare Escuela Cuzqueña, tra madonne indigene ed arcangeli vestiti da nobili spagnoli, con sacro e profano a confrontarsi sulla stessa tela. Lontano dagli occhi dei gesuiti e, di conseguenza, dal loro controllo, i colori si fanno più vivaci ed i particolari minuziosi.


L’associazione tra il nobile spagnolo e l’immaginario religioso diventa indissolubile e nella seconda metà del XVII secolo cominciano ad apparire gli arcangeli con l’archibugio, nella zona di Calamarca, nelle vicinanze di La Paz, in Bolivia. Il genere ha successo, al punto che giungono commissioni da tutta l’America dell’arco andino e fino alla pampa argentina. A Lima e a Cuzco sorgono botteghe specializzate proprio sul tema degli arcangeli armati, che diventano comuni nelle case patrizie e nei luoghi di culto. Le richieste si fanno sempre più esigenti e presto ai colori ad olio si aggiunge l’oro, a definire non solo i particolari più importanti del dipinto, ma anche le cornici, pregiate e preziosissime. Quella che doveva essere un’arte povera, nata dagli indigeni che volevano esprimere il loro contatto con il nuovo ambito religioso, diventa manifestazione di ricchezza destinata ad arredare le case signorili della borghesia latinoamericana.

Quella voglia di Grand Tour

  “ L’Italia ha avuto un volto, e con quel volto, con quei lineamenti inconfondibili affascinava, splendida e casuale, l’Europa el il mondo ...