"Nelle notti estive, dalle mie parti, le strade diventano canali e rigano d’argento la malinconia della natura”. Il Polesine narrato da Gian Antonio Cibotto è un luogo incantato, dove il delta del Po, ammantato dalle nebbie, offre rifugio a uomini e animali, il cui destino è quello di schivare lo spazio e il tempo. Cibotto è stato il cantore contemporaneo del Polesine, terra magica e coriacea ma anche terra sofferta. Proprio il suo esordio letterario, nel 1954, aveva il titolo di un dramma reale, “Cronache dell’alluvione”, calamità di cui si compiono settanta anni il prossimo novembre. Una piena che si portò via case, strade, vite e che configurò un futuro inaspettato e drammatico per migliaia di persone. Furono quasi 200.000 gli sfollati, poco più di un centinaio i morti.
Nel mezzo degli anni Sessanta, quando ero bambino, si parlava ancora di quella tragedia con un misto di pena e commiserazione. La portata del disastro, come quello del Vajont, era rimasta come una marca indelebile nella memoria delle persone. Era una tragedia, poi, che si poteva toccare con mano. Nell’immediata periferia di Torino erano tante le famiglie degli sfollati che avevano perso tutto (case, averi, in alcuni casi i familiari) e che erano giunte in cerca di lavoro e di un’opportunità di rifarsi una vita. Emigrarono in 80.000 (praticamente uno ogni tre abitanti), una diaspora che ha lasciato i segni nelle famiglie contadine del Polesine, sconvolgendole quasi quanto una guerra.
Il Po, che aveva dato vita e alimento, si era trasformato improvvisamente in un nemico, complici le piogge torrenziali dei giorni precedenti. Gli argini ruppero la sera del 14 novembre 1951 la sponda sinistra del Po, dove si trovano i comuni della provincia di Rovigo. La rottura avvenne nella località di Canaro, poi a Occhiobello. Come al solito, la gestione dell’emergenza venne trattata superficialmente da parte delle autorità che, incapaci di prendere delle decisioni risolutive, temporeggiarono, e stettero quindi a guardare come l’onda di riflusso allagò nei giorni successivi anche l’Alto Polesine che per il momento era scampato al disastro.
In un’Italia ancora priva della televisione le notizie arrivavano frammentarie per radio, incapaci a rendere fedelmente l’immane portata della tragedia. I due terzi delle acque del Po, invece di fluire nell’Adriatico, si erano riversate nella pianura rodigina devastando le case e gli averi di chi appena si stava riprendendo dagli sfracelli del conflitto mondiale. Le testimonianze del tempo raccontano come il fiume esondato aveva costretto le persone a scappare con solo quello che avevano addosso. L’acqua sommerse tutto. Nelle case rimasero le tavole imbandite, i letti appena toccati da chi si preparava ad andare a dormire, come se la vita si fosse fermata in un istante prestabilito.
Noi ragazzini sentivamo parlare della tragedia, che si perpetuava nel tempo, un dramma che era diventato costante. Il Po, infatti, continuava ad esondare in quegli anni: nel 1957, nel 1960, nel 1966. Venire dal Polesine era sinonimo di sfollato. La migliore amica di mia madre si chiamava Norma ed era una di quelle adolescenti che da un giorno all’altro si erano trovate senza nulla. La tragedia l’aveva fatta forte, ma questo non cancellava il suo senso di urgenza per fare le cose, come se fosse sempre a un passo da perdere i suoi beni. La sua presenza era il segnale che nella vita conformista e agiata, in qualsiasi momento può accadere l’inevitabile.
Nel 1966, a quindici anni dalla disgrazia, nel Polesine non era ancora stato ripristinato il servizio d’acqua potabile. Chi aveva avuto l’ardire di tornare doveva fare i conti con un’arretratezza che aveva riportato la zona a cento anni prima. Non si poteva coltivare la terra, ancora impregnata d’acqua, non vi erano fonti di sussistenza. Poi, finalmente, partì la bonifica. Gli argini vennero alzati (le terre sono in media a 3-4 metri sotto il livello del mare), si investì sull’agricoltura, si innalzarono gli zuccherifici. Il Polesine era rinato ed oggi è diventato un esempio di come si può ripartire dal nulla e creare benessere. E divagare, dal punto di vista dello scrittore, di una terra dove la notte “le strade diventano canali”.
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