lunedì 4 ottobre 2021

John Mayall, la fine del viaggio

I have decided, due to the risks of the pandemic and my advancing age, that it is time for me to hang up my road shoes”. Comincia così il lungo messaggio su Facebook, attraverso il quale John Mayall comunica il suo quasi totale abbandono delle scene. Un altro grande vecchio, di quelli che ci hanno abituato alla buona musica, getta la spugna per ragioni dovute all’età. Mayall si appresta infatti a compiere 88 anni e, pre pandemia, si era mantenuto attivo con una pioggia di concerti in tutto il mondo. Il virus, dannato sia, ha fermato anche lui che, comunque, tranquillizza lo zoccolo duro del suo pubblico, promettendogli qualche concerto vicino a casa, nella zona di San Francisco. 

John Mayall ha un pregio: è sempre rimasto fedele a se stesso. Non si è mai fatto abbindolare dalle mode ed è passato incolume attraverso i decenni mentre proponeva l’immenso repertorio del blues; reinterpretato in chiave bianca, ma pur sempre un gran signor blues. La sua band, the Bluesbreakers, è stata la palestra di tanti talenti che poi, abbandonata casa, hanno scritto grandi pagine di musica: Eric Clapton, John McVie, Jack Bruce, Aynsley Dunbar, Dick Heckstall Smith, Jon Hiseman, Mick Taylor, Peter Green, Keef Hartley, Harvey Mandel e così via. Chi conosce un poco la scena londinese degli anni Sessanta sa di cosa sto parlando. Chi, invece brancola nel buio, ha la possibilità di prendere questi nomi e trasferirfli su Spotify per un viaggio propedeutico che gli insegnerà molte cose. L’esperienza, seppure liquida, vale la pena.

L’accademia di John Mayall era la scuola per eccellenza, la gavetta necessaria per chi, con il blues nel sangue, avrebbe presto messo le ali per volare altrove. Cream, Colosseum, Fleetwood Mac si formano in quel laboratorio che, alchemicamente, prendeva un genere prettamente acustico e lo trasformava in energia elettrica. La lezione che Muddy Waters aveva portato in Inghilterra prendeva forma attraverso la musica di John Mayall e di un altro grande presto dimenticato, Alexis Korner. Grazie a quella formula, il blues, un vagabondo povero dalle scarpe rotte, prendeva una dimensione internazionale e diventava ricco (non solo nell’accezione monetaria, ma soprattutto artistica), influenzando il resto della musica per almeno due decenni.

Ascoltare Mayall oggi è ascoltare la colonna sonora dei nostri tempi. Mettere i suoi dischi “sul piatto” è richiamare il passato, studiare la cultura pop mentre, per qualsiasi musicista significa ripassare l’abc di come prendere in mano uno strumento e dedicarcisi con passione. Un po’ di ripasso, quindi, non fa male. “Blues Breakers with Eric Clapton”, “Bare Wires”, “Blues from Laurel Canyon” con il salto negli Stati Uniti e poi avanti fino a “70th Birthday Concert”, monumentale antologia dal vivo di due ore e mezza, sono sollucchero per i patiti e pietre miliari da offire agli iniziati. In mezzo, “Wake Up Call”, disco adunata del 1993 dove sono con lui Buddy Guy, Albert Collins, Coco Montoya, Mavis Staples, Mick Taylor e tanti altri episodi caldi, lussuriosi, imperdibili.

“La cosa principale è l’improvvisazione” dichiara Mayall nelle interviste. “L’idea è quella di creare musica, di esplorare la musica”. In un’epoca dove è tutto programmato, il blues ha la sua ragione di essere e anche se Mayall ha appeso le sue “road shoes”, lasciamo che la sua musica continui a camminare ancora a lungo.

 

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