giovedì 8 ottobre 2020

Los Saicos: quei quattro peruviani che "inventarono" il punk

 


 

Nel luglio 1963 il Perù elegge come presidente Fernando Belaúnde Terry, un architetto dalla traiettoria democratica. È un’elezione mirata, che congela gli estremismi che l’anno precedente avevano portato la sinistra al governo e quindi provocato il conseguente colpo di stato militare. In piazza erano volate botte da orbi, c’erano stati morti e l’elezione di Belaúnde aveva la chiara intenzione di calmare le acque con un’amministrazione dichiaratamente centrista ed aperta agli investimenti stranieri. Detto, fatto. Il Perù, a partire da quell’anno, si apre al resto del mondo. Sarà per una breve stagione, che durerà fino al golpe di Velasco, nell’ottobre 1968, sufficiente però perché una generazione di adolescenti sogni, canti e balli con la musica di Beatles, Rolling Stones, Elvis, Beach Boys. Con i loro dischi arrivano anche le chitarre elettriche e nel 1964 a Lince, quartiere popoloso della capitale, quattro ragazzi ci provano. Decidono di chiamarsi Los Sádicos, i sadici, poi a qualcuno viene in mente di togliere la d e rimane così Los Saicos. Una coincidenza, per assonanza fonetica in lingua spagnola, con quella ¨Psycho¨ dei Sonics (1965), gruppo a cui i peruviani sembrano essere legati da un filo invisibile attraverso il continente americano. Perché i Saicos suonano come nessuno ha fatto fino ad allora. Loro sono quattro: Rolando Carpio, il Chino (chitarra), César Castrillón (basso), Pancho Guevara (batteria) ed Erwin Flores (voce e chitarra). Flores, in un paese abituato ai bei fraseggi melodici della canción criolla, rompe ogni schema. Non canta, infatti, ma urla, ed il suo screaming viene incitato dal fratello Harry, che si improvvisa manager e riesce a far esibire il gruppo al concerto annuale della Cadena de Comentaristas de Discos del Perù. Ambiente da canzone romantica, bigottoni in platea, qualche pezzo di gruppi popolari dell’epoca e poi i Saicos che suonano ¨Come On¨ (non quella di Chuck Berry). È come passare un’unghia su una lavagna, ma dopo i primi secondi di silenzio, la platea è in piedi ad applaudirli. Da quella serata i Saicos ne escono due contratti: uno discografico ed uno televisivo. ¨Come On¨ diventa il primo di sei singoli –usciti tra il 1965 ed il 1966-, tra cui ¨Demolición¨, che diventerà il loro hit: surf, proto punk, garage ed Erwin Flores che anticipa Lux Interior di una buon decennio con un urlo –il tatatata yaya in riverbero- che diventa il tormentone di quella stagione.

I giornali peruviani parlano di “vandalismo sonoro”, ma intanto i Saicos riempiono i teatri e passano una volta alla settimana in televisione, con il loro programma ¨La Hora de los Saicos¨. Dopo ¨Come On¨ il gruppo snocciola una serie di hit, tutti rigorosamente in spagnolo e su 45 giri: ¨Cementerio¨, ¨Camisa de Fuerza¨, ¨Salvaje¨, ¨El entierro de los gatos¨, ¨Fugitivo de Alcatraz¨, ¨Besando a otra¨. I dischi sono rigorosamente senza copertina, venduti in busta plastica con una semplice fascia che riporta il nome della casa discografica. Si trovano nei mercati popolari, il vero emporio di Lima, dove si vendono assieme alla frutta e alle spezie. Los Saicos suonano dal vivo a ritmo stakanovista, a volte perfino cinque volte al giorno in cinque posti differenti, facendo il giro dei cinema e dei teatri della capitale. Il successo sembra debba durare in eterno, ma come il clima politico prossimo a cambiare, anche l’entusiasmo per i Saicos si raffredda e quando il generale Velasco rovescia il governo democratico, restringendo le libertà individuali, il gruppo si scioglie. I Saicos sono logori: bisticciano tra di loro, non compongono più e non riescono a rispondere alle esigenze della compagnia discografica che gli chiede materiale nuovo per un LP. Insomma, mancano le idee. Erwin Flores, la voce demenziale, prova prima la carriera solista in patria ed in Argentina (senza fortuna) e poi se ne va negli Stati Uniti, dove si laurea in fisica e lavora prima alla Nasa e quindi in una multinazionale farmaceutica. Castrillón lo segue a ruota. A Lima rimane solo il batterista, Pancho Guevara. Storie normali per chi conosce la musica e la sua quotidianità.


Passano gli anni e, alla fine dei Novanta, qualcuno in Spagna si ricorda di loro ed assembla i 45 giri dei Saicos in un cd, ¨Wild Teen Punk from Perù¨ per la Electro Harmonix. È l’inizio della Saicomanía, un’onda inarrestabile che si propaga prima sulle fanzine, poi sui siti internet ed arriva quindi sulle pagine dei giornali specializzati e dei quotidiani. Riascoltando i pezzi, alcuni critici non hanno dubbi ad attribuire la primigenia del punk al quartetto di Lince. Nessuno dei membri originali dei Saicos è al corrente dell’operazione ed il primo a rendersene conto è Erwin Flores, che trova il disco in un negozio. I giornalisti lo cercano e lui, fedele al personaggio dell’urlatore di ¨Demolición¨ si comporta da vero punkster quando gli chiedono la relazione tra Saicos e punk: ¨il punk è una musica di merda, per gente che non sa una merda di musica¨ dichiara. Più punk di così, non si può, altro che fisico della Nasa. Nel frattempo il Chino Carpio è morto, ma Flores ritrova l’amico Castrillón -per caso vivono entrambi nella zona di Washington DC- ed insieme prendono la palla al balzo e ricostituiscono il gruppo. Nel 2010 li rivogliono a Lima, nel quartiere Lince dove sono nati e cresciuti, a ridosso dell’oceano Pacifico. Suonano in Perù dopo 45 anni dai loro esordi e per l’occasione, proprio nel loro quartiere, viene scoperta una targa che ne ricorda le gesta. Il  Comune, addirittura, gli dedica una via. La Saicomanía non si placa ed il film-maker Héctor Chávez realizza il documentario ¨The World Should Know¨: il segreto meglio conservato dei Sixties è infine rivelato al mondo intero. Il punk, insomma, è nato in Perù.

martedì 6 ottobre 2020

La mappa che portò Colombo nel Nuovo mondo

Colombo sapeva a cosa andava incontro quando prese da Palos la rotta a occidente? Insomma, ce l’aveva una mappa? Secondo The Lazarus Project, sì. E per confermarlo gli studiosi hanno sottoposto ad analisi ai raggi ultravioletti una mappa conservata alla Beinecke Rare Book & Manuscript Library, elaborata nel 1491 da Henricus Martellus, un cartografo tedesco residente a Firenze. Enrico Martello, da Norimberga, visse nella città toscana dal 1480 al 1496 e dovette ricevere indicazioni, in qualche momento, dell’ubicazione del Sipan (il Giappone), dove Colombo trovò invece le prime isole che annunciavano il continente americano. Da qui l’equivoco: cercando il Giappone, porta delle Indie, il genovese trovò il Nuovo mondo.

Che il navigatore genovese conoscesse la mappa è molto probabile: il figlio Hernando, nella biografia dedicata al padre, dichiarava come Colombo affermasse che il Giappone si estendeva a fianco dell’estremo lembo del continente asiatico e la mappa di Martellus era l’unica al tempo a dimostrarlo. La posizione era comunque sbagliata, mille miglia di distanza dalle coste dell’Asia, e questa difformità indusse Colombo all’errore: invece del Giappone, a un passo dalle terre del Catai dove avrebbe voluto trovare fiumi d’oro, era finito nell’arcipelago antillano. La ricerca sulla mappa di Martellus non è proprio recente, ma le cose a livello accademico si muovono lentamente. Alla storiografia su Colombo, quindi, possiamo ormai aggiungere che il navigatore organizzò la sua spedizione su basi definite. La mappa di Martellus indica il mondo conosciuto nel XV secolo: un’Africa dalle dimensioni smisurate, un oceano Pacifico solcato da una miriade di isole, l’India mozzata e una supposizione, azzeccata, dell’esistenza del continente australiano. E con quel Giappone, così mal posizionato al largo nell’oceano, da ispirare l’impresa di Colombo.

http://www.lazarusprojectimaging.com/martellus/

venerdì 2 ottobre 2020

Il gallo pinto, una colazione da campioni

Il gallo pinto è forse il più famoso dei piatti tradizionali del Centroamerica. La combinazione è semplice e riguarda l’unione dei due alimenti principe (oltre al mais) della dieta centroamericana, i fagioli e il riso, i primi originari dell’attuale Messico, il secondo importato dagli Spagnoli durante la dominazione. È un piatto che si consuma a colazione ed è diffuso soprattutto in Costa Rica e Nicaragua, dove è accesa la contesa per definire a quale paese spetti la ricetta originale. La differenza che salta subito alla vista e al gusto è che il gallo pinto tico si prepara con il fagiolo nero, mentre quello nicaraguense con quello rosso. Non solo. In Costa Rica un buon pinto deve essere condito con la salsa Lizano, un prodotto locale simile alla Worchestershire sauce, elaborato per la prima volta circa un secolo fa e che mano a mano è diventato popolare sulle tavole costaricensi.

È un piatto da colazione e robusto, visto che generalmente viene completato da altri alimenti: uova soprattutto e poi avocado, formaggio fritto, salciccia, panna acida (natilla), banane fritte. Una variante interessante è quella servita sulla costa atlantica, il rice and beans di origine caraibica. In questo caso il riso e i fagioli si cuociono nel latte di cocco, con una buona dose di peperoncino habanero. La ricetta è abbastanza semplice. Preparate un soffritto a base di cipolla tritata, peperoni a pezzettini e, se volete, aglio. Al soffritto aggiungete il riso e i fagioli che avrete avuto cura di preparare il giorno prima e lasciate cuocere per pochi minuti –da 3 a 5- aggiungendo mano a mano nella padella l’acqua dei fagioli. Alla fine, adornate con coriandolo e mettete in tavola. Solitamente le massaie locali ne preparano dosi industriali: il gallo pinto riscaldato serve infatti anche a pranzo e a cena e, a volte, soprattutto nelle tavole dove scarseggia la varietà, può durare la settimana intera.

Nella foto, il gallo pinto servito sulla nostra tavola, come ogni sabato mattina.

In musica: “Frijolero”, Molotov, 2003: https://www.youtube.com/watch?v=8iJMOBcPQyg

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...