venerdì 25 dicembre 2020

Rompete tutto: su Netflix il rock in America Latina

 

 


Quando si parla di rock latinoamericano si parla obbligatoriamente di due grandi centri di raccolta di talenti e opportunità: Ciudad de México e Buenos Aires. Due città distanti tra loro settemila chilometri, differenti per storia e cultura, ma accomunate dal ritmo uniforme delle metropoli, attive, vive, assorbenti. “Rompan todo”, apparso su Netflix il 16 dicembre, mini serie di sei capitoli, è un affresco musicale che riguarda soprattutto non un continente intero, ma queste due città. Prodotto – tra gli altri- da Gustavo Santaolalla, vincitore di due Oscar per la colonna sonora (Brokeback Mountain e Babel), negli anni Settanta membro degli argentini Arco Iris, “Rompan todo” è per il pubblico italiano l’occasione di immergersi in una storia poco conosciuta e, semmai, ritenuta periferica o, peggio, irrilevante nell’universo rock.

Su questo grave errore si può chiedere venia, immergendosi nelle quasi sei ore di “Rompan todo”. L’evoluzione del rock in America Latina va di pari passo con la Storia, ed è marcata dalle repressioni, dalle dittature, dal vuoto dei diritti umani, dalla censura. È una musica vissuta con il sangue, con i propri martiri (il massacro di Víctor Jara, a cui vennero amputate le mani, su tutti) che contrasta fortemente con la comodità di certo nostro rock, spesso di matrice borghese, da rivoluzione salottiera. Il rock in Argentina, Cile, Uruguay, Messico era una questione seria. Passava per Tlatelolco, il golpe di Pinochet, il peronismo, i governi militari un poco ovunque, che lo reprimevano e lo demonizzavano come un’espressione evidente della corruzione dei costumi e della società. Passava per l’esilio forzato dei musicisti. Nella seconda puntata, “La represión”, le parole di Pinochet o Videla, riescono ancora oggi a far accapponare la pelle, a ricordarci nelle nostre comode vite, cosa significasse al tempo perdere la libertà, non potersi esprimere, rischiare la tortura e finire nella lista dei desaparecidos.

Il male non può durare per sempre. Dalla terza puntata si assiste quindi, a metà degli anni Ottanta, alla normalizzazione del rock. L’incubo finisce e la ribellione si trasforma in industria vigorosa e potente, capace di investire e creare un “prodotto” di grande intensità come Soda Stereo. Negli anni Novanta si ottiene così una grande stagione. Segnatevi questi nomi ed andate ad ascoltarli, se già non lo avete fatto: Los Fabulosos Cadillacs, Bersuit Vergarabat, Café Tacuba, El Gran Silencio, Enanitos Verdes, Molotov, Los Aterciopelados, Illya Kuryaki & The Valderramas. Per cominciare, può bastare. Sullo schermo, ora si assiste quindi a come una musica di rottura, vissuta e interpretata come rivoluzionaria nel vero senso del termine, si aggiusti all’establishment e ne diventi ingranaggio. La parabola è completa.

In “Rompan todo” emerge pure l’iconografia del rock latinoamericano: il Luna Park di Buenos Aires, il salto in piscina di Charly García, il festival di Avándaro, la poliedricità di alcuni personaggi come Spinetta e Cerati, il Tianguis del Chopo. Se critica si può fare al documentario, che è comunque solido, è la sua argentinità, rotta ogni tanto da sprazzi messicani. Mexico City diventa New York e Buenos Aires è Londra, le città dove tutto succede, dove tutto è possibile. In certi tratti, l’insistenza nel proporre la scena bonaerense porta con sè una certa stanchezza e rischia di annoiare lo spettatore, soprattutto per la pochezza di certe proposte musicali. È in questi momenti che “Rompan todo” cade nell’autocelebrazione, dimenticandosi di altre realtà (Colombia, Cile, Perù) che diventano così periferia, nonostante l’apporto non certo marginale di gruppi come Saicos, Los Shain’s, Traffic Sound (tutti peruviani) ed eventi come il festival di Ancón (il Woodstock colombiano) tanto per ripercorrere solo alcuni fenomeni degli albori. Inoltre, Centroamerica non pervenuto. A parte questo, immergetevi nella storia e godetevela.  

lunedì 21 dicembre 2020

Musica del 2020? No grazie, la top list speciale del 1970

 

 

Giunti alla fine dell’anno i critici musicali sono soliti presentare la lista dei migliori dischi. Quest’anno ho deciso anch’io di fare la mia lista ma, ritenendo il 2020 indegno anche sotto il punto di vista musicale, vi presento una top list speciale, come se a finire fosse il 1970. Giusto mezzo secolo fa.

 

30. Hark! The Village Wait – Steeleye Span

Un gruppo di simpatici giovani che suonano le canzoni dei loro nonni riuscendo a fare un disco decente.

29. If I Could do It All Over Again… – Caravan

La Canterbury scene cresce e si fa adulta.

28. Thank Christ for the Bomb – The Groundhogs

Le visioni blues di un chitarrista dotato, votato a born loser.

27. Woodstock, colonna sonora

Cavolo, c’è stato Woodstock... un anno fa. Sei facciate tutto sommato –con le debite eccezioni- un poco pallose.

26. The Man Who Sold the World – David Bowie

Bello, in certi passaggi intenso, ma il ragazzo ha talento e può fare di meglio. Deve sforzarsi di più.

25. I – EL&P

Mah, alcuni spunti sono interessanti. Certamente da riascoltare più volte prima di dare un giudizio obiettivo.

24. Benefit – Jethro Tull

Se Rolling Stone lo stronca (i Jethro Tull ci danno una “fredda, rumorosa e insensibile esecuzione musicale”) vuol dire che faremo lo sforzo di ascoltarlo.

23. The Black Man’s Burdon – Eric Burdon & War

Discone, un’ora e mezzo di dichiarazione d’amore (e di guerra) alla musica.

22. Closer to Home – Grand Funk Railroad

Questi la critica non se li caga, ma a me sono sempre piaciuti assai. Vogliamo parlarne?

21. The Madcap Laughs – Syd Barrett

Fino a quando riderà il cappellaio matto?

20. Abraxas – Santana

“Un capolavoro di tecnica insipida... suonato da musicisti incompetenti” (Rolling Stone, la rivista). Un disco che crea solo “un sacco di rumore” (Robert Christgau).

19. Atom Heart Mother – Pink Floyd

La mucca della copertina si chiede perché sia finita lì. I Pink Floyd non sono solo noiosi: sanno anche essere spiritosi.

18. Climbing! - Mountain

Disco d’esordio dei Cream americani, ma con tanta energia in più di quelli originali.

17. Chunga’s Revenge – Frank Zappa

Non so come la pensiate, ma Zappa non si discute.

16. Idlewild South – Allman Brothers Band

Graffia meno del disco d’esordio, ma comunque accettabile. People can you feel it, love is everywhere, l’amore è ovunque soprattutto dopo vari ascolti di “Midnight Rider”.

15. Back in the USA – MC5

Due pezzi su tutti “Shakin’ Street” e “High School”. Diventeranno delle grandi cover.

14. Let it Be – Beatles

Purtroppo siamo alla frutta, un album che è la colonna sonora della fine di una grande band.

13. In the Wake of Poseidon/Lizard – King Crimson

Doppio King Crimson in quell che va dell’anno. C’è un po’ di tutto, tanta musica da esplorare nelle lunghe nottate invernali.

12. Funhouse – The Stooges

Onesto, catartico. Poche balle, essenziale.

11. In Rock – Deep Purple

Finalmente i Deep Purple non cazzeggiano più e si mettono a fare sul serio. C’è da sperare per il futuro.

10. Cosmo’s Factory – CCR

Swamp all over the world.

9. Fire & Water – Free

Perché i Free così in alto? Boh, si lasciano ascoltare, blues bianco elettrico completo, senza sbavature.

8. Shooting at the Moon – Kevin Ayers

Genio incompreso. Farà sicuramente un sacco di bei dischi che venderanno poco,  guadagnandosi la fama di musicista di nicchia, molto di nicchia.

7. Dèjá Vu – Crosby, Stills, Nash & Young

L’unione fa la forza e pure dei bei dischi.

6. Black Sabbath I/Paranoid.

Doppio Sabbath, continuate così e ne verrà fuori qualcosa di buono.

5. Loaded – Velvet Underground

È solo “una delle tante rock and roll band di Long Island” (cit. Lou Reed): ce ne faremo una ragione.

4. Cruel Sister – Pentangle

Tra le band più sottovalutate di sempre. Grandissimi e inarrivabili.

3. John Barleycorne Must Die – Traffic

Una corsa a perdifiato tra jazz, rock, folk. Album completo.

2. Live at Leeds – The Who 

Finalmente gli Who dal vivo. Maestosi, semplici e brutali. Sei piste, metà classici blues rivisitati, metà originali. Il degno seguito di “Tommy”.

1. III – Led Zeppelin

Qui, tra questi solchi, nasce, vive e muore il rock and roll.

martedì 8 dicembre 2020

Bob Dylan, saldi di fine stagione

 

Bob Dylan che (s)vende il lavoro di una vita –il catalogo si chiama adesso- alla Universal Music è la mesta immagine della fine di un’epoca. La nostra epoca, nello specifico, quella sofferente ma ottimista di chi oggi ha passato il mezzo secolo e che ha avuto Dylan come cantore e testimone. La vendita di un patrimonio artistico e culturale al miglior offerente (ma non era meglio affidare il tutto a una Fondazione?), significa che possiamo sbaraccare e accomodarci fuori dalla porta: non è più il nostro mondo. La musica è merce, ha un prezzo, l’avevamo capito da un pezzo, ma c’è nel gesto di Dylan un significato più profondo per ciò che l’artista ha rappresentato. Le lotte, i movimenti di protesta a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, gli avvenimenti decisivi o simbolici di quegli anni (l’assassinio di Kennedy, la guerra del Vietnam fino alle storie semisconosciute come quelle di Rubin Carter o di Emmett Till) sono stati colti dalla lirica di Dylan e definiti, scolpiti per rimanere nel tempo. Dylan ha cantato l’America cogliendone il lato oscuro, le contraddizioni, schierandosi che volesse o no con il dissenso, facendosi latore della voce dell’antagonista alle posizioni ufficiali e conformiste. Basta un gesto, però, per rimettere tutto in discussione, sessanta anni buttati nel cesso. Canzoni come “The Times They Are a-Changin’” o “Blowin’ in the Wind” –per citarne due famose- diventano ora il paradosso di se stesse e potremmo riascoltarle in una nuova chiave, appunto, al passo con i tempi che cambiano. Svuotate, ovviamente, del loro significato originale.

Bob Dylan svende, e non vende, proprio perché la sua musica ha un valore inestimabile e qualsiasi prezzo che si sia pagato per essa (300 milioni di dollari?) è irrilevante. E suppongo, sia irrilevante anche per Dylan, dal quale non sapremo mai la motivazione che l’ha spinto alla cessione. Il catalogo (adeguiamoci ai tempi e chiamiamolo così) sarà a disposizione per jingle, saghe commerciali, sottofondo per aeroporti, diventerà colonna sonora nei supermercati, dosato secondo le necessità del mercato e dalle opportunità in termini di soldoni che rappresenta per la multinazionale. Alla Universal dicono che gestiranno il materiale acquisito con grande responsabilità. Sarà così? The answer, my friend, is blowin’ in the wind.

 

In musica: Absolutely Sweet Marie, versione di Jason & The Scorchers, 1984.

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Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...