martedì 8 marzo 2022

La costruzione del mostro / La construcción del monstruo

È uscita in questi giorni la versione in spagnolo di “Il mostro di Armendáriz”, edito da Uruk Editores, libro su cui voglio spendere alcune parole. Sono incappato nella vicenda del mostro di Armendáriz quando mi occupavo di America Latina come corrispondente. Era una storia su cui già al tempo si era posata molta polvere, poco conosciuta nello stesso paese dove si era svolta, il Perù, nazione che anzi cercava di dimenticarsene. Succede. A volte i popoli caricano il peso di avvenimenti che, all’appuntamento con la Storia, si rivelano imbarazzanti o, ancora peggio, ignobili.

La vicenda si svolge in un periodo storico ben definito (il regime di Manuel Odría), ma ai fini del nostro scopo, la sua ubicazione geografica e temporale, ha un’importanza relativa. La storia che si racconta, infatti, appartiene all’umanità o, ancora meglio, alla disumanità che è caratteristica comune del nostro genere. Il “Monstruo de Armendáriz” è, infatti, una storia che si ripete ovunque, in tutte le società e in ogni tempo. È la costruzione del diverso, del reietto, del mostro. È la storia del lato oscuro dell’animo umano, di quella parte che viene consumata dal male e che, da singola voce, si trasforma nel grido osceno di un’intera società. È l’urlo perverso di chi chiede la guerra, di chi violenta i diritti, di chi giustifica le aberrazioni, di colui che, attraverso i suoi canali privilegiati –stampa, politica, forze dell’ordine, qualsiasi tipo di autorità- manipola l’opinione pubblica. È l’istinto primitivo del branco che attacca il singolo individuo.

Non c’è nulla di nuovo nel “Monstruo de Armendáriz”, solo la consapevolezza che il potere della collettività è un’energia instabile, che viene usata più per fare del male che per fare del bene. Nel contesto generale spicca la storia individuale del capro espiatorio di turno su cui ricade la furia del gruppo, prototipo estremo della nostra povertà morale. Attenti, quindi: ognuno di noi potrebbe diventare il prossimo mostro.


Sale en estos días la versión en español de “El Monstruo de Armendáriz”, publicado por Uruk Editores, libro al cual quiero dedicar algunas palabras. Me topé con el suceso del monstruo de Armendáriz cuando me ocupaba de América Latina como corresponsal. Era una historia sobre la cual se había posado mucho polvo, poco conocida en el mismo país donde había acaecido, el Perú, nación que, además, trataba de olvidarse de tal vil desliz. A veces pasa. Los pueblos cargan con el peso de acontecimientos que, a la cita con la Historia, se revelan embarazosos o, peor, infames.

Aunque el suceso se desarrolla en un periodo histórico bien definido (el régimen de Manuel Odría), a efectos de nuestro propósito su ubicación geográfica y temporal tiene una importancia relativa. El desenlace no pertenece a un lugar y a una época distinta, sino a la humanidad o, más bien, a la deshumanidad, que es característica común de nuestro género. “El Monstruo de Armendáriz” en efecto es una historia que se repite en toda sociedad y en todo tiempo. Es la construcción del diverso, del marginado, del monstruo. Es la historia del lado oscuro del ánimo humano, de la parte que es consumida por el mal y que, de voz individual, se torna cuando es dirigida en el grito obsceno de una entera sociedad. Es el aullido perverso de quien quiere la guerra, de quien violenta los derechos, de quien justifica las aberraciones, de quien, por medio de sus canales privilegiados –la prensa, la política, las fuerzas del orden, cualquier tipo de autoridad- manipula la opinión pública. Es el instinto primitivo de la jauría que persigue al individuo solitario.

No se cuenta nada nuevo en el “Monstruo de Armendáriz”, solo se remarca la conciencia que el poder de la colectividad es una energía instable, que se usa más a favor del mal que del bien. En el contexto general se destaca la historia individual del chivo expiatorio, sobre el cual recae la furia del grupo, extremo prototipo de nuestra pobreza moral. Atención, entonces: cada uno de nosotros podría volverse el próximo monstruo.

venerdì 25 febbraio 2022

Schiavi, oro e cannibali: il nuovo mondo di Michele da Cuneo

 

Il 25 settembre 1493, Cristoforo Colombo salpa dal porto di Cadice per la sua seconda spedizione verso le Indie Occidentali. La flotta, questa volta, è poderosa: 17 navi, 1500 uomini e, a differenza del primo viaggio esplorativo, c’è un nutrito drappello di religiosi e militari. Colombo, forse per non sentirsi troppo isolato, porta con sè il fratello Giacomo, il figlio Diego e l’amico Michele Da Cuneo, mercante savonese, appartenente a una delle famiglie più influenti di questa città.  

Michele da Cuneo (se si esclude Colombo) è il terzo italiano a imbarcarsi per le Indie. Nella prima spedizione dell’anno anteriore erano presenti altri due italiani: il genovese Giacomo Ricco (Jacome Rico) e un tale Antonio Calabrese, marinaio il cui cognome indicava la provenienza calabra. Di quest’ultimo non si sa quasi nulla, mentre del genovese è noto il triste destino. Ucciso da due compagni per futili motivi, Rico detiene il poco invidiabile primato di essere il primo cristiano a morire nel nuovo continente. Michele Da Cuneo tocca terre americane nei primi giorni del novembre 1493, quando la spedizione giunge alle Antille Minori. Colombo, in segno di amicizia, battezza con il nome di Bella Saonese, l’isola che ancora oggi conosciamo come Saona, sulla punta orientale dell’attuale Repubblica Dominicana.

Uno sguardo al Nuovo Mondo. Da Cuneo viene citato come una delle fonti più autorevoli per definire l’origine di Colombo (“poi che Genoa è Genoa, non è nato uno homo tanto magnanimo et acuto del facto del navicare como il dicto signor armirante” sostiene) e viene ricordato soprattutto per la “Lettera a Gerolamo Annari” (Aimari), diario del suo viaggio americano, che supplisce alla mancanza di qualsiasi testimonianza scritta di Colombo a proposito della seconda spedizione. La relazione del mercante è importante perché è una descrizione disincantata, spesso cinica, che non deve convincere nessuno. È un reportage rinascimentale, insomma, e come tale è permeato da tutti i pregiudizi dell’epoca. Da Cuneo non si lascia abbagliare dal mito del buon selvaggio o dai fiumi d’oro di cui si dice sia ricca la nuova terra. Per il savonese, gli indigeni non sono altro che merce, individui che non sanno “se fanno male o bene” e che, pertanto, si abbandonano a ogni sorta di bestialità: l’amore libero, la sodomia e il cannibalismo. Imbarcati per trasportarli in Europa, muoiono a decine e i cadaveri vengono gettati a mare: non sono uomini atti alla fatica, temono il freddo e hanno vita corta. Un affare poco redditizio, insomma. In quanto alla società indigena, il mercante ha il tempo di annotare: “Le femine sono quelle che fanno tutto; li òmini solo attendeno a pescare e a mangiare”.

Colombo, a un certo punto, gli regala “una Camballa belissima”, una cannibale, della quale il savonese approfitta sessualmente. Senza peli sulla lingua, racconta la sua “conquista”: l’indigena non ne vuole sapere di giacere con lui, è una furia e si difende con le unghie. Da Cuneo, allora, prima la fustiga e poi la stupra, restandone pienamente soddisfatto: “nel facto parea amaestrata a la scola de bagasse” scrive.

È intrigato dai cannibali, i veri dominatori di quei luoghi. Le comunità pacifiche sono sempre in pericolo a causa degli antropofagi che compiono razzie, distruggono i villaggi e divorano le persone (con predilezione per gli uomini, più saporiti). Hanno grandi archi, che ornano con piume di pappagalli. Sono forti rematori e guerrieri temibili anche per gli europei.

Quello descritto da Da Cuneo non è il paradiso e non è neanche l’eldorado: gli spagnoli sono ossessionati dall’oro che non trovano, l’entusiasmo suscitato dal viaggio scema con il passare del tempo e con il ritrovamente dei cadaveri dei 39 compagni lasciati in avanscoperta l’anno anteriore. Da Cuneo descrive gli spagnoli in maniera dispettiva: “mentre Spagna sarà Spagna, non mancheranno traditori” annota, parteggiando ovviamente per il connazionale Colombo, ostile a gran parte della spedizione.

Non c’è incontro, ma scontro e allora Da Cuneo si concentra alla parte che più gli interessa dell’avventura: la descrizione naturalistica. È il primo occidentale a descrivere il mais (“non è tropo bono per noi”) e a spiegare come si produce il pane dalla manioca. Allo stesso modo, dà notizie della fauna e della flora tentando di classificare la natura del tropico. Notizie, queste, che Da Cuneo offre non per dovere scientifico, ma per affanno mercantile, con il senso del capitalista che cerca di dare un valore commerciale a quanto sta vedendo per la prima volta.

Con il suo estremo realismo, Da Cuneo descrive le Indie dalla posizione di potere del nuovo arrivato. Pur senza partecipare al successivo saccheggio, il savonese sa già come andrà a finire: gli indigeni sono pari agli animali, la brama per l’oro rovinerà vite e coscienze, il nuovo mondo è territorio da razziare. C’è poco da aggiungere sulla natura umana.

 

giovedì 13 gennaio 2022

L'avventura centroamericana di Giuseppe Garibaldi

Dietro l’abside della Cattedrale di Granada, in Nicaragua, diparte una viuzza di poche decine di metri, che unisce la famosa Calzada a la calle Caimito. Lì, incastonata tra le abitazioni curiali, v’è una modesta casetta in calce bianca che reca una targa: “Aquí en 1851 vivió Giuseppe Garibaldi”. All’epoca era una locanda, “La casa de la sirena” (e la via si chiama ancora così, calle La Sirena) proprietà di un francese e dovette essere ricostruita dopo l’incendio appiccato in città dal filibustiere William Walker nella guerra del 1856.

Garibaldi, quando giunge in Nicaragua, ha 44 anni. Proviene da New York, esule dalla sterile difesa della repubblica romana e dalla morte della sua compagna Anita durante la rocambolesca fuga tra le letali acque di Comacchio. Negli Stati Uniti era arrivato dal Marocco e aveva aiutato Meucci nella sua fabbrica di candele. Quel lavoro, però, non faceva per lui, si annoiava e alla prima occasione prese di nuovo il mare. L’opportunità gliela diede Francesco Carpaneto, amico che aveva armato un vapore e commerciava con il Centro e il Sudamerica. Il 28 aprile i due partono alla volta del Perù, ma ci metteranno mesi ad arrivare. Decidono, infatti, di piazzare alcuni prodotti italiani, importati da Carpaneto, alla Fiera di San Miguel nel Salvador e come base decidono di sistemarsi nella vicina Nicaragua. I due italiani sbarcano a San Juan de Sur il 14 maggio 1851 e prendono alloggio a Granada, nella casa dietro la Cattedrale. Qui rimangono una quindicina di giorni, dal 26 maggio al 12 giugno per poi ritornare più volte durante le peripezie centroamericane. Garibaldi ha l’occasione di visitare altre località del paese: Masaya, León, Chinandega ed El Realejo. Ovunque vada lascia una testimonianza della sua operosità. A Masaya partecipa come muratore alla riparazione di una casa; nella comunità indigena del Monimbò si intrattiene a dare consigli per la costruzione di cesti con una fibra locale, la cabuya; a Granada offre i suoi consigli per installare una fabbrica di candele. Ha pure il tempo di fare la conoscenza di una ricca vedova, la signora Mantilla, con cui si intrattiene più del dovuto.

A Chinandega, il diplomatico britannico John Foster lo incontra e poi scrive al console generale del Centroamerica: “è molto modesto, con un grado estremo di semplicità”. Durante il suo soggiorno si svolge anche uno dei tanti colpi di Stato nel Nicaragua dell’epoca, avvenimento che, però non perturba Garibaldi: i golpisti, infatti, sono giacobini e vedono nel nizzardo un eroe. Garibaldi amava Granada, la cui Calzada defluiva dolcemente verso il grande lago, proprio perché la città gli ricordava un porto di mare. Tentò anche di farsi assumere come capitano del traghetto del Cocibolca, ma il vescovo di León oppose il proprio veto.  

Pur non essendoci testimonianza scritta, è quasi sicuro che Garibaldi approfittò del soggiorno nicaraguense per recarsi a Puntarenas, in Costa Rica, per visitare Giovanni Battista Culiolo, il maggiore Leggero che lo aveva accompagnato nelle peripezie della fuga da Roma ed era stato testimone della morte di Anita nelle valli di Comacchio. Culiolo, lasciata Tangeri, dove era riparato assieme a Garibaldi, aveva scelto di tentare l’avventura in Centroamerica. Stabilitosi in Costa Rica, troverà anche il tempo pochi anni più tardi, di arruolarsi nell’esercito tico per combattere il mercenario William Walker, una decisione che gli costerà il braccio destro, amputato da una cannonata nemica.

Intanto, gli affari con El Salvador non procedono. Garibaldi a metà agosto annuncia che lascerà il Centroamerica per il Perù e, in effetti, il 2 settembre si imbarca con l’amico Carpaneto. Di tutta questa attività, risalta che Garibaldi non ne faccia quasi menzione nelle sue “Memorie” (“In Granada stettimo pochi giorni - e vi fummo accolti gentilmente da alcuni Italiani ivi stabiliti”). Quanto è stato tramandato, infatti, proviene dalla storiografia locale che è invece provvida di dettagli. Garibaldi (che in quel viaggio si faceva chiamare Giuseppe Pane o Ansaldo, “per scansare curiosi e molestie poliziesche”) tratta la parentesi centroamericana con poche righe, ricordando però come, nel viaggio attraverso Panama si ammali di dengue: “In codesto ultimo viaggio, io fui assalito dalle terribili febbri endemiche in quel clima ed in quel paese seminato da paludi. Esse mi colpirono come un fulmine e mi prostrarono - Io, non fui mai, così abatutto dal male come in quell'epoca - e se non avessi avuto la fortuna di trovare degli eccellenti Italiani - tra cui due fratelli Monti - a Panama - e vari buoni Americani - io credo non mi sarei liberato dal morbo”. Insomma, il nostro eroe rischia di morire e l’Unità d’Italia di arenarsi nelle paludi panamensi.

martedì 21 dicembre 2021

La fine ingloriosa del Chupacabras

Che fine ha fatto il Chupacabras? L’essere dai tratti vampireschi che sembrava uscito da un bestiario medievale aveva fatto la sua apparizione del 1995 a Porto Rico per poi percorrere buona parte del Messico e del Centroamerica terrorizzando chiunque al suo passaggio. Bipede, alto 1.20-1.50 metri, dai lunghi artigli e la schiena solcata da aculei, il Chupacabras prese il nome dal sangue che succhiava, proprio come un vampiro, dal collo di animali di bestiame, come capre, pecore, mucche. Un mostro svanito nel nulla all’improvviso, proprio come all’improvviso si era manifestato.

Il Chupacabras appare a fine millennio, creatura replica degli esseri mostruosi che avevano alimentato la fantasia popolare in vista dell’anno Mille. Il Liber monstrorum de diversis generibus redatto da un anonimo cronista della corte di Carlo Magno aprì lo scrigno che conteneva questi mostri che popolavano i boschi, i mari, le notti, ma soprattutto la fantasia dell’uomo medievale. Gli ippocentauri, gli epistigi, le donne con la coda bovina e le zampe da cammello, creature fantastiche zoomorfe o ibride erano arrivati per alimentare le paure dell’uomo medievale. La stessa Bibbia venne presa come testo imprescindibile sul tema: il basilisco, il Behemoth, il Leviatano, il drago dalle sette teste dell’Apocalisse erano creature vivide e veritiere, pronte a castigare il singolo o l’umanità intera. A partire dalla redazione del Liber monstrorum, la presenza di questi esseri mostruosi venne associata al Male, al Demonio che si manifestava in varie forme per avvertirci che la fine era vicina.

I diffusi terrori della fine del millennio (il “Mille o non più mille” di fama rinascimentale) partoriti da un’epoca dalla percezione limitata del mondo, dovevano però riapparire anche in prossimità del nuovo cambio di calendario. La follia millenarista, nonostante i dieci secoli in mezzo, è tornata a creare teorie cospirative e mostri per giustificare la fine del mondo prossima ventura. Il calendario Maya, i suicidi di massa che si sono succeduti prima del 2000, il bug del millennio rientravano nello stesso universo immaginario che nel mondo latinoamericano generò il Chupacabras. 

Come le creature fantastiche sorte in vista dell’anno Mille, il Chupacabras è diventato in poco tempo un segno della fine dei tempi, delle tragedie che ci aspettavano in vista del Duemila. Nell’epoca dell’Internet la fama della bestia, che alcuni indicavano anche come creatura aliena, si è diffusa a grande velocità. I suoi avvistamenti sono avvenuti un poco ovunque (in ogni angolo d’America, dal Maine al Cile, con gite fuori porta nelle Filippine, in Ucraina e in Russia) a testimonianza della follia collettiva che, grazie alla rete, si era impossessata di migliaia di persone. Il Chupacabras era apparso per terrorizzare, punire, mortificare l’umanità. Si aspettava che in qualsiasi momento la sua peculiarità vampiresca passasse dagli animali al genere umano, magari accompagnato da qualche rapimento su navi aliene.

Invece, il fenomeno, un fiume in piena in prossimità del 2000, si è sgonfiato mano a mano che siamo entrati nel millennio. Il Chupacabras, passata la moda millenarista, sparisce. Qualcuno, però, si prende la briga di studiare da un punto di vista scientifico il fenomeno. Si trovano almeno dodici cadaveri di Chupacabras e si mandano ad analizzare. Il Dna è impietoso. I resti della creatura soprannaturale appartengono a cani selvatici e a coyote, resi irriconoscibili dalla scabbia che li affliggeva. La totale assenza di sangue nelle vittime, il tipo di morsi, ogni dettaglio coincide con la più mediocre investigazione sui comportamenti animali. Se solo ci fossimo informati un po’ di più... Le teorie millenariste sono naufragate miseramente, ma poco male. Archiviate quelle esoteriche, in attesa del prossimo cambio di calendario, gli amanti delle teorie hanno trovato di che alimentare la propria vivida fantasia abbracciando con convinzione quelle cospirative. Ergo, le bufale sul Covid 19 prospereranno almeno per tutto il decennio.

martedì 7 dicembre 2021

La perversa inclusione dello schwa

Una lingua deve assoggettarsi alle aspirazioni individuali o di categoria? Da quanto ne so, la lingua è un bene comune, appartiene a tutti e non è a disposizione di un singolo gruppo. La volontà di introdurre il simbolo ə (lo schwa, come si ostinano a chiamarlo i suoi sostenitori, lo scevà se vogliamo parlare italiano) risponde, secondo i suoi simpatizzanti, alla necessità di fare dell'italiano una lingua inclusiva. La ragione? Evitare il predominio del genere maschile. 

Questa forzatura pensata a tavolino (nell'italiano c'è tutto, basta sforzarsi a usarlo) ha poco da spartire con le esigenze della lingua. Parte dalla premessa di una sofferenza (quella vissuta da certe categorie di persone) per imporsi come modello politico. Ma la lingua viene decisa dai parlanti -tutti noi che generiamo l'italiano standard- e non da un gruppo di persone. L'operazione puzza. Intanto, lo scevà non è un grafema della lingua italiana (deriva dall'ebraico) e non corrisponde a un suono dal valore distintivo. 

Su MicroMega ci ricorda Cecilia Robustelli, che insegna Linguistica all'Univeristà di Modena: "la desinenza maschile e quella femminile ci dicono soltanto che il riferimento è a una persona di sesso maschile o femminile, e non danno alcuna indicazione sulla sua identità di genere". Allora, perché insistere su questo simbolo? A prendersela con l'italiano è stata qualche mese fa Michela Murgia, che di mestiere fa la scrittrice e che, di conseguenza, i suoi libri oltre a scriverli deve anche venderli. In occasione del suo ultimo lavoro è stata lei a dare visibilità allo schwa con un articolo sull'Espresso ricco di espressioni come nessunə, tuttə, convintə e così via. L'artificio è valso i complimenti del solito pubblico belante entusiasta delle novità inclusive, che purtroppo brilla spesso per superficialità. L'equivoco creato dalla Murgia sullo schwa è pretestuoso e merita la critica: genere e sesso, infatti, non sono la stessa cosa nemmeno in grammatica.

Le mode, però, piacciono. Pensate allo strapotere dell'inglese nel nostro parlato o a come ci piace vantarci di sentimenti probi. Sono le crociate del nostro tempo, che hanno nell'intellighenzia radical statunitense il modello a seguire. Anche in Europa si vuole imporre la modalità "woke" a ogni campo e a ogni costo e la lingua non viene certo risparmiata. Si dimostra come, invece di inclusione, si stia dando libero sfogo a una volontà settaria di distruggere i valori di un'intera civiltà. Si smantella la lingua per abbattere la società (prendete, per esempio, l'introduzione del pronome "iel" nel francese), si fraintende la storia a proposito rivoluzionando i nostri punti di riferimento. La lingua, in fondo, non è solo un mezzo di comunicazione, ma contiene i valori essenziali di una cultura. Sovvertendoli, si perde la propria identità.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...