martedì 24 ottobre 2023

Cinquanta anni fa, l'Austerity

 


Era l’autunno di cinquanta anni fa quando il telegiornale diede la notizia che la domenica si sarebbe andati a piedi. Macchine, motorini, autoarticolati sarebbero rimasti fermi. La ragione? La crisi energetica. Spiegato un po’ meglio, i paesi arabi produttori di petrolio decisero di ricorrere all’embargo verso l’Occidente come ritorsione su quanto successo nella guerra del Kippur. Le operazioni militari si erano esaurite il 25 ottobre 1973, ma gli italiani si trovarono sul groppone l’ingombrante pacchetto di drastiche misure un mese e mezzo dopo.

Così, il 2 dicembre 1973 ci dissero che dovevamo andare a piedi. Era la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che succedeva una cosa simile, un provvedimento sconosciuto alle entusiaste generazioni nate negli anni Cinquanta e Sessanta. E non solo dovemmo andare a piedi, ma anche sopportare la chiusura anticipata di bar, negozi e cinema; stare quasi al buio, visto che l’illuminazione delle città venne ridotta del 40%; pagare di più la benzina e tutti i suoi derivati. La pena? Multe salatissime che andavano dalle centomila lire al milione di lire, oltre al sequestro immediato della vettura.

Venne subito coniato (meglio detto, scopiazzato) un vocabolo per quel contesto, inglese ovviamente: austerity. I britannici l’avevano usato per indicare le rigide misure innescate nel secondo Dopoguerra per salvare la loro economia, noi lo adottammo per non sentirci inferiori agli abitanti d’Albione e, soprattutto, per affermarci nel contesto internazionale. L’austerity definì un cambio culturale. Al momento, neanche ce ne accorgemmo, ma il divieto di circolare spinse milioni di italiani a riappropriarsi della città. Si rispolverarono le biciclette soprattutto, ma non solo: pattinatori, maratoneti, camminatori, podisti, semplici pedoni si appropriarono di quegli spazi che erano stati intasati per anni dalle automobili e avevano reso l’aria irrespirabile e i centri storici invivibili. Quelle domeniche anticiparono il recupero del tessuto urbano che sarebbe diventato processo inalienabile nel decennio successivo.

Al momento, non eravamo di quell’avviso. Non avevamo il dono della chiaroveggenza e sentivamo che il governo, con quel provvedimento, aveva tolto alcuni diritti sacrosanti all’italico bel vivere: le gite fuori porta, i pranzi in trattoria all’aperto, i pic nic sui prati e le partite di calcio improvvisate sui campetti di provincia divennero attività interdette.  Riversarsi in città divenne quindi uno sfogo naturale, ma anche una specie di vendetta. Il pallone invase le piazze e le piazzette, i bar si mutarono in trattorie e misero i loro tavolini nel mezzo di viali e corsi, le famiglie stesero le tovaglie sulle aiole dove consumare panini e insalate. In quel furore creativo anche il presidente della Repubblica, l’ineffabile Giovanni Leone, trovò la maniera di ergersi a primo degli italiani in quanto a fantasia, recuperando dalle rimesse del Quirinale una carrozza a cavalli che usò per partecipare alla cerimonia dell’Immacolata Concezione. Andò avanti fino all’aprile 1974, quando il provvedimento venne sostituito da quello delle targhe alterne e quindi le misure furono abrogate definitivamente nel giugno seguente. Le città, però, a partire da quel momento non sarebbero state più le stesse. 


lunedì 9 ottobre 2023

Il caso Calvino: un intrigo internazionale

Cento anni fa, il 15 ottobre, nasceva Italo Calvino, un anniversario che –per fortuna- in tanti si stanno apprestando a celebrare. Il grande scrittore era figlio di Mario, agronomo e giornalista e di Eva Mameli, botanica, prima tra le donne in Italia a ottenere una cattedra universitaria in questa materia. Al tempo della nascita del loro primogenito erano a Cuba, uno a dirigere una stazione per la coltivazione della canna da zucchero, l’altra per acquisire esperienza nel campo delle piante tropicali. Calvino nasce a Cuba per caso e l’isola caraibica è un luogo di cui non ha ricordi. È sanremese a tutti gli effetti, come gli piaceva sottolineare quando gli si chiedeva dei suoi natali. Chi invece vantava una stretta relazione con l’America Latina era il padre Mario, che approda in Messico nel 1909 su invito dell’ambasciatore messicano in Italia, Joaquín Casasús. A Calvino senior viene offerta la Divisione di orticoltura del Ministero di agricoltura. L’offerta messicana cade a pennello: Mario ha tutto l’interesse di cambiare aria, di sparire. Il suo nome, infatti, è stato associato a un fallito attentato contro l’imperatore russo Nicola II.

Per tutto il 1908, sui giornali europei si parla del “caso Calvino”. Ma cosa è successo? Il 21 febbraio di quell’anno, appare la notizia che lo zar Nicola II e il suo ministro Siceglovilof sono scampati a un attentato. La polizia, prontamente intervenuta, è riuscita ad arrestare i cospiratori, tra cui spicca un giornalista italiano che risponde al nome di Mario Calvino. In Italia la notizia si diffonde rapidamente e si chiede al Ministero dell’Interno di fornire informazioni sul sedicente attentatore. Intanto, la sinistra socialista si mobilita per esprimere solidarietà al compagno arrestato in Russia mentre l’ordine dei Giornalisti cerca di scavare nella carriera del collega. Una settimana dopo, la Corte Marziale russa condanna a morte Calvino, esecuzione che deve avvenire nell’arco di tre giorni. Un appello dei giornalisti italiani viene inviato al Presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, perché intervenga a favore del compatriota. Il 29 febbraio l’ambasciatore italiano riesce a incontrare Calvino in carcere. Si salutano in italiano, ma poi parlano in russo. Calvino mostra il suo passaporto italiano, la qualifica di giornalista e chiede al nostro delegato di fare pressioni perché la sua condanna venga sospesa. Niente da fare: Calvino viene impiccato quella stessa sera assieme ai suoi complici.

Il giorno dopo, però, a Sanremo salta fuori il vero Mario Calvino. Fa l’agronomo di professione, ha 33 anni, l’aspetto mite. Viene subito convocato in questura. Qui, racconta una storia che pare inattendibile: in sostanza, dice di aver incontrato in treno un misterioso e facoltoso russo, mai visto prima, che, durante una chiacchierata l’ha invitato a impiantare una vigna nei suoi terreni. Calvino racconta di aver accettato e quindi di aver richiesto alle autorità il passaporto per poter viaggiare, passaporto che però, in un successivo incontro, il sedicente russo gli ha sottratto.

Il questore non gli crede: “le dichiarazioni del professor Calvino appaiono inverosimili” scrive. Poi, da Berna giunge una soffiata: la comunità russa di questa città afferma che Calvino e altri italiani hanno consegnato spontaneamente i propri passaporti a diversi rivoluzionari. E salta fuori il nome del giustiziato: si chiamava Vsevolod Vladimirovic Lebedintzev e faceva l’astronomo. Il mistero si infittisce e si indaga su Calvino che risulta essere il venerabile maestro della massoneria di Porto Maurizio, parte dell’attuale Imperia. Secondo la polizia “sembrerebbe evidente com’egli si sia fatto rilasciare, or sono due anni, quel documento all’unico scopo di rimetterlo al collega rivoluzionario onde porlo in grado di rientrare in Russia fingendosi di nazionalità italiana. Il ritratto di Mario Calvino che fanno i giornali è ora quello di un socialista e massone dalle simpatie anarchiche. A questo punto l’agronomo, non rimane con le mani in mano. Va diverse volte a Roma dove incontra vari esponenti politici e perfino il Ministro degli Esteri, Tittoni, incaricato di firmare il trattato italo-russo. Cosa si dicano, non si sa. Di certo, Calvino viene a conoscenza delle informative dei servizi segreti sulla sua persona e decide di abbandonare l’Italia accettando la proposta dell’amico messicano. In Messico Calvino ci rimarrà fino al 1917, offrendo anche i suoi servigi alla rivoluzione di Pancho Villa, per poi emigrare a Cuba assieme a Eva Mameli, che aveva sposato durante un suo breve ritorno in Italia.

Italo Calvino manterrà riserbo per lungo tempo sulla figura del padre. Si ha una lontana dichiarazione del 1960 in cui dirà a “Il Paradosso”, rivista di cultura giovanile: “Mio padre, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano”. Nessuna parola sullo scandalo, appena un accenno a una vita movimentata. Nel 1960 quella del padre è già una figura lontana che si perde nella distanza sia storica che affettiva.

giovedì 24 agosto 2023

"La ira en el manglar": una novela para el medio ambiente

Uruk Editores publica, en ocasión de la Feria Internacional del Libro de San José, mi nueva novela “La ira en el manglar”. Otra vez me encuentro a incursionar en la novela negra, con una diferencia que considero importante y que difiere del clásico desarrollo en este tipo de narración. Por lo general, estas novelas cuentan de personajes y hechos que son el resultado de la ciudad y de sus neurosis. En cambio, “La ira en el manglar” se desarrolla en una pequeña, remota, aldea del sur de Costa Rica, un lugar donde la vida cotidiana está marcada en cada momento por la presencia del manglar. Lugar sagrado por los indígenas, riqueza que se presta para la explotación a los ojos de los forasteros, el manglar es un mundo aparte, que encierra secretos. También, es el terreno donde chocan dos culturas, dos diferentes maneras de entender la naturaleza: por un lado, hay el respeto e inclusive el temor de ofender nuestro origen primigenio; por otro lado, encontramos el afán de la destrucción, de reputar toda expresión de nuestra Tierra exclusiva apropiación del ser humano. De esta dicotomía nace la historia de “La ira en el manglar”, donde la defensa de un territorio se convierte en un conflicto personal y cultural. El medio ambiente surge como centro de la novela y este contexto nos invita a formularnos la pregunta hasta donde llegan la frontera moral y la justificación a ciertos actos de los protagonistas, si hay coherencia en las extremas consecuencias por la defensa de la naturaleza.

“La ira en el manglar” se presenta sábado 26 de agosto en el stand de Uruk Editores, Feria Internacional del Libro, en el centro de eventos Pedregal de 2 a 4pm.



Uruk Editores pubblica, in occasione della Feria Internacional del Libro de San José, il mio nuovo romanzo “La ira en el manglar”. Si tratta di un altro incontro con il genere noir, con una differenza che reputo importante e che differisce dalla trama classica di questo tipo di narrazione. In genere, questi romanzi parlano di persone e di fatti che sono il risultato della città e delle sue nevrosi. “La ira en el manglar”, invece, è ambientata in un piccolo, sperduto, villaggio del sud della Costa Rica, un luogo la cui vita è segnata in ogni suo momento dalla presenza di un estuario. Luogo sacro per gli indigeni, ricchezza da sfruttare per i forestieri, l’acquitrino è un mondo a sé, che racchiude segreti. È anche il terreno dove due culture, due maniere differenti di intendere la natura si scontrano: se da una parte c’è il rispetto e anche il timore di offendere la nostra origine primigenia, dall’altro c’è l’affanno alla distruzione, a reputare ogni espressione della nostra Terra a uso e consumo dell’essere umano. Da questa dicotomia nasce la storia di “La ira en el manglar”, dove la difesa di un territorio si tramuta in un conflitto personale e culturale. L’ambiente sorge come centro del romanzo e questo contesto ci invita a porci la domanda di fino a dove possono spingersi la frontiera morale e la giustificazione a certe azioni dei protagonisti, se c’è coerenza nelle estreme conseguenze a difesa della natura.

sabato 19 agosto 2023

Scrivere a mano, andare piano

Una volta scrivevamo a mano. E non era nemmeno troppo tempo fa. Lo stile di scrittura era qualcosa che si curava, a cominciare dagli esercizi di “bella calligrafia” che la maestra ci propinava a partire dalla seconda elementare, comminati con regolare scadenza settimanale. Questo perché scrivere bene, e soprattutto scrivere in maniera comprensibile, definiva la personalità di ogni individuo nella sua futura età matura. Non si trattava della conseguenza di un retaggio (nell’800 il tipo di scrittura veniva imposto e doveva perfino adattarsi al tipo di professione svolta da una persona) ma di una buona pratica, un’attività capace di stimolare il nostro cervello. Allora, si scriveva con la penna stilografica e bisognava munirsi di carta assorbente nel caso, non improbabile, che gli sbuffi di inchiostro potessero macchiare il nostro foglio. Gli errori non erano permessi, a costo di lasciare macchie strepitose che valevano i rimbrotti della maestra e un po’ di personale, sana, stizza. 

Una piccola arte, insomma che ci insegnava a non essere maldestri e ad abituare la nostra materia grigia ad abbinare le parole scritte alle immagini vive. Soprattutto, ci permetteva di pensare e di concentrarci. Nel mio caso, un’abitudine che continua ancor ora, eredità di un’epoca dove la tecnologia si limitava alla televisione in bianco e nero e al telefono a cornetta. Sulla mia scrivania veleggiano ancora decine di fogli riempiti rigorosamente a matita con idee, riflessioni, calcoli, numeri di telefono, trame, indirizzi.

La tastiera e lo schermo, pratici e funzionali quando si tratta di ridurre i tempi, hanno un limite: sono freddi e impersonali. Scrivere a mano, invece, alimenta la fantasia. E la fantasia ha bisogno di essere curata, necessita di tempo e dedizione. Se ne trova riscontro quotidiano nelle vacillanti composizioni di ragazzi e ragazze che hanno sviluppato l’estensione e la velocità dei pollici a scapito delle capacità espressive. Insomma, il processo cognitivo si è arenato, la scarsa connessione neuro cerebrale non è un mito. Le conseguenze, ossia le carenze espressive e linguistiche, sono lì, a disposizione e a vista di tutti sul foglio di carta, virtuale o reale che questo sia. Pensare costa fatica. Per questo è stato inventato il “copia e incolla” e ora, come scorciatoia a ogni operazione cognitiva, l’intelligenza artificiale.

Chi scrive a mano è una specie in via di estinzione e lo dimostra anche il progetto di legge presentato e approvato alla Camera lo scorso maggio per istituire la “giornata nazionale della scrittura a mano”. Secondo il calendario internazionale, sarà il 23 gennaio, giorno di nascita di John Hancock, primo firmatario della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. E pure su questa scelta ne avremmo da ridire, a partire dall’unico, poverissimo, contributo del mercante Hancock su questo tema: una firma. Ma mi fermo qui. 

martedì 13 giugno 2023

Il berlusconismo e la rinuncia alla scuola

Muore Berlusconi e via, subito viene avviato il cerimoniale agiografico in sua memoria. Tante lodi e poche critiche. Amante del calcio e del suo Milan, non lo era di certo della cultura e dell’istruzione. La riforma Gelmini (ma prima c’era stata già la Moratti), varata dal quarto governo Berlusconi, è stata una manovra che ha imposto un impudico taglio finanziario a quanto di più prezioso possa avere un Paese, ossia l’educazione della propria gioventù. Il provvedimento - pensato a tavolino con l’altro ministro Tremonti - mandò a casa migliaia di insegnanti, ridusse le ore d’insegnamento settimanali, accorpò le piccole scuole (più di duemila) a centri più grandi e quindi più caotici, ridicolizzò la scuola professionale e tecnica, smembrò e delegò funzioni, tagliò 8000 milioni di euro all’istruzione per tre anni e poi altri 3000 milioni per quelli seguenti. Questo il macropanorama: nel dettaglio, fece anche sparire la carta dalle scuole, da quella da usare ai cessi, a quella per le fotocopie. Una riforma d’autore, firmata da una che sta ancora cercando il tunnel che collega il Gran Sasso con il Cern di Ginevra.

L’eredità della riforma è stato il baratro. La conseguenza più grave è stata quella di aver aperto una breccia educativa generazionale che si è ampliata con i governi successivi, dalla “Buona scuola” di Renzi agli incoerenti tentativi dei suoi successori. I risultati? Oggi, più di uno studente su due della scuola superiore prende ripetizioni e arriva all’università impreparato. Le prove Invalsi del 2023 hanno dimostrato che il 48% degli studenti giunge all’ultimo anno delle Superiori in carenza rispetto al livello base di preparazione, con la percentuale che si aggrava mano a mano che si scende verso sud (il 70% degli studenti meridionali non compie con i requisiti minimi nello studio della matematica). Sulla lingua straniera si stende invece un velo pietoso, quasi nessuno sa esprimersi in inglese. Inoltre, in soli quattro anni si sono persi dieci punti percentuale. Ignoranti e sempre più ignoranti, insomma. Andiamo all’università. Prova di ingresso a Medicina lo scorso settembre: è rimasto fuori il 50% dei candidati (ci sono domande di biologia, fisica, chimica, matematica e logica). Il 7%, poi, abbandona gli studi universitari il primo anno. La quota di laureati è al 21% (in Costa Rica siamo al 23%), fanalino di coda tra i paesi europei.

Abituati al copia e incolla da Wikipedia o ai nuovi Bignami digitali (e ora facile preda dell’intelligenza artificiale), i nostri studenti annaspano in una scuola che non dà riferimenti, inseriti in una struttura che, invece di essere salda, si ritrova a essere un cantiere aperto, con regole frammentarie che cambiano a seconda della stagione politica. Se a pensare male ci si azzecca, la riflessione dello storico Francesco De Sanctis (“un popolo ignorante non ragiona, ubbidisce”) calza a pennello su quelli che sono i pilastri del berlusconismo.

lunedì 29 maggio 2023

Lo spirito oscuro di Pinocchio

“E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. Cosa sarebbe successo se il finale di Pinocchio sarebbe rimasto questo, quello di un disonorato burattino morto stecchito, impiccato alla Quercia grande?

Ci saremmo trovati di fronte a un grande romanzo gotico, erroneamente rivolto ai bambini. I primi quindici capitoli di “Storia di un burattino” pubblicati nel 1881 scorrono verso il finale inevitabile, la morte del suo protagonista. L’intenzione di Collodi è quella sin dall’inizio. Basta soffermarsi sui dettagli. L’ambiente solare della campagna toscana viene offuscato dai toni cupi dell’intera novella: la casa di Geppetto “pigliava luce da un sottoscala” e quando Pinocchio ci si ritrova solo tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco”. Quando il burattino deve andare a scuola ha nevicato tutta la notte. Più tardi Mangiafoco “Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”. Il Grillo Parlante, ucciso con una martellata, riappare come un’ombra lugubre. Nell’ultimo capitolo originale Pinocchio, inseguito nella foresta dal Gatto e la Volpe sembra trovare un’inattesa salvezza: la luce di una casina suggerisce al lettore che Pinocchio si sottrerrà ai malviventi. Invece, la scena che si presenta davanti fa rabbrividire:

... Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

-In questa casa non c’è nessuno; sono tutti morti.

-Aprimi almeno tu!- gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

-Sono morta anch’io.

-Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

-Aspetto la bara che venga a portarmi via”.


È il preludio al finale. Il bosco, la selva oscura che fa ricordare Dante sulla soglia dell’inferno, è l’anticamera del regno dei morti dove la bambina appare a Pinocchio come uno spirito guida che lo porterà nell’aldilà. Subito, il burattino ribelle, che era stato ammonito all’inizio della storia dal Grillo Parlante (“i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo”), viene preso per il collo dai suoi carnefici e sacrificato.

La storia doveva finire qui. Era il 17 ottobre 1881, ma le proteste dei piccoli lettori e del suo stesso editore, costrinsero Collodi a riprendere la narrazione e a portarla a termine due anni dopo. Non senza, però, essere obbligato ad alcune evidenti forzature, prima fra tutte la trasformazione dello spirito della bambina nella Fata Turchina. Nella seconda parte Pinocchio vive una serie di avventure, alcune anche inquietanti, ma che si muovono sul piano, appunto, dell’immaginario fiabesco, una specie di sogno angosciante da cui ci si aspetta che si svegli da un momento all’altro. E infatti, ecco il finale felice: a vincere è il lettore. Collodi, però, vuole lasciare una firma beffarda su quel finale, tre punti di sospensione: “Com’era buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!...”. Pinocchio –ci vuol dire Collodi, piccato per la riscrittura del romanzo- ci sta prendendo in giro: un ragazzino perbene non lo sarebbe mai diventato.


lunedì 3 aprile 2023

Vietato parlare di pace

“Il robot bomba distrugge la postazione russa”, “I nostri soldati resistono ed eseguono la loro missione: uccidono”, “Proveremo i proiettili all’uranio”, “Non c’è spazio per i negoziati”, “La Polonia vuole più armi”. Titoli di guerra, sempre in prima pagina, pane quotidiano che entra nelle nostre case ad avvelenarci la coscienza. Le immagini ci fanno entrare nel carro armato che scoppia, nel fango delle trincee, ci fanno seguire il tracciato dei missili che abbattono gli elicotteri. Giorno dopo giorno i quotidiani italiani ci assuefano alla guerra. Video, articoli, editoriali, interviste. Da quando è scoppiata la crisi in Ucraina, i giornalisti della stampa e della radio televisione ci spiegano ogni giorno quanto la guerra sia necessaria. In questo contesto, dove è stato scelto per noi chi sia il cattivo e chi il buono, la parola “pace” è scomparsa, al punto da sembrare una vergogna citarla. Chi detiene il potere ha deciso. Eppure sono passati appena venti anni da quando, il 15 febbraio 2003, più di 110 milioni di persone scesero in piazza per dire basta al conflitto in Iraq. Il movimento, denominato dal New York Times come la “seconda potenza mondiale”, si era prefisso il compito di mettere la guerra fuori dalla storia. Una narrazione bellissima, romantica, idealista. Possibile, ma sfumata nel tempo, dissoltasi nell’aria come i petali prematuri del dente di leone.

Il movimento pacifista interpreta, dopo poco più di un anno di conflitto in Ucraina, il sentimento della gente comune, un sentimento nobile e fiero, di chi chiede di deporre le armi, di chi ripudia l’escalation. È un movimento, però, debole, che non riesce a far sentire la propria voce per un semplice motivo: non ha cassa di risonanza. Si può intuire perché. L’informazione che ci viene somministrata ha lo scopo ben preciso di divellere le basi della cultura di pace, ridicolizzando la tolleranza, la solidarietà tra i popoli, la fratellanza. I giornali, le televisioni che ci vendono le loro verità sono guerrafondaie. Sono la macchina di propaganda del bellicismo incosciente. Dobbiamo dire basta. Riporto l’intervento di Enrico Peyretti, che ho avuto l’onore e il piacere di aver avuto come insegnante ai tempi del liceo, che spero, serva a farci riflettere sulla china che abbiamo preso:

...Ogni guerra è intollerabile nemica della vita, di tutti, anche di chi la fa. Non c'è più nessuna guerra giusta, se mai poteva esserci in passato. La vittoria militare non porta diritto e giustizia, ma solo premia la maggiore violenza. Nessuna vittoria militare merita il prezzo del sangue umano, e delle sofferenze dei popoli. Non sono mai "eroi" gli uomini armati. La pace si deve fare ad ogni costo, con la parola e la politica, col disarmo, con la disobbedienza, pagando il prezzo necessario economico, politico, territoriale, deponendo ogni stupido orgoglio, come è necessario per vivere tutti degnamente. Alla guerra non si deve rispondere con la guerra, che non è difesa, ma imitazione di una logica pre-civile, pre-umana. Un popolo cosciente, unito, organizzato, difende il suo diritto solo se insabbia l'aggressore con la coraggiosa disobbedienza totale. Ogni potere esiste solo se è obbedito, se trova consenso. Disobbedire può costare qualche vita, ma con vero onore, mentre la guerra è sempre disonore. Non gli zar e i Napoleoni, ma Tolstoj e Gandhi sono i maestri della politica necessaria oggi. Imparate, stolti imperi Usa, Russia, Cina e servi vostri. Impara Europa, i tuoi Erasmo e Kant, che hai dimenticato!” (Enrico Peyretti).

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...