martedì 30 marzo 2021

Ditelo in italiano: l'attacco dell'inglese alla nostra lingua

È così difficile parlare in italiano senza fare un continuo ricorso a termini inglesi? Sembra di sì. A partire dai libri di testo che dovrebbero, per prima cosa, diffondere l’amore e l’interesse per la lingua italiana, l’invasione di costrutti importati è un fiume in piena. Per anni ho insegnato con l’ausilio di un testo che, al posto della parola “unità”, usava il termine inglese “step”, un obbrobrio. Come fai a insegnare l’italiano se perfino i libri di testo fanno un uso improprio di parole straniere? 

Perché usiamo i termini stranieri, in preponderanza inglesi? Per darci un certo tono, direbbe qualcuno, per darci l’idea di essere completamente inseriti in un contesto globale, che ci fa sentire al passo con i tempi e con le necessità di confrontarci in un mondo le cui distanze sono sempre più ridotte. La spiegazione è semplicista, ma in certi casi giustificabile. Siamo costretti a usare certi vocaboli per la mancanza di un reale corrispettivo nella lingua italiana (per esempio blog, da web log; o internet, abbreviazione di interconnected computer network), ma per il resto siamo liberissimi di usare il corrispondente italiano. Brand? Marchio. Team? Squadra. Preview? Anteprima. Stand by? In attesa. Crowd Founding? Raccolta fondi. Feedback? Riscontro. Headline? Titolo. Store? Negozio. C’è tutto, signori, nell’italiano. Altrimenti, ditelo a Dante, che si è sbattuto per trovare più di dodicimila vocaboli per darci una lingua. Senza contare, poi, che in moltissimi casi usiamo parole in inglese la cui radice è la stessa di quella che useremmo nel corrispettivo italiano. Facciamo anche qui alcuni esempi: location, corporate, community, competitor, dating, mass media. Basta solo fare lo sforzo e parlare (o scrivere) in italiano.

La ragione di tanta esterofilia c’è. Usiamo i termini inglesi perché la maggioranza degli italiani non conosce o non apprezza la propria lingua. Non conosce la storia e, di conseguenza, manca il senso di identità collettiva. La lingua, nel suo contesto, è appartenenza. La lingua definisce una nazione, la unisce, la rappresenta. Il continuo ricorso a parole straniere dimostra il distacco tra le persone e la propria cultura, un distacco che si va incrementando mano a mano che diventiamo più ignoranti. Quei sette italiani su dieci che soffrono di analfabetismo funzionale sono il termometro della mediocrità che, continuando di questo passo, affosserà la lingua.

Trovando pure degli alleati a livello istituzionale. La Treccani, per esempio, che sembra divertirsi nell’inserire settimana dopo settimana nel suo vocabolario parole straniere, come si trattasse di un gioco: mood, booster, playlist, flirtare, postcard, photoshoppare, lockdown, hard e soft skill, dog friendly, broadband, deepfake, easy e via così. Sono vocaboli nocivi che, come piante parassite, si attaccano al tronco della nostra lingua per asfissiarla e mangiarsela poco a poco.

I quotidiani? Lo stesso. Repubblica del 29 marzo, prendendo in esame solo i titoli: look, influencer, pressing, lockdown, expat, neet, home banking, red carpet, podcast, fashion, goal line, stage, smartphone, fellowship, last second, weekend, photoshop. Solo nei titoli. Invece di porre un freno, di difendere la nostra lingua, i giornali fomentano l’invasione.

In trincea rimangono gli insegnanti, alcuni intellettuali e l’Accademia della Crusca, che invita a frenare l’epidemia e lo fa con una frase che fotografa perfettamente lo stato delle cose: spesso, dietro il ricorso a una parola inglese, si nasconde il nulla.

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