martedì 13 luglio 2021

L'Inghilterra e quella bandiera affittata dai Genovesi

L’inno di Mameli e God Save The Queen. Il tricolore e la croce di San Giorgio. La finale dell’Europeo 2020 ha riproposto i simboli patri che, in situazioni più serie, spesso e troppo volentieri scompaiono bellamente. Ci ritroviamo italiani soprattutto se c’è da tifare i nostri beniamini sportivi ed in questa occasione mettiamo da parte i campanilismi e via, a spezzare questa volta la resistenza inglese. E tra i tormentoni prefinale, è venuto fuori quello riguardante la croce di San Giorgio, la bandiera inglese, che sarebbe originaria invece della Repubblica genovese. La sua storia, in alcune parti è risaputa, ma vediamo lo stesso di affrontarla per approfondirla.

La questione era stata proposta nel 2018, in maniera vernacolare, dal sindaco di Genova, Marco Bucci che chiedeva a Londra (che usa lo stesso vessillo) e all’Inghilterra di riprendere il pagamento, interrotto nel 1771, per i diritti della bandiera genovese affittata, sin dalla fine del XII secolo agli inglesi.

La croce di San Giorgio (“il salvifico vessillo della vera fede”, secondo il frate savonese Jacopo da Varagine che l’avrebbe per primo ideata) venne innalzata dalle truppe genovesi nella conquista di Gerusalemme nel 1099 durante la prima crociata. Furono infatti i liguri guidati da Guglielmo Embriaco a rompere l’assedio e a entrare nella città, sbaragliando gli avversari. Goffredo da Buglione, il comandante generale, pagò loro un esoso tributo (toccò a Embriaco scegliere il bottino) e fece incidere sull’architrave del Santo Sepolcro “Praepotens Genuensium Praesidium” ossia, che era stato riconquistato “grazie allo strapotere dei genovesi”. Inoltre, forse per scaramanzia o per riverire il valore dei genovesi, volle adottare il simbolo della croce rossa in campo bianco per tutti coloro che, dall’Europa si recavano in Terrasanta.

Genova a quei tempi era temuta sui mari. Siamo alla fine del XII secolo e la Repubblica ha rafforzato la sua presenza in Terrasanta. Ha ottenuto, inoltre, strategiche basi commerciali in Cilicia (l’Anatolia costiera), in Egitto, in Siria. In Spagna, toglie Almería ai Mori e si allea con Barcellona per dare inizio alla Reconquista. Le feluche musulmane si tenevano lontane quando incrociavano le galee genovesi e proprio questo rispetto spinse gli inglesi a mandare una delegazione a Genova per chiedere l’affitto del vessillo di San Giorgio. L’idea sembra venisse proprio da Riccardo Cuor di Leone, che si recò alle crociate su una flotta di galee genovesi e durante il viaggio potè notare l’immunità di cui disponeva l’armata della Repubblica. I genovesi, con il loro innato senso per gli affari, a quel punto diedero il permesso a cambio del pagamento di un tributo annuale. Un accordo ribadito secoli dopo da re Enrico V, come scrive Francesco Maria Accinelli nel 1776 nel trattato “Storie di Genova dalla sua fondazione”: “lo stesso re Enrico fece l’anno 1421 col duce Tommaso da Campofregoso quella solenne lega... registrata negli atti di Antonio Credenza, cancelliere allora della Repubblica: da quel tempo in appresso, hanno continuato gl’Inglesi comune lo stendardo di S. Giorgio co’ Genovesi”.

Gli inglesi usarono la bandiera di San Giorgio inizialmente come vessillo marinaro. Solo più tardi cominciò ad essere riconosciuta tra i simboli nazionali, fino a diventare nel 1801 parte dell’Union Jack che rappresenta la Gran Bretagna. La storiografia inglese, ovviamente, sebbene ammetta l’episodio di Riccardo Cuor di Leone (d’altronde l’invio della flotta di 80 galee al comando di Simone Vento e Marin di Rodano, ammiragli di Genova, è ben documentata), è restia a convalidare il resto della storia. Come si originò l’uso del vessillo di San Giorgio non sono in grado di spiegarlo e preferiscono mantenersi nel dubbio su una teoria franco-anglosassone piuttosto che avallare l’ipotesi genovese. Unica voce dissidente, quella dello storico Michael Collins che conferma nel suo “St. George in English History: The Making of English Identity”: “The English monarch paid an annual tribute to the Doge of Genova (Genoa) for this privilege”.

Da allora, la bandiera genovese (Genova la Dominante, ma anche la Superba come la chiamò Petrarca: “Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare) è stata adottata da un gran numero di stati e città. Tra di loro Londra, Milano, Barcellona, Melbourne, Montreal, Perth, Friburgo, la Georgia e alcune regioni come la Sardegna.

mercoledì 7 luglio 2021

Dalle stalle alle stelle, la musica porta Branson nello spazio

Dalle stalle alle stelle. È proprio il caso di dirlo, nell’osservare Richard Branson annunciare alla stampa che tra una manciata di giorni (l’11 luglio, probabilmente) la sua Virgin Galactic volerà nello spazio bruciando sul tempo l’altro concorrente, Bezos. Le stalle perché Branson ha dato vita alla sua fortuna cominciando da uno studio discografico, The Manor, una fatiscente costruzione nella campagna di Oxford dove le stalle certo non mancavano. Chi c’era negli anni Settanta, sa che la Virgin Records e il suo studio, le prime creature di Branson, erano sinonimo di qualità, con produzioni ricercate, complesse, perfino maniacali (Henry Cow, If, Magma, Kevin Coyne, Strawbs e soprattutto Robert Wyatt).

Eppure Branson, sempre pragmatico sin dagli esordi, non aveva alcun interesse nella qualità della musica. Non era un fanatico di rock, seguiva semplicemente l’onda e il suo innato senso per gli affari. Virgin Records (nome scelto per indicare la sua genuina incompetenza) nacque in quella maniera, con i talentuosi Simon Draper e Nik Powell ad interessarsi della musica, mentre Branson pensava alla cassa. I direttori artistici propendono sul progressive e l’etichetta fa subito il botto pubblicando “Tubular Bells” di Mike Oldfield, che anche i meno avvezzi ricordano come la colonna sonora dell’”Esorcista”. Il disco, una suite di quasi 50 minuti -per certe parti una vera pizza-, esce alla fine del maggio 1973, ma solo nel dicembre successivo, quando il film si presenta nelle sale, si trasforma in un tormentone (e per qualcuno anche in un’ossessione). Alcune parti di “Tubular Bells” accompagnano infatti i momenti più truculenti del film e, con il tempo il disco grazie a questo connubio, raggiunge l’incredibile cifra di 15 milioni di copie vendute. Per la neonata Island Records è una pacchia, per Branson –che ha solo 23 anni- è la piattaforma verso il successo imprenditoriale. Intanto, Draper e Powell, fissati con il prog, reclutano Tangerine Dream, Faust e Gong ma le mode cambiano in fretta e a Branson interessa fare soldi, molti soldi, e in poco tempo. È il ’77 e con il punk mette sotto contratto i Sex Pistols cacciati dalla Emi e pubblica l’iconico “Never Mind the Bollocks”, il brutale unico album di Rotten e compagni. Nel 1979 apre il primo megastore e poi via con la new wave, con cui la Virgin inanella una serie di successi da milioni di copie (“Do You Really Want to Hurt Me?” e “Karma Chameleon” di Boy George, “Don’t You Want Me” degli Human League), ricicla Phil Collins dai Genesis e recluta altri artisti da milioni di copie (XTC, Simple Minds, Paula Abdul, Thomas Dolby). Branson comincia a guardare al cielo inaugurando la Virgin Airlines, ma nel frattempo non perde il vizio della musica e nel 1996 presenta al mondo le Spice Girls. 

Come un camaleonte, si adatta alle mode ma soprattutto, pur non abbandonando il settore musicale, fagocita ogni settore dove intravede la possibilità di incrementare il proprio patrimonio: alberghiero, alimentare, editoriale, turistico, finanziario. E l’astronautica, naturalmente. Virgin Galactic nasce nel 2004 e tra pochi giorni farà il suo primo viaggio a novanta chilometri dalla Terra. La Unity 22 avrà a bordo un equipaggio di sei persone, tra cui l’astronauta con codice 001, quello che non sapeva niente di musica ma che ha usato la musica come trampolino per le stelle: Richard Branson.   

 

martedì 29 giugno 2021

Il romanzo, poco epico, dell'emigrante sull'oceano

Tra i tanti i romanzi caduti nell’oblio, ho ripescato “Sull’oceano”, scritto da Edmondo De Amicis e pubblicato nel 1889, tre anni dopo il successo di quello che è il suo romanzo più riconosciuto, “Cuore”. Sono gli anni che seguono l’Unità d’Italia, anni di fermento ma anche di poche soluzioni per un paese in grande maggioranza analfabeta e privo di occasioni d’impiego. Le campagne, sia a nord che a sud, offrono solo sofferenza e povertà. Dalla proclamazione del Regno alla pubblicazione del romanzo di De Amicis più di tre milioni di italiani se ne sono andati all’estero alla ricerca di fortuna (Francia, Germania, Stati Uniti, Argentina e Brasile le principali destinazioni). De Amicis, che è scrittore ma anche e soprattutto giornalista, detta reportage di ampio respiro che, come nel caso di “Sull’oceano” si trasformano in lunghi romanzi. Per vivere l'esperienza, si imbarca nel 1884 su un piroscafo che fa rotta verso l’Argentina. L’azione si svolge sulla nave “Galileo” (la “Nord America”, nella realtà), su cui De Amicis da buon cronista, effettua la traversata da Genova a Buenos Aires. Oltre ai 50 passeggeri della prima classe, ai 20 della seconda e ai 200 membri dell’equipaggio, il “Galileo” trasporta 1.600 emigranti italiani diretti in Argentina e che diventano i protagonisti del libro. Su di loro si posa l’interesse di De Amicis.

La partenza dal porto di Genova ripropone scene attuali, destinate oggi a popoli meno fortunati del nostro: “Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo” scrive l’autore.  

Uomo del Risorgimento, De Amicis cerca di ritrovare gli ideali della nazione appena unita in quel gruppo di uomini e donne in balia dell’oceano. Li vuole descrivere gloriosi, li trova invece indifferenti, disperati, una massa apatica dove impera la malattia (“A un tratto s’udiron delle grida furiose dall’ufficio dei passaporti e si vide accorrer gente. Si seppe poi che era un contadino, con la moglie e quattro figliuoli, che il medico aveva riconosciuti affetti di pellagra. Alle prime interrogazioni, il padre s’era rivelato matto, ed essendogli stato negato l’imbarco, aveva dato in ismanie”) e predomina l’ignoranza (nel 1881 la tassa di analfabetismo nel nostro paese era al 61%). Cosa significava essere italiani nel 1884? Poco o niente. De Amicis si scontra con questa desolante verità. Non c’era nulla che accomunasse l’emigrante con quella terra che, invece di dargli conforto, lo espelleva, lo costringeva ad accomodarsi altrove. Eppure, è qui che nasce il paradosso. È proprio il processo doloroso dell’emigrazione a fare sentire “italiano” per la prima volta quel popolo cencioso. L’esilio pesa come un macigno e la reazione contro il disprezzo degli altri fa nascere, abbattendo i regionalismi, l’orgoglio di essere italiano.

“Sull’oceano” diventa subito un best seller e vende dieci edizioni in due settimane. Poi, con il tempo, subentra l’oblio. A distanza di tanti anni, si consolida la rimozione del fenomeno emigrazione, di ciò che eravamo. Cancellato dalla coscienza nazionale perché, probabilmente, ricorda ciò che eravamo: un popolo povero, un popolo in movimento, deriso e spesso disprezzato. Il libro si può trovare in digitale qui:

https://www.liberliber.it/mediateca/libri/d/de_amicis/sull_oceano/pdf/de_amicis_sull_oceano.pdf

martedì 22 giugno 2021

Compie 50 anni la Fiat 127: la prima auto non si scorda mai

Compie cinquanta anni uno dei miti automobilistici degli anni Settanta, la Fiat 127. Tramontata l’epoca della 500, decretato l’insuccesso in termini di vendita dell’850, la Fiat era alla ricerca di un’utilitaria duttile e accessibile a tutti che ne prendesse il posto. A disegnarla è chiamato Pio Manzù, figlio del famoso scultore Giacomo e tra le nuove leve del design automobilistico. Alla Fiat non tutti sono d’accordo per la sua realizzazione. Non piace la linea, poi il dramma colpisce Manzù, che muore in un incidente stradale proprio mentre si recava a Torino per la presentazione del progetto definitivo dell’auto. Sembrava l’inizio di una leggenda nera e invece la 127 procede il suo iter e viene immessa sul mercato nell’aprile 1971. La parte meccanica (affidata a Dante Giacosa) è una piccola rivoluzione: motore anteriore (la 500 e la 850 lo avevano posteriore) e quindi anche la trazione cade sull’asse anteriore. La scommessa diventa un successo: nei primi tre anni si vendono tre milioni di esemplari e nel 1973 la 127 risulta l’auto più venduta in Europa.

Dura a morire, si rifà il look nel 1980 per affrontare il nuovo decennio e nemmeno l’apparizione della Uno, che diventerà un classico nella produzione Fiat, la scalzerà almeno nei primi anni. L’ultimo capitolo è quello della sua uscita di scena, nel settembre 1987, con più di cinque milioni di esemplari venduti.

Proprio una Fiat 127 è stata la mia prima automobile. Noi eravamo della generazione che ereditava l’auto dai genitori. Si cambiava auto in famiglia e, con i diciotto anni e fresca patente in tasca, si affrontava il mondo con quelle utilitarie poco in salute, già quasi vintage, che superavano i centomila chilometri di vita: Ford Escort, Citroen Dyane, Opel Kadett erano le compagne della 127. A me toccò quella di mio padre –che era passato alla 128-, un modello unico nella mia città, visto che ostentava un improbabile color verde lago (secondo catalogo) e che mi faceva riconoscibile a chilometri di distanza. La prima automobile è un po’ come la prima ragazza, a distanza di anni suscita le stesse pregiate emozioni. Di lei si ricordano il primo viaggio serio (in termini di chilometri), il primo appuntamento galante, il primo incidente (che fu, neanche a farlo apposta con l’auto più sfigata della storia, la NSU Prinz verde). Erano auto quasi indistruttibili in fatto di motore, che ti portavano dappertutto nel mondo allora a noi concesso, che aveva quasi sempre le impegnative strade di montagna della Val di Susa come meta obbligata. Erano meno solide in fatto di carrozzeria (gelo e sale ne corrodevano la struttura) e regalavano quindi spifferi di aria fredda nei rigidi inverni del Settentrione, folate improvvise di scirocco in estate. La manutenzione, poi, era quasi ridotta a zero: c’erano appena i soldi per la benzina, figurarsi per un intervento del meccanico. Però, quelle auto compivano con il loro compito capitale, ossia la realizzazione dei tuoi immediati sogni a buon mercato, che passava giocoforza per il trasporto efficace e (quasi) sicuro in luoghi nuovi e ambiti. La radio, con la musicassetta creata ad hoc, forniva poi la colonna sonora perfetta.

La mia 127 capitolò in un pomeriggio primaverile, colpa di un disgraziato buco delle disastrate strade della mia città. Si ruppe l’asse anteriore e buonanotte. Con quell’inatteso colpo, ancora non lo sapevo, finiva anche l’adolescenza e si entrava nel mondo degli adulti.

martedì 15 giugno 2021

L'Italia non è un paese per giovani

Era il dicembre del 2016 quando l’allora ministro del Lavoro Poletti, di fronte ai dati dei giovani in fuga dall’Italia, affermò: “sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi”. Un’esternazione poco felice, certo, ma che rivelava l’insofferenza dello Stato nei confronti di chi prende la sofferta decisione di abbandonare la propria terra. I numeri, al tempo, parlavano di 100.000 persone ed oggi quei numeri continuano ad aumentare (131.000 nel 2019). La già enorme comunità di italiani all’estero, composta da almeno cinque milioni e mezzo di persone (il 61% dimora nel continente americano), continua ad allargarsi. Un Paese nel Paese, che si contraddistingue per caratteristiche uniche, tra cui risalta l’affermazione dell’italianità, sentimento invece poco sentito da chi a casa ci è rimasto.

Noi che siamo all’estero, non siamo emigrati, nella maggioranza dei casi, per piacere. La nostra è diventata una scelta obbligata di fronte alle deficienze di un Paese che da generazioni chiude le porte ai propri talenti e alla propria forza lavoro per perpetuare fattori poco incisivi per il progresso di una nazione. Siamo un poco come i rompiballe che, alla festa, vengono accompagnati alla porta: accomodatevi fuori e non fate casino. Magari, proprio perché eravamo quelli che protestavano perché le cose si facessero bene, in regola. Intanto, ci siamo trasformati da nazione che emigrava a nazione che accoglie gli immigrati, problematica tanto sentita e tanto profonda che ha fatto dimenticare le sorti di coloro che, nati in Italia, se ne sono andati.

Non solo “cervelli in fuga”. I giornali mettono l’accento sul fenomeno dei “cervelli in fuga”, definizione colorita che causa indignazione e polemica nei lettori. Negli ultimi dieci anni dall’Italia se ne sono andati quasi 200.000 laureati, una cifra importante se si considera che siamo tra i paesi europei con la percentuale più bassa di persone che ottengono il titolo universitario. Eppure, non sono solo i laureati ad andarsene, ma anche quella manovalanza che non trova inserimento nel settore produttivo. Cosa siamo, quindi? Siamo un paese con evidenti e severi problemi strutturali dove l’istruzione, la ricerca, la cultura occupano gli ultimi posti in quanto a investimenti e dove, nelle aziende, si prediligono maestranze asservite. Con gli immigrati, in fondo, si può fare quello che si vuole, evadere le regole, interpretare le leggi, dare stipendi da fame.

Lo zio d’America. La figura dell’italiano all’estero trae in inganno chi a casa ci è rimasto. Si è portati a pensare che vivere in un paese straniero sia sinonimo di bella vita perché ancora  non ci siamo liberati della figura retorica dello “zio d’America”, secondo cui il parente emigrato doveva obbligatoriamente aver fatto fortuna. In fondo, su questa negazione (che è rimozione della cittadinanza e di conseguenza dei diritti), si basa il destino dell’emigrato: te ne sei andato, hai fatto fortuna, cosa vuoi di più? La coscienza della nazione è pulita.


Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...