lunedì 15 luglio 2024

Maledetti Tropici, maledetta bellezza

Devo scrivere qualcosa sul titolo di questo blog, che spesso genera commenti un poco piccati da parte di chi ai Tropici ci è nato e si sente smarrito dall’intestazione che parrebbe irriverente. Invece, non è così, ma vale l’esatto contrario. “Maledetti Tropici” è una occorrenza nata sulla falsariga del detto “maledetti toscani” coniato da Curzio Malaparte. Lo scrittore pratese nel suo libretto dallo stesso titolo (1956) tracciava un singolare ritratto del carattere toscano, descrivendo i suoi compaesani in forma non solo esaltativa, ma anche con ferocia e ironia.  


“I Toscani hanno il cielo negli occhi” scrive Malaparte, per poi concludere con un impietoso “e l’inferno in bocca”, frase che nel suo complesso ritrae il sentimento che compenetra l’intera opera. Toscani che hanno dalla loro parte un immenso patrimonio culturale e che hanno saputo creare dalla civiltà etrusca al Rinascimento opere invidiate dal resto del mondo. Il tutto inserito in un contesto geografico di ineguagliabile bellezza. Maledetti toscani, quindi? Certo, dove l’invidia che racchiude l’espressione è di quella buona.  

All’altro lato del mondo, i Tropici rappresentano un certo ideale di bellezza nell’immaginario e provocano sentimenti di libertà e di fuga. Sono maledetti in certi casi perché irraggiungibili, in altri perché meta di progetti che a volte si trasformano in una mera illusione. Per chi li vive e ci vive, sono invece fonte quotidiana di bellezza. Se la mano dell’uomo ha modellato le colline toscane rendendole straordinariamente singolari, la natura è afflato e richiamo per chi si identifica nel respiro tropicale. La mirabile maledizione è reciproca. Le parole del naturalista Edward Osborne Wilson ci riportano a questa associazione con un paragone azzeccato: “Distruggere la foresta tropicale per ottenere dei benefici economici è uguale a bruciare un quadro del Rinascimento per riscaldare una pietanza”. Rinascimento e natura, Toscana e tropici li abbiamo a braccetto. Manteniamoli unici e maledetti.

lunedì 3 giugno 2024

San Francesco, il Cantico e la nascita della letteratura italiana

Quando, nel settembre 1224, San Francesco scende dai monti della Verna, porta con sè non solo le stimmate ma anche l’abbozzo di quello che diventerà “Il cantico delle creature”. «Altissimu onnipotente bonsignore, tue so' le laude la gloria e l'honore et onne benedictione» recita l’incipit della lode al Signore, scritta di getto secondo le fonti francescane, dopo una notte di tormenti a cui sarebbe seguita la visione celestiale che lo ispira e lo guida. Il cantico è un inno al Signore intriso di misticismo e spiritualità ma è anche, a tutti gli effetti, il primo componimento poetico della nostra storia letteraria. San Francesco, primo poeta della letteratura italiana, quindi, ma non è stato così facile. Ci è voluto un lungo cammino per stabilire il valore di un documento che si muove su un territorio tribolato dove l’esperienza mistica -essenza divina-, si mescola con la poesia, espressione del profano.

Gli stessi francescani per lungo tempo rifiutarono la qualità poetica del cantico, inquadrandolo nel limitato ma glorioso universo spirituale. Di stesso avviso era la critica letteraria dell’Ottocento: la poesia religiosa non era altro che “una letteratura senza eco nella classe colta, da cui esce l’impulso per la vita intellettuale” (De Sanctis). Poco importa che fosse espressa in volgare, esperimento che per Francesco significava l’affrancamento dal latino, considerata la lingua del potere e, di conseguenza, di pochi. Il “Cantico delle creature” era stato pensato per essere cantato dai confratelli, alla maniera dei Salmi di biblica memoria, un inno da portare nelle chiese e nelle messe e diretto quindi alla povera gente. Già solo per questo il documento aveva un grande valore popolare in un contesto, quello dell’Italia del XIII secolo, dove era molto radicata la tradizione orale. Da qui viene anche il linguaggio semplice del testo, ma capace comunque di esaltare l’ascetismo del santo. Nell’ottica dei frati, la letteratura non era cosa di Dio; per i critici dell’Ottocento, gli intellettuali dovevano giocoforza fare i conti con il potere. Altri tempi. Ci ha pensato la critica recente a rivalutare il testo.

La strada viene aperta da Gianfranco Contini, critico austero ma preciso. Alberto Asor Rosa, nella “Storia della letteratura europea”, ci confida il respiro europeista del santo e lo colloca nel punto di partenza della nostra letteratura. “Il Cantico delle creature” si afferma come la prima composizione di carattere poetico in volgare italiano. Non solo. La sua apparizione dà forma alla letteratura italiana, complice anche un mosaico di esperienze che si stavano vivendo in tutta la penisola. E la nostra letteratura si plasma, prendendo da subito caratteri fondamentali, ritagliandosi una propria identità, che si realizza infine con “La Commedia” di Dante, culmine della sua prima fase creativa. 

È moderno “Il cantico delle creature”? Quanto lo sentiamo vicino a noi? Parafrasi alla mano per i meno esperti, siamo di fronte a una lode al Signore e a un inno al creato. La novità non è solo nell’uso del volgare umbro, ma nell’esprimere i valori cristiani fondati sull’amore e sulla pace. Dio è dappertutto, è nella natura che ci circonda e questo significa che l’ascetismo professato da Francesco non era un elemento passivo, ma si cibava delle meraviglie dell’universo. La morte, evocata negli ultimi versi, non deve essere temuta perché è parte della vita, un tassello in più dell’armonia. Inconsapevolmente, Francesco sta tendendo le mani verso un nuovo mondo, che non è più il Medioevo ma un’epoca che, poco a poco, modellerà il pensiero occidentale.   


martedì 12 marzo 2024

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario pagare il biglietto d’ingresso in città. 5 euro per passeggiare tra le calli, vedere piazza San Marco, scattare la classica foto con lo sfondo del ponte dei Sospiri, farsi vendere cianfrusaglie dai cinesi. Sarà un esperimento, dicono con ipocrisia appena velata, perché l’esperimento diventerà presto una realtà, un dato di fatto che traccerà il destino delle altre città d’arte nel futuro prossimo. La causa di tale provvedimento? Arginare il turismo di massa, che sta strozzando la laguna. Non si investe più per l’accoglienza, quindi, ma per ridurre le possibilità di accesso. Un po’ un controsenso, parlando di turismo. Invece di trovare soluzioni, ci si limita a fare cassa, alimentando la deriva delle politiche sul territorio. Il malessere di Venezia viene da lontano, tra sciatteria organizzativa e maleducazione dei visitatori, chi ne ha più ne metta. Ora, questa soluzione legittima il passaggio a un turismo che diventa simbolo di status sociale: non esperienza e conoscenza per i più, ma attività di intrattenimento di chi può. 

Che le città italiane stiano male, ce ne siamo accorti tutti. Segnale inequivocabile è l’abbandono dei centri storici, fenomeno iniziato dapprima dai negozianti che non sono legati al settore turismo seguiti dalla fuga dagli stessi abitanti. Airbnb ha creato un deserto, i venditori di souvenir e i ristoratori hanno completato l’opera. I centri storici di Venezia, Firenze, Verona e così via, sono diventati delle Disneyland dove persino l’arte è diventata mercimonio. Ogni angolo delle nostre città è stato svilito al rango di un’attrazione da luna park con tanto di tagliandino con il prezzo. Le opere d’arte più hanno valore e più costa vederle. Gli euro offrono la gioia di un momento a persone che non sanno niente di ciò che stanno vedendo, turisti ai quali non viene spiegato assolutamente nulla della nostra Storia e del vissuto che c’è dietro un quadro, un monumento, una chiesa. Proprio come si fa in un parco divertimenti, il non-luogo per eccellenza, l’esatto contrario di ciò che dovrebbe ispirare il nostro patrimonio.

A dare una mano ci hanno pensato anche le campagne pubblicitarie lanciate dal governo di turno, che continuano a vendere l’idea colorata e stuccosa di un’Italia da dolce vita, priva di contenuti e di sostanza. “VeryBello” e “Open to Meraviglia” (quest’ultima con la pacchiana Venere di Botticelli trasformata in influencer) sono state campagne da obbrobrio che hanno accentuato l’idea dell’Italia da cartolina, effimera e frivola. Ogni città è uguale all’altra, Posillipo è lo stesso di Manarola, un museo vale l’altro, lo spritz ad Amalfi ha lo stesso sapore di quello bevuto a Orta: la percezione, è quella di un mondo fittizio, irreale, costruito apposta per apparire sullo schermo patinato di Instagram. L’esperienza dura giusto il tempo di uno scatto fotografico, poi via verso una nuova meta.

È sostenibile il turismo? Senza ombra di dubbio, ma rivalutando il territorio, intervenendo sul patrimonio senza svenderlo, investendo sull’unicità delle risorse, evitando che ogni iniziativa sia promossa con il solo scopo di riempire il portafogli. È sostenibile il turismo che consente agli abitanti di continuare a vivere nelle loro città e di svolgere le loro attività. Un turismo che parte dall’educazione e dal rispetto, sia dei turisti che da parte delle amministrazioni pubbliche.

martedì 23 gennaio 2024

Musei a pagamento: la mercificazione della cultura

Inizio settembre, Firenze, coda per il Museo degli Uffizi. Solito caldo cocente, folla in fila. Penso di poter passare davanti per aver comprato il biglietto per internet, invece no, “torni al fondo” mi dice un’usciere non proprio empatica. Mi chiedo a cosa siano serviti i 7 euro di prevendita e penso alla schiacciata che avrei potuto mangiare con quei soldi. A munirsi di pazienza, quindi, e a fare la fila. Questa introduzione serve per dire che per visitare il Museo degli Uffizi ho dovuto pagare 30 euro, moltiplicati per due visto che ero in compagnia di mia moglie: totale 60 euro. Per carità, ben spesi. Ma mi lascia un cattivo gusto perché da sempre ho pensato che i musei dovrebbero essere gratis. Reminiscenze da settantottino? Mica tanto. L’articolo 27 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani recita: ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici”.

Invece, più passano gli anni e più la cultura in generale da un diritto inalienabile si è trasformata in un business. Al museo non si dà un valore culturale, ma un valore monetario. Non si valutano i vantaggi a livello sociale che i musei possono offrire all’educazione del cittadino, ma si mercifica. Qualche mese fa a Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che aveva sbraitato che i musei dovrebbero essere gratuiti, il ministro Sangiuliano aveva risposto: “la gratuità dei musei deprezza le opere d’arte”. Somma stupidaggine, per la semplice ragione che il ministro vede in un Botticelli o in un Piero della Francesca, non un’opera d’arte, ma un’occasione per fare soldi.

La cultura è educazione. I musei sono il luogo prefisso per insegnare agli Italiani la loro storia, il loro bagaglio culturale, sono l’occasione per farli uscire dal letargo educativo in cui sono sprofondati e metterli a contatto con la loro storia. Il museo è aggregazione, è comunità, è senso di appartenenza. Quei 30 euro per entrarci me li posso permettere, per fortuna, ma rappresentano un ostacolo insormontabile per chi alla cultura vorrebbe avvicinarsi.  

La politica insiste che i musei sono in perdita. La cultura rende 90.000 milioni di euro all’anno, ma anche così i conti sono in rosso. Infatti, ci vorrebbero 140.000 milioni in più. Sorge il dubbio, quindi, che siamo dei pessimi amministratori. A Londra i musei sono gratis, a Madrid lo sono in orario serale. Altri esempi di musei gratuiti: lo Smithsonian di Washington, il Museo d’arte moderna di Parigi, il Getty Center di Los Angeles, il Museo Nazionale di Pechino, il Nicholson di Sydney, lo Statens Museum di Copenhagen, il Kulturhuset di Stoccolma, eccetera. Quello che la politica italiana non vuole ammettere è che la cultura si deve comunque sovvenzionare per la semplice ragione che non è un settore a disposizione di pochi eletti, ma si tratta di un patrimonio comune a tutti gli Italiani.

Abbiamo trasformato la visita al museo in un’esperienza d’elite. Visitare gli Uffizi? Forse, un paio di volte nella vita. Volete visitare il resto dei principali musei di Firenze? Preparate un bel bigliettone da 100 euro a testa. L’opera d’arte, in questa maniera, non diventerà mai familiare, ma resterà un oggetto estraneo, da palcoscenico appunto. Provocatoriamente qualche anno fa lo storico dell’arte Tomaso Montanari aveva dichiarato: “potremmo permetterci di aprire a tutti gratuitamente i musei statali per 365 giorni l’anno semplicemente decidendo di non spendere in armi almeno per due giorni all’anno”.  Potrebbe essere un solido punto di partenza.

martedì 9 gennaio 2024

Marco Polo e l'invenzione del viaggio

Le celebrazioni per l’anniversario della morte di Marco Polo (settecento anni l’8, ma più probabilmente il 9 gennaio 1324) procedono a rilento. Eppure, il veneziano certa rilevanza ce l’ha, non solo per aver acceso la curiosità sul mondo sconosciuto in un’epoca in cui l’Europa era accartocciata su se stessa. Baghdad, Samarcanda o Pechino di cui snocciola descrizioni e aneddoti rappresentano la parte fisica della sua impresa, però il pregio è un altro: Polo ha dimostrato con la sua traversia, qual è l’essenza del viaggio. È stato il primo, in un Occidente imbevuto di crociate, feudalesimo, oscurantismo religioso, a guardare oltre e a osservare distaccato, ma meravigliato, l’Oriente che gli si apriva davanti. Dalle pagine di “Il Milione”, Polo trasmette al lettore questa essenza, che è fonte di esperienza personale, di dinamiche sociali e culturali, ma soprattutto è divenire dell’essere umano. Una concezione completamente nuova nella retorica medievale, quando la letteratura era imbevuta dei canoni del poema cavalleresco e della lirica cortigiana o religiosa. Il suo Le divisament dou monde”, diventato poi “Il Milione”, redatto quando il XIII secolo è ormai agli sgoccioli, è a tutti gli effetti il primo libro di viaggi del mondo occidentale. Il fascino per l’ignoto, per una terra sconosciuta, la semplice curiosità fanno la fortuna del libro, ma è l’attendibilità di Polo, cronista affidabile, in quanto saggio e nobile cittadino di Venezia, a creare i presupposti per l’inarrestabile divulgazione delle sue memorie.

C’è un fatto predominante. Polo va oltre il ruolo di mercante acquisito per ereditarietà e si inventa reporter e cronista, testimone e viaggiatore. È obiettivo, al punto che va oltre gli interessi mercantili in onore alla realtà. Una pista che spiega questo atteggiamento può essere quella che Polo, al momento di mettersi in viaggio, è un giovane di soli diciassette anni, che conosce “ogni calle, ogni portego e sestiere di Venezia” e che ora vuole scoprire il mondo. In quel viaggio straordinario mette tutto l’entusiasmo che un ragazzo può provare in quelle condizioni. Lo zio e il padre percorrono la Via della seta per concludere affari e comprare gioielli e tessuti. Sono commercianti navigati, d’esperienza, sono già transitati per quella rotta in un viaggio anteriore e il loro interesse è mercantile. Marco, no. Segue il suo istinto e lo ripropone incontaminato quando è ormai un uomo di quarantaquattro anni, mentre detta i momenti salienti della sua esperienza asiatica a Rustichello da Pisa. E gli unici cedimenti del volume si devono proprio allo scrittore toscano, che a ogni costo volle introdurre episodi cavallereschi e moraleggianti. Per il resto, “Il Milione” è prodigo di informazioni geografiche, sociali, politiche, storiche; elargisce anche consigli a chi vuole andare per il mondo a esplorare: “Chi viaggia deve imparare a dormire per terra, a sopportare la fame e la sete”.

Grazie a questi presupposti, “Il Milione” diventa uno dei vertici del triangolo della nascente letteratura volgare e ci mostra un Medioevo ben più animato di quanto si immagini. La necessità di evadere dalla realtà, così cara alle nostre generazioni, era già patente in epoca tanto lontana e veniva esposta non solo da Polo, cultore del viaggio materiale, ma anche da altri due classici dell’epoca: “Il cantico delle creature” di San Francesco, che guida il lettore in un viaggio interiore e la “Divina Commedia”, di Dante, che lo trasporta nell’allegoria del viaggio fantastico.

Con il tempo, gli europei perderanno ogni contatto con le vie di Marco Polo. Balkh, il Pamir, Kashgar, Kotan, la particolarità esotica delle strade d’oriente verranno riscoperte solo nel XIX secolo nella storia moderna dell’Occidente. L’essenza che anima il viaggiatore, già manifestata da Polo e poi sopita per secoli, diverrà ansia e traguardo dell’uomo contemporaneo.

sabato 25 novembre 2023

Le enciclopedie a fascicoli, il Google di un tempo

Quando non c’era Google, c’erano le enciclopedie. Ingombranti, solenni, forgiate a monoblocchi. Non c’era appartamento dove si entrasse che nella libreria, spesso modesta e con titoli a volte improbabili, non facessero bella mostra i volumi di un’enciclopedia.  

Era uno degli aspetti del miracolo economico. C’era ansia di imparare, di non farsi trovare impreparati. La cultura aveva un peso in tutti i sensi, peso morale e peso fisico. Le enciclopedie si acquistavano a rate, oppure in fascicoli in edicola. I loro nomi li ricordo ancora: “Conoscere”, “L’enciclopedia della donna”, “Vedere e sapere”, “Universo”, “L’enciclopedia Utet”, “Il Milione”. Stavano lì, a fare bella mostra di sè, raccolte pazientemente settimana dopo settimana e poi portate a rilegare dalla ieratica figura, ormai scomparsa, del rilegatore. Questo sì: bisognava avere costanza e tenacia, perché per completare un’opera bisognava attendere anni. Era il prezzo da pagare per ostentare la cultura, traguardo ambito da chi fruiva i traguardi del boom economico. “In comode cento uscite settimanali” recitavano le pubblicità (le réclame, come si diceva al tempo), periodo di tempo oggi inimmaginabile in quest’epoca dove si consuma tutto all’istante. “Il Milione”, enciclopedia geografica edita dalla De Agostini, constava di 312 fascicoli, equivalenti a sei anni di appuntamenti settimanali in edicola, diecimila pagine suddivise in quindici volumi. E di quei tempi sorprendono i numeri: la media era di centomila fascicoli venduti a settimana per ogni singola edizione. “Conoscere”, edita dalla Fratelli Fabbri Editori, tra le prime pubblicazioni ad essere presentate (apparve nel 1958), vendette seicento milioni di dispense.

L’enciclopedia non era solo territorio per gli adulti. Per i bambini ebbe infatti un grande successo “I Quindici” che apparve per la prima volta nel 1964 e la cui pubblicazione durò almeno fino alla fine del decennio successivo. Si trattava, appunto, di quindici volumi tematici: veniva venduta porta a porta da agguerriti rappresentanti e poi, firmato il contratto, si pagava a rate. “I Quindici” erano un’elementare digressione su vari argomenti (la natura, gli animali, l’arte) che apriva ai bambini il mondo post bellico che sarebbe stato dominato dalla tecnica e dalla scienza.

Il piazzista vendeva sapere, ma soprattutto vendeva progresso. La presenza di un’enciclopedia in casa aveva lo stesso valore della macchina sotto casa e della lavatrice nel bagno. Erano tutti simboli dell’affrancamento dalle ataviche condizioni di sottosviluppo e povertà del nostro contadinato emigrato in città. Poco importava che venissero consultate in rare occasioni; bastava la loro presenza a sancire l’avvenuta trasmutazione. Il venditore non veniva perció considerato un rompiscatole, ma piuttosto l’intermediario verso un universo di sapere.

Con il tempo e le innovazioni tecnologiche, le enciclopedie sono state traslocate alle seconde case o fatte scomparire nelle cantine. Qualche esemplare resiste come un avanzo d’altra epoca, cibo per collezionisti. E ogni volta a sfogliarne una copia, sembra di entrare in uno di quei salotti delle case popolari che odoravano a minestra e a cera per pavimenti, con la 600 sotto casa e la Zoppas in bagno.

Due parole sul decreto cittadinanza

La notizia ha fatto in fretta il giro del mondo e l’ha fatto perché l’Italia è una madre feconda che ha lasciato figli un poco ovunque. Mano...