mercoledì 27 ottobre 2021

La notte in cui il Po inondò il Polesine

"Nelle notti estive, dalle mie parti, le strade diventano canali e rigano d’argento la malinconia della natura”. Il Polesine narrato da Gian Antonio Cibotto è un luogo incantato, dove il delta del Po, ammantato dalle nebbie, offre rifugio a uomini e animali, il cui destino è quello di schivare lo spazio e il tempo. Cibotto è stato il cantore contemporaneo del Polesine, terra magica e coriacea ma anche terra sofferta. Proprio il suo esordio letterario, nel 1954, aveva il titolo di un dramma reale, “Cronache dell’alluvione”, calamità di cui si compiono settanta anni il prossimo novembre. Una piena che si portò via case, strade, vite e che configurò un futuro inaspettato e drammatico per migliaia di persone. Furono quasi 200.000 gli sfollati, poco più di un centinaio i morti.

Nel mezzo degli anni Sessanta, quando ero bambino, si parlava ancora di quella tragedia con un misto di pena e commiserazione. La portata del disastro, come quello del Vajont, era rimasta come una marca indelebile nella memoria delle persone. Era una tragedia, poi, che si poteva toccare con mano. Nell’immediata periferia di Torino erano tante le famiglie degli sfollati che avevano perso tutto (case, averi, in alcuni casi i familiari) e che erano giunte in cerca di lavoro e di un’opportunità di rifarsi una vita. Emigrarono in 80.000 (praticamente uno ogni tre abitanti), una diaspora che ha lasciato i segni nelle famiglie contadine del Polesine, sconvolgendole quasi quanto una guerra.

Il Po, che aveva dato vita e alimento, si era trasformato improvvisamente in un nemico, complici le piogge torrenziali dei giorni precedenti. Gli argini ruppero la sera del 14 novembre 1951 la sponda sinistra del Po, dove si trovano i comuni della provincia di Rovigo. La rottura avvenne nella località di Canaro, poi a Occhiobello. Come al solito, la gestione dell’emergenza venne trattata superficialmente da parte delle autorità che, incapaci di prendere delle decisioni risolutive, temporeggiarono, e stettero quindi a guardare come l’onda di riflusso allagò nei giorni successivi anche l’Alto Polesine che per il momento era scampato al disastro. 

In un’Italia ancora priva della televisione le notizie arrivavano frammentarie per radio, incapaci a rendere fedelmente l’immane portata della tragedia. I due terzi delle acque del Po, invece di fluire nell’Adriatico, si erano riversate nella pianura rodigina devastando le case e gli averi di chi appena si stava riprendendo dagli sfracelli del conflitto mondiale. Le testimonianze del tempo raccontano come il fiume esondato aveva costretto le persone a scappare con solo quello che avevano addosso. L’acqua sommerse tutto. Nelle case rimasero le tavole imbandite, i letti appena toccati da chi si preparava ad andare a dormire, come se la vita si fosse fermata in un istante prestabilito.

Noi ragazzini sentivamo parlare della tragedia, che si perpetuava nel tempo, un dramma che era diventato costante. Il Po, infatti, continuava ad esondare in quegli anni: nel 1957, nel 1960, nel 1966. Venire dal Polesine era sinonimo di sfollato. La migliore amica di mia madre si chiamava Norma ed era una di quelle adolescenti che da un giorno all’altro si erano trovate senza nulla. La tragedia l’aveva fatta forte, ma questo non cancellava il suo senso di urgenza per fare le cose, come se fosse sempre a un passo da perdere i suoi beni. La sua presenza era il segnale che nella vita conformista e agiata, in qualsiasi momento può accadere l’inevitabile.

Nel 1966, a quindici anni dalla disgrazia, nel Polesine non era ancora stato ripristinato il servizio d’acqua potabile. Chi aveva avuto l’ardire di tornare doveva fare i conti con un’arretratezza che aveva riportato la zona a cento anni prima. Non si poteva coltivare la terra, ancora impregnata d’acqua, non vi erano fonti di sussistenza. Poi, finalmente, partì la bonifica. Gli argini vennero alzati (le terre sono in media a 3-4 metri sotto il livello del mare), si investì sull’agricoltura, si innalzarono gli zuccherifici. Il Polesine era rinato ed oggi è diventato un esempio di come si può ripartire dal nulla e creare benessere. E divagare, dal punto di vista dello scrittore, di una terra dove la notte “le strade diventano canali”.

giovedì 14 ottobre 2021

L'addio dei Beatles: la versione secondo McCartney

Periodicamente, si torna a parlare dei Beatles. E a ragione, direi, anche se le ultime uscite di Paul McCartney –rimasto con Ringo Starr a rimembrare le glorie passate- sono tese a specifiche promozioni commerciali: il documentario “Get Back” di Peter Jackson (dal 25 al 27 novembre su Disney+) e il libro dello stesso McCartney “The Lyrics” (in libreria dal 2 novembre). In questo contesto c’è spazio per diverse interviste, con una in particolare che ha rimesso il dito nella piaga riguardante lo scioglimento del gruppo. Negli anni si era più volte paventato l’unilaterale allontanamento di McCartney, che avrebbe così provocato la rottura. Questa volta, alla BBC senza troppi giri di parole, il bassista si sfila di dosso la responsabilità dell’infausto avvenimento addossandone l’onere a John Lennon. “I didn’t instigate the split. That was our Johnny” ha affermato e la spiegazione che ne dà è perfettamente plausibile. Lennon voleva rifarsi una vita –privata e artistica- con Yoko Ono. Un giorno si è presentato in studio e ha detto: lascio i Beatles. Gli avvocati? Era l’unica maniera di proteggere il patrimonio dei Beatles. Yoko Ono? Nessuna responsabilità, lei e John facevano una bella coppia. La musica? Stavamo facendo degli ottimi lavori (“Abbey Road” e “Let it Be”). Insomma: “That’s it, I quit”, come dice la canzone (quella di Nick Lowe, per intenderci).

L’intervista integrale, che andrà in onda sabato 23 ottobre su BBC Sounds, non ci riporterà indietro i Beatles ma sarà comunque una testimonianza in più da aggiungere a quel periodo e a quel particolare momento. Soprattutto ricordando come gli anni successivi allo scioglimento furono prolifici per i quattro di Liverpool non solo per il numero di brani pubblicati, ma soprattutto per la sostanza degli stessi. George Harrison che pubblica il triplo “All Things Must Pass”, Lennon che si erge a paladino del pacifismo attraverso “Imagine”, McCartney che affina la sua scrittura con varie perle (su tutte, sensazione personale, “Band on The Run”). Perfino Ringo Starr sforna album godibilissimi (“Ringo” soprattutto). Il patrimonio dei Beatles venne spillato in quattro differenti damigiane, fornendo dell’ottimo vino che, chissà, avrebbe raggiunto vette ancora più encomiabili se i quattro fossero rimasti insieme. Chissà...

L’alchimia all’interno di un gruppo è tenuta insieme da piccoli funi immaginarie sempre pronte a spezzarsi. Tensioni, litigi, magia, estremismo, affetto e creatività si mischiano con frequenza in quella che è, a tutti gli effetti, la riproduzione di una famiglia. Forse, proprio quella che John, svezzato dalla zia, cercava e che, al momento della maturità, ha lasciato per provare altre strade, la propria strada. C’è da credere a Paul e lasciare da parte la leggenda dello spaccamento provocato da Yoko Ono o a quella che lo voleva responsabile dello scioglimento. John Lennon era pronto per prendere il volo, i Beatles a diventare storia.

lunedì 4 ottobre 2021

John Mayall, la fine del viaggio

I have decided, due to the risks of the pandemic and my advancing age, that it is time for me to hang up my road shoes”. Comincia così il lungo messaggio su Facebook, attraverso il quale John Mayall comunica il suo quasi totale abbandono delle scene. Un altro grande vecchio, di quelli che ci hanno abituato alla buona musica, getta la spugna per ragioni dovute all’età. Mayall si appresta infatti a compiere 88 anni e, pre pandemia, si era mantenuto attivo con una pioggia di concerti in tutto il mondo. Il virus, dannato sia, ha fermato anche lui che, comunque, tranquillizza lo zoccolo duro del suo pubblico, promettendogli qualche concerto vicino a casa, nella zona di San Francisco. 

John Mayall ha un pregio: è sempre rimasto fedele a se stesso. Non si è mai fatto abbindolare dalle mode ed è passato incolume attraverso i decenni mentre proponeva l’immenso repertorio del blues; reinterpretato in chiave bianca, ma pur sempre un gran signor blues. La sua band, the Bluesbreakers, è stata la palestra di tanti talenti che poi, abbandonata casa, hanno scritto grandi pagine di musica: Eric Clapton, John McVie, Jack Bruce, Aynsley Dunbar, Dick Heckstall Smith, Jon Hiseman, Mick Taylor, Peter Green, Keef Hartley, Harvey Mandel e così via. Chi conosce un poco la scena londinese degli anni Sessanta sa di cosa sto parlando. Chi, invece brancola nel buio, ha la possibilità di prendere questi nomi e trasferirfli su Spotify per un viaggio propedeutico che gli insegnerà molte cose. L’esperienza, seppure liquida, vale la pena.

L’accademia di John Mayall era la scuola per eccellenza, la gavetta necessaria per chi, con il blues nel sangue, avrebbe presto messo le ali per volare altrove. Cream, Colosseum, Fleetwood Mac si formano in quel laboratorio che, alchemicamente, prendeva un genere prettamente acustico e lo trasformava in energia elettrica. La lezione che Muddy Waters aveva portato in Inghilterra prendeva forma attraverso la musica di John Mayall e di un altro grande presto dimenticato, Alexis Korner. Grazie a quella formula, il blues, un vagabondo povero dalle scarpe rotte, prendeva una dimensione internazionale e diventava ricco (non solo nell’accezione monetaria, ma soprattutto artistica), influenzando il resto della musica per almeno due decenni.

Ascoltare Mayall oggi è ascoltare la colonna sonora dei nostri tempi. Mettere i suoi dischi “sul piatto” è richiamare il passato, studiare la cultura pop mentre, per qualsiasi musicista significa ripassare l’abc di come prendere in mano uno strumento e dedicarcisi con passione. Un po’ di ripasso, quindi, non fa male. “Blues Breakers with Eric Clapton”, “Bare Wires”, “Blues from Laurel Canyon” con il salto negli Stati Uniti e poi avanti fino a “70th Birthday Concert”, monumentale antologia dal vivo di due ore e mezza, sono sollucchero per i patiti e pietre miliari da offire agli iniziati. In mezzo, “Wake Up Call”, disco adunata del 1993 dove sono con lui Buddy Guy, Albert Collins, Coco Montoya, Mavis Staples, Mick Taylor e tanti altri episodi caldi, lussuriosi, imperdibili.

“La cosa principale è l’improvvisazione” dichiara Mayall nelle interviste. “L’idea è quella di creare musica, di esplorare la musica”. In un’epoca dove è tutto programmato, il blues ha la sua ragione di essere e anche se Mayall ha appeso le sue “road shoes”, lasciamo che la sua musica continui a camminare ancora a lungo.

 

giovedì 23 settembre 2021

I 200 anni del Centroamerica: com'è difficile l'indipendenza

Settembre è, in Centroamerica, il mese in cui si celebra l’anniversario dell’indipendenza dalla Spagna. In una festosa e suggestiva cerimonia, ogni anno da Città del Guatemala parte il corteo che trasporta la torcia, simbolo dell’indipendenza, da quella che allora era la capitale della Capitanía fino alla provincia più lontana, quella del Costa Rica, attraversando El Salvador, Honduras e Nicaragua. La fiamma, che rappresenta lo spirito di libertà dei centroamericani, viene accesa il primo settembre nella capitale guatemalteca e raggiunge, il 15 settembre, quella costaricana.

Si tratta di un viaggio simbolico, realizzato oggi a brevi tratti da differenti studenti delle scuole medie, che ripercorre quello svolto nel 1821 da una staffetta che portò nelle varie province centroamericane la notizia che l’assemblea dei notabili riuniti a Città del Guatemala aveva deciso di proclamare l’indipendenza. Assaporata l’autodeterminazione, le cinque province, dopo un periodo di assestamento e un inutile tentativo di federazione, scelsero di proclamarsi ognuna stato nazionale a se stante.

Quest’anno la data racchiude un significato particolare perché Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica hanno raggiunto i duecento anni di vita. Due secoli è un lungo periodo: gli stati che vantano questa longeva vita, normalmente, si fanno forti; si danno istituzioni solide; offrono progresso e benessere ai propri cittadini. Non è stato così. Gli avvenimenti storici, invece di avvicinare, hanno allontanato le nazioni scrivendo pagine spesso sanguinose, risultato di scelte autoritarie e di dipendenza, di fatto, da poteri lontani. Abbandonata la Spagna, i gruppi politici hanno cercato nuovi padroni stranieri in beneficio proprio invece di quello comune, con conseguenze che si continuano a pagare.

Il bicentenario centroamericano trova oggi un panorama poco lusinghiero. I paesi centroamericani sono un insieme geografico ma, allo stesso tempo si mantengono lontani da scelte unitarie, estranei nel riconoscersi come progenie di uno stesso ceppo. I problemi strutturali li indeboliscono e le soluzioni latitano. Ai mali antichi se ne sono aggiunti di nuovi, primo fra tutti il narcotraffico che mina le istituzioni e che si fa forte con il tempo come un cancro all’interno di un organismo. Perfino il Costa Rica, che anteriormente si era distinto come un esempio di sana democrazia nel novero delle nazioni latinoamericane, è caduto nel giogo della facile consuetudine ai trucchi del regime, alla politiquería.

In questi frangenti poco luminosi, mi piace pensare al civismo che dimostrano gli studenti che, con sole, pioggia o pandemia, accompagnano la torcia. Orgogliosi nelle loro uniformi, sostenendo la bandiera, ragazze e ragazzi incarnano, per alcuni struggenti momenti, l’esempio di come debba e possa essere il loro futuro. Nella loro ingenuità ricordano comunque che un mondo migliore è possibile.

Buon compleanno Centroamerica, che non sia troppo amaro.

lunedì 13 settembre 2021

Gli ultimi giorni di Dante

Nella notte tra il 13 e il 14 settembre di settecento anni fa, moriva a Ravenna Dante Alighieri. La storia è più o meno risaputa. Dante, reduce da un’ambasciata a Venezia, contrasse la malaria nelle malsane paludi di Comacchio e tornò moribondo. Questa versione, la più accreditata, è quella che seguiremo, anche se rimangono ancora tanti punti interrogativi sugli ultimi giorni del poeta. Uno studio sui resti di Dante servirebbe a definire i molti quesiti ancora senza risposta come, per esempio, se sia morto davvero di malaria come finora si è suggerito. 

Cosa ci andò a fare il poeta a Venezia? A Ravenna, sotto la protezione del signore Guido Novello da Polenta, stava bene. Aveva finalmente trovato un mecenate che lo vezzeggiava e l’ambiente ideale per svolgere l’attività letteraria. A smuoverlo dal suo buen retiro fu un conflitto, l’ennesimo in quell’epoca tribolata, che opponeva il suo signore alla Repubblica di Venezia. Al centro della questione, il controllo delle saline di Cervia che già all’epoca dispensavano importanti quantità di sale. Gli attriti tra Venezia e Ravenna erano di lunga data e, dopo l’ennesima minaccia della Serenissima di muovere guerra, Guido Novello decise di affidare l’ambasciata per promuovere la pace all’esperto Dante Alighieri.

Il sommo poeta accettò, ma pensiamo non fosse molto contento di tornare a Venezia dove era stato alcuni anni prima. Dante, in quell’occasione, si era offeso per la maniera in cui era stato trattato dal Senato veneziano, che l’aveva costretto ad interrompere il suo discorso in latino perché nessuno comprendeva quella lingua. A nulla erano valsi gli sforzi di passare al toscano e per continuare e farsi capire, aveva dunque dovuto fare uso di un traduttore. Dante s’incavolò di brutto e considerò di essere stato trattato in modo villano, lasciandosi andare a una delle sue solite invettive, questa volta sulle origini poco nobili dei veneziani.

Nell’agosto 1321 le cose si erano di nuovo messe male per i ravennati. Guido Novello lo pregò di recarsi a Venezia a promuovere la pace e, seppur riluttante, Dante accettò. Aveva all’epoca 56 anni, non proprio un ragazzino soprattutto per i canoni dell’epoca. La sua ambasciata andò male. Dante ricevette un altro sgarbo dai veneziani e, dopo aver atteso invano, non riuscì a conferire con il governo della Repubblica. Inoltre, gli venne proibito di tornare a Ravenna via mare. Si dispose così a un difficile viaggio di ritorno di tre giorni: il primo in barca, necessario per giungere fino a Chioggia; il secondo per raggiungere Pomposa e riposarsi dai benedettini della celebre abbazia e quindi il terzo per arrivare a Ravenna. In mezzo, c’erano le pericolose valli di Comacchio, non solo per i banditi che vi si nascondevano, ma per le zanzare che infestavano le paludi. Detto, fatto. Dante si ammalò di malaria e giunto in città si abbattè sul letto che non avrebbe più lasciato da vivo.

Attorno a lui, ci furono i familiari finalmente riuniti: i figli Pietro e Jacopo, la figlia Antonia e, probabilmente, anche Gemma Donati, la moglie mai citata. Risulta incredibile che solo al momento dell’agonia e quindi della morte, Dante abbia potuto trovare un poco di pace dopo tanto fuggire. Il funerale si tenne nella chiesa di San Pietro Maggiore (oggi dedicata a San Francesco) e il poeta venne tumulato nel cimitero adiacente.

A quel punto, rimaneva un grande cruccio da risolvere. Tra le carte del maestro, mancavano gli ultimi canti del Paradiso. I figli erano sicuri che il padre li avesse terminati, ma nonostante la ricerca non venivano trovati. A risolvere la faccenda intervenne lo stesso Dante. Secondo il figlio Jacopo sarebbe stato proprio il padre, che gli era apparso in sogno, a indicargli dove cercare. Erano incassati dietro una finestretta tenuta nascosta da un tendaggio, già quasi corrosi dalla muffa come racconta Boccaccio nel suo “Trattatello in laude di Dante”: “tutte per l’umidità del muro muffate e vicine al corrompersi”. Dante era morto, ma la storia della “Commedia” era appena iniziata.

sabato 4 settembre 2021

Il re è nudo: Napoleone scolpito da Antonio Canova

Ad Antonio Canova non piaceva Napoleone. Il celebre scultore riteneva il corso un saccheggiatore, il responsabile della spoliazione da parte dei francesi delle opere d’arte italiane. Dopo la Campagna d’Italia, Napoleone aveva istituzionalizzato il saccheggio attraverso armistizi capestro che, oltre a porre durissime condizioni politiche e territoriali, imponeva la consegna alla Francia delle principali opere del patrimonio artistico degli stati assoggettati. Canova, all’epoca considerato uno degli artisti europei di maggior prestigio, criticò da subito la politica del “bottino di guerra” voluta da Napoleone per costituire un Museo universale a Parigi, che il generale considerava la culla della cultura europea.

Nonostante la critica e pur avendogli anche abolito il vitalizio che riceveva dallo Stato Pontificio, Napoleone considerava Canova il migliore nel suo campo e lo chiamò nella capitale francese perché lo immortalasse in un busto. Canova declinò l’invito e ci volle l’insistenza di papa Pio VII, da cui lo scultore era a servizio, per convincerlo –anzi, obbligarlo- a prendere la strada per Parigi. Canova vi giunse nell’ottobre 1802 e qui incontrò il Primo console (Napoleone diventerà imperatore due anni più tardi) per cinque sessioni, durante le quali ricavò due busti. Lo scultore si comportò in maniera professionale, ma rifiutò più volte l’invito espresso da Napoleone di stabilirsi a Parigi e tornò a Roma. Come scrisse all’amico Antonio D’Este: “non mi tratterrei qui nemmeno per tutto l’oro del mondo... vale più la mia libertà”.

Napoleone, però, non era sazio. I busti erano poca cosa per celebrare la sua gloria e commissionò a Canova una statua colossale da esporre in una piazza di Parigi. Gli spiegò di voler essere rappresentato come i grandi protagonisti della storia classica, un eroe sospeso tra mito e realtà. Canova gli rispose di non preoccuparsi: l’avrebbe raffigurato come Marte pacificatore. Si mise al lavoro e preparò una statua che raffigurava le richieste di Napoleone, un colosso di quattro metri d’altezza dove il condottiero, come un moderno Cesare, reggeva la lancia in una mano e nell’altra il globo della vittoria.

La statua arrivò a Parigi nel 1811. L’attesa era grande e Napoleone convocò per l’occasione i suoi marescialli e i notabili di Francia. Quando la statua fu svelata la folla e lo stesso Napoleone ammutolirono. L’imperatore era sì ritratto come un dio greco, ma era anche nudo. Se l’assioma classicismo-nudità funzionava per i personaggi dell’antichità, idealizzati e lontani nel tempo, l’effetto sul condottiero in carne e ossa che voleva assoggettare l’Europa intera rasentava il ridicolo. Non ci fu piazza di Parigi ad accogliere il colosso e la statua, su ordine di Napoleone, venne accantonata al Louvre, coperta perennemente da un telo.

La rivincita di Canova venne completata quattro anni dopo quando, in piena Restaurazione, si presentò al Louvre per riprendersi le opere sottratte allo Stato Pontificio. Un lavoro difficile e tortuoso, osteggiato non solo dai francesi, ma anche da austriaci e russi che un po’ avevano cominciato a credere all’idea napoleonica del Museo universale. Cosa che poi, il Louvre, in fondo, non ha mai cessato di esserlo. Più della metà delle opere trafugate da Napoleone in Italia non è mai tornata a casa e quadri, sculture, affreschi, arazzi sono ancora lì a dimostrare come le spoliazioni napoleoniche siano ancora una ferita aperta per il nostro patrimonio artistico. In quanto al Napoleone nudo di quattro metri di altezza è oggi nella casa-museo del suo arcinemico Lord Wellington, l’inflessibile inglese che riuscì a denudare il re sul campo di battaglia e a porre fine alla sua deriva dispotica.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...