mercoledì 24 novembre 2021

Il romanesco, lingua ufficiale del cinema italiano

Ha fatto la sua apparizione anche nella programmazione di Netflix America Latina, la serie di ZeroCalcare, qui tradotta come “Cortar por la línea de puntos”. Le sei puntate di “Strappare lungo i bordi” sono piaciute ai più: un manifesto di resistenza capace di strappare risate e di far sgorgare lacrimoni nei meno duri di cuore, avvolto in una colonna sonora che, per dirla come l’autore, “la senti da tutta la vita e ti ricorda da dove vieni”. A me invece, lo devo dire, lo strappo di ZeroCalcare è risultato faticoso da seguire.

A cominciare dal linguaggio le critiche sono arrivate puntuali, a causa del romanesco usato dal protagonista, caciaro e poco comprensibile, ricco di termini dialettali e capace di storpiare anche le più semplici espressioni dell’italiano. Una scelta che, comunque, è plausibile, perché dà sostanza al personaggio e all’ambiente. Piuttosto, la questione del linguaggio ritoglie la polvere sul tema fastidioso di Roma caput mundi che sdogana in ogni occasione il romanesco come lingua universale della cinematografia nostrana, cosa che rende tantissime produzioni italiane incomprensibilI all’estero. Il romanesco è diventato la lingua ufficiale del nostro cinema e se la cosa poteva essere in passato distintiva per definire la caratterizzazione di certi personaggi (alcuni diventati popolari, come quelli proposti da Alberto Sordi e, più recentemente, da Carlo Verdone), la sua generalizzazione oggi dà solo fastidio.

La romanizzazione parte da lontano, dai tempi della radio fascista, quando i gerarchi scelsero questo standard linguistico da imporre al resto d’Italia. La capitale doveva diventare il centro anche del nostro cinema e, di conseguenza, il romanesco borghese era stato adattato con questo compito. Con il tempo -e con Roma che si impadroniva anche della televisione- il dialetto locale ha subito una deriva, trasformandosi e imbastardendosi in un profluvio di espressioni dialettali di bassa lega. La versione coatta del romanesco di oggi, povera sia strutturalmente che per estrazione sociolinguistica anche nella pronuncia, ha immiserito la comunicazione.   

Nelle fiction della televisione pubblica personaggi insospettabili (alcuni esempi: Fabrizio De Andrè –genovese-, Primo Carnera –friulano-) parlano romanesco, con un risultato che rasenta il ridicolo e che mina la veridicità della storia raccontata. La prassi è comune, ostentata sia in televisione che sul grande schermo. Il cinema è un veicolo di cultura e all’estero stiamo proponendo l’equazione italiano = romano, che ha livellato la nostra peculiare eterogeneità a un modello stereotipato. Inutile spiegare agli stranieri che oltre il Grande raccordo anulare esistono altri e variegati mondi, che l’italianità è il risultato di mille somme: la propaganda ha creato il mostro.  

Se noi all’estero vogliamo consigliare un film ad amici o studenti di lingue, ecco quindi che è obbligatorio imporre l’uso dei sottotitoli, spiegando di fare molta attenzione a un fatto: quello che si parla lì, non è italiano.  

giovedì 11 novembre 2021

Il piccolo mondo di Peppone e don Camillo

Tra gli anniversari che ci aspettano il prossimo anno, giunge quello, lieto, del primo atto della saga cinematografica di Peppone e don Camillo, il “Don Camillo” firmato alla regia dal francese Julien Duvivier. Creati dalla penna di Giovannino Guareschi, il narratore del “grande fiume”, i due personaggi devono alla trasposizione cinematografica (e ai volti di Fernandel e Gino Cervi) la loro grande popolarità. Prima dei personaggi è però il fiume il grande protagonista, quel Po che Guareschi faceva cominciare a Piacenza “perché l'acqua è roba fatta per rimanere orizzontale, e soltanto quando è perfettamente orizzontale l'acqua conserva tutta la sua naturale dignità. Il Po comincia a Piacenza, e a Piacenza comincia anche il Mondo piccolo delle mie storie, che è situato in quella fetta di pianura che sta fra il Po e l'Appennino”.

Il fiume è sorgente di vita, che provvede i raccolti per l’uomo e la sussistenza per le mandrie, ma è anche un improvviso nemico quando si ingrossa e tracima. La saga di don Camillo non è solo sorrisi, ma è un sunto della commedia umana: anche nei film la tragedia è dietro la porta. L’alluvione del 1951 o i morti di Reggio Emilia del 1960 sono lì a ricordarci l’effimero della nostra esistenza.

L’altra grande protagonista è l’umanità. Nelle vicende dei due protagonisti si condensa una carica di umanità che va oltre l’odio che può provocare la divergenza politica. E non è poco. Quelli dell’immediato dopoguerra erano anni tesi, segnati dalla violenza della vendetta post conflitto. Soprattutto nei primi due film, il ricorso costante alle armi ci ricorda il clima che si viveva nella Bassa raccontata da Guareschi. Non si veniva solo alle mani, ma ci si sparava, ci si ammazzava sia per regolare conti in sospeso che per sostenere la propria fede politica. La fisicità dei primi film della serie è però compensata dalla conciliazione che don Camillo e Peppone trovano sempre, guidati da una morale pervasa da valori inalienabili quali l’onestà, la tolleranza, la solidarietà, l’amicizia. La storia dei due personaggi è infatti la storia di una grande amicizia che si intravede nelle pagine di Guareschi ma che si evidenzia ancor di più nella saga cinematografica. Furono cinque i film della serie originale: “Don Camillo” (1952), “Il ritorno di don Camillo” (1953), “Don Camillo e l’onorevole Peppone” (1955), “Don Camillo monsignore... ma non troppo” (1961), “Il compagno don Camillo” (1965) fino allo sfortunato sesto intento, che venne declinato a causa della morte improvvisa di Fernandel.

La coppia Cervi-Fernandel venne fuori un po’ per caso. Al ruolo di Peppone era destinato lo stesso Guareschi: baffoni, sguardo fiero e un amore sviscerato per il suo personaggio non lo salvarono dal fiasco davanti alla telecamera. La prima scena a girarsi fu quella del “cazziatone” negli spogliatoi nell’intervallo della partita di calcio tra la Dinamo comunista e la squadra della parrocchia. Non ci fu verso e Guareschi fu sostituito dall’abile e sperimentato Gino Cervi, bolognese DOC, che lo scrittore avrebbe voluto invece nella parte di don Camillo. Alla fine, non era il film che Guareschi aveva desiderato. Fu campione d’incassi, Fernandel vinse il Nastro d’Argento, si proiettò in più di venti paesi, ma lo scrittore parmense si sentì tradito: “il film è uscito come lo volevano loro”, commentò amaramente. Mentre i suoi personaggi entravano nella leggenda e i film guadagnavano milioni, a Guareschi toccò l’ostracismo, la critica che gli piovve indistintamente da ogni parte politica. Era uno scrittore inviso, sanguigno. Lui, anticomunista, in realtà somigliava per la sua irruenza proprio a Peppone. L’impulsività lo porterà in carcere nel 1954, a Parma, per tredici mesi, l’unico giornalista italiano dalla nascita della Repubblica a scontare interamente una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Un record poco invidiabile nel nostro paese dove tutti sparlano e sproloquiano su tutto e tutti impunemente. Un dettaglio interessante: Guareschi muore nel 1968 in seguito a un infarto e al funerale, la sua bara sarà avvolta nella bandiera monarchica, proprio come accade nella scena delle esequie della maestra Cristina del primo film.

I cinque film della saga sono disponibili su youtube sul canale Classic Serials & Films, restaurati e con sottotitoli in spagnolo:

https://www.youtube.com/channel/UCx-ExHcuec8CR1b97r75b7A

mercoledì 27 ottobre 2021

La notte in cui il Po inondò il Polesine

"Nelle notti estive, dalle mie parti, le strade diventano canali e rigano d’argento la malinconia della natura”. Il Polesine narrato da Gian Antonio Cibotto è un luogo incantato, dove il delta del Po, ammantato dalle nebbie, offre rifugio a uomini e animali, il cui destino è quello di schivare lo spazio e il tempo. Cibotto è stato il cantore contemporaneo del Polesine, terra magica e coriacea ma anche terra sofferta. Proprio il suo esordio letterario, nel 1954, aveva il titolo di un dramma reale, “Cronache dell’alluvione”, calamità di cui si compiono settanta anni il prossimo novembre. Una piena che si portò via case, strade, vite e che configurò un futuro inaspettato e drammatico per migliaia di persone. Furono quasi 200.000 gli sfollati, poco più di un centinaio i morti.

Nel mezzo degli anni Sessanta, quando ero bambino, si parlava ancora di quella tragedia con un misto di pena e commiserazione. La portata del disastro, come quello del Vajont, era rimasta come una marca indelebile nella memoria delle persone. Era una tragedia, poi, che si poteva toccare con mano. Nell’immediata periferia di Torino erano tante le famiglie degli sfollati che avevano perso tutto (case, averi, in alcuni casi i familiari) e che erano giunte in cerca di lavoro e di un’opportunità di rifarsi una vita. Emigrarono in 80.000 (praticamente uno ogni tre abitanti), una diaspora che ha lasciato i segni nelle famiglie contadine del Polesine, sconvolgendole quasi quanto una guerra.

Il Po, che aveva dato vita e alimento, si era trasformato improvvisamente in un nemico, complici le piogge torrenziali dei giorni precedenti. Gli argini ruppero la sera del 14 novembre 1951 la sponda sinistra del Po, dove si trovano i comuni della provincia di Rovigo. La rottura avvenne nella località di Canaro, poi a Occhiobello. Come al solito, la gestione dell’emergenza venne trattata superficialmente da parte delle autorità che, incapaci di prendere delle decisioni risolutive, temporeggiarono, e stettero quindi a guardare come l’onda di riflusso allagò nei giorni successivi anche l’Alto Polesine che per il momento era scampato al disastro. 

In un’Italia ancora priva della televisione le notizie arrivavano frammentarie per radio, incapaci a rendere fedelmente l’immane portata della tragedia. I due terzi delle acque del Po, invece di fluire nell’Adriatico, si erano riversate nella pianura rodigina devastando le case e gli averi di chi appena si stava riprendendo dagli sfracelli del conflitto mondiale. Le testimonianze del tempo raccontano come il fiume esondato aveva costretto le persone a scappare con solo quello che avevano addosso. L’acqua sommerse tutto. Nelle case rimasero le tavole imbandite, i letti appena toccati da chi si preparava ad andare a dormire, come se la vita si fosse fermata in un istante prestabilito.

Noi ragazzini sentivamo parlare della tragedia, che si perpetuava nel tempo, un dramma che era diventato costante. Il Po, infatti, continuava ad esondare in quegli anni: nel 1957, nel 1960, nel 1966. Venire dal Polesine era sinonimo di sfollato. La migliore amica di mia madre si chiamava Norma ed era una di quelle adolescenti che da un giorno all’altro si erano trovate senza nulla. La tragedia l’aveva fatta forte, ma questo non cancellava il suo senso di urgenza per fare le cose, come se fosse sempre a un passo da perdere i suoi beni. La sua presenza era il segnale che nella vita conformista e agiata, in qualsiasi momento può accadere l’inevitabile.

Nel 1966, a quindici anni dalla disgrazia, nel Polesine non era ancora stato ripristinato il servizio d’acqua potabile. Chi aveva avuto l’ardire di tornare doveva fare i conti con un’arretratezza che aveva riportato la zona a cento anni prima. Non si poteva coltivare la terra, ancora impregnata d’acqua, non vi erano fonti di sussistenza. Poi, finalmente, partì la bonifica. Gli argini vennero alzati (le terre sono in media a 3-4 metri sotto il livello del mare), si investì sull’agricoltura, si innalzarono gli zuccherifici. Il Polesine era rinato ed oggi è diventato un esempio di come si può ripartire dal nulla e creare benessere. E divagare, dal punto di vista dello scrittore, di una terra dove la notte “le strade diventano canali”.

giovedì 14 ottobre 2021

L'addio dei Beatles: la versione secondo McCartney

Periodicamente, si torna a parlare dei Beatles. E a ragione, direi, anche se le ultime uscite di Paul McCartney –rimasto con Ringo Starr a rimembrare le glorie passate- sono tese a specifiche promozioni commerciali: il documentario “Get Back” di Peter Jackson (dal 25 al 27 novembre su Disney+) e il libro dello stesso McCartney “The Lyrics” (in libreria dal 2 novembre). In questo contesto c’è spazio per diverse interviste, con una in particolare che ha rimesso il dito nella piaga riguardante lo scioglimento del gruppo. Negli anni si era più volte paventato l’unilaterale allontanamento di McCartney, che avrebbe così provocato la rottura. Questa volta, alla BBC senza troppi giri di parole, il bassista si sfila di dosso la responsabilità dell’infausto avvenimento addossandone l’onere a John Lennon. “I didn’t instigate the split. That was our Johnny” ha affermato e la spiegazione che ne dà è perfettamente plausibile. Lennon voleva rifarsi una vita –privata e artistica- con Yoko Ono. Un giorno si è presentato in studio e ha detto: lascio i Beatles. Gli avvocati? Era l’unica maniera di proteggere il patrimonio dei Beatles. Yoko Ono? Nessuna responsabilità, lei e John facevano una bella coppia. La musica? Stavamo facendo degli ottimi lavori (“Abbey Road” e “Let it Be”). Insomma: “That’s it, I quit”, come dice la canzone (quella di Nick Lowe, per intenderci).

L’intervista integrale, che andrà in onda sabato 23 ottobre su BBC Sounds, non ci riporterà indietro i Beatles ma sarà comunque una testimonianza in più da aggiungere a quel periodo e a quel particolare momento. Soprattutto ricordando come gli anni successivi allo scioglimento furono prolifici per i quattro di Liverpool non solo per il numero di brani pubblicati, ma soprattutto per la sostanza degli stessi. George Harrison che pubblica il triplo “All Things Must Pass”, Lennon che si erge a paladino del pacifismo attraverso “Imagine”, McCartney che affina la sua scrittura con varie perle (su tutte, sensazione personale, “Band on The Run”). Perfino Ringo Starr sforna album godibilissimi (“Ringo” soprattutto). Il patrimonio dei Beatles venne spillato in quattro differenti damigiane, fornendo dell’ottimo vino che, chissà, avrebbe raggiunto vette ancora più encomiabili se i quattro fossero rimasti insieme. Chissà...

L’alchimia all’interno di un gruppo è tenuta insieme da piccoli funi immaginarie sempre pronte a spezzarsi. Tensioni, litigi, magia, estremismo, affetto e creatività si mischiano con frequenza in quella che è, a tutti gli effetti, la riproduzione di una famiglia. Forse, proprio quella che John, svezzato dalla zia, cercava e che, al momento della maturità, ha lasciato per provare altre strade, la propria strada. C’è da credere a Paul e lasciare da parte la leggenda dello spaccamento provocato da Yoko Ono o a quella che lo voleva responsabile dello scioglimento. John Lennon era pronto per prendere il volo, i Beatles a diventare storia.

lunedì 4 ottobre 2021

John Mayall, la fine del viaggio

I have decided, due to the risks of the pandemic and my advancing age, that it is time for me to hang up my road shoes”. Comincia così il lungo messaggio su Facebook, attraverso il quale John Mayall comunica il suo quasi totale abbandono delle scene. Un altro grande vecchio, di quelli che ci hanno abituato alla buona musica, getta la spugna per ragioni dovute all’età. Mayall si appresta infatti a compiere 88 anni e, pre pandemia, si era mantenuto attivo con una pioggia di concerti in tutto il mondo. Il virus, dannato sia, ha fermato anche lui che, comunque, tranquillizza lo zoccolo duro del suo pubblico, promettendogli qualche concerto vicino a casa, nella zona di San Francisco. 

John Mayall ha un pregio: è sempre rimasto fedele a se stesso. Non si è mai fatto abbindolare dalle mode ed è passato incolume attraverso i decenni mentre proponeva l’immenso repertorio del blues; reinterpretato in chiave bianca, ma pur sempre un gran signor blues. La sua band, the Bluesbreakers, è stata la palestra di tanti talenti che poi, abbandonata casa, hanno scritto grandi pagine di musica: Eric Clapton, John McVie, Jack Bruce, Aynsley Dunbar, Dick Heckstall Smith, Jon Hiseman, Mick Taylor, Peter Green, Keef Hartley, Harvey Mandel e così via. Chi conosce un poco la scena londinese degli anni Sessanta sa di cosa sto parlando. Chi, invece brancola nel buio, ha la possibilità di prendere questi nomi e trasferirfli su Spotify per un viaggio propedeutico che gli insegnerà molte cose. L’esperienza, seppure liquida, vale la pena.

L’accademia di John Mayall era la scuola per eccellenza, la gavetta necessaria per chi, con il blues nel sangue, avrebbe presto messo le ali per volare altrove. Cream, Colosseum, Fleetwood Mac si formano in quel laboratorio che, alchemicamente, prendeva un genere prettamente acustico e lo trasformava in energia elettrica. La lezione che Muddy Waters aveva portato in Inghilterra prendeva forma attraverso la musica di John Mayall e di un altro grande presto dimenticato, Alexis Korner. Grazie a quella formula, il blues, un vagabondo povero dalle scarpe rotte, prendeva una dimensione internazionale e diventava ricco (non solo nell’accezione monetaria, ma soprattutto artistica), influenzando il resto della musica per almeno due decenni.

Ascoltare Mayall oggi è ascoltare la colonna sonora dei nostri tempi. Mettere i suoi dischi “sul piatto” è richiamare il passato, studiare la cultura pop mentre, per qualsiasi musicista significa ripassare l’abc di come prendere in mano uno strumento e dedicarcisi con passione. Un po’ di ripasso, quindi, non fa male. “Blues Breakers with Eric Clapton”, “Bare Wires”, “Blues from Laurel Canyon” con il salto negli Stati Uniti e poi avanti fino a “70th Birthday Concert”, monumentale antologia dal vivo di due ore e mezza, sono sollucchero per i patiti e pietre miliari da offire agli iniziati. In mezzo, “Wake Up Call”, disco adunata del 1993 dove sono con lui Buddy Guy, Albert Collins, Coco Montoya, Mavis Staples, Mick Taylor e tanti altri episodi caldi, lussuriosi, imperdibili.

“La cosa principale è l’improvvisazione” dichiara Mayall nelle interviste. “L’idea è quella di creare musica, di esplorare la musica”. In un’epoca dove è tutto programmato, il blues ha la sua ragione di essere e anche se Mayall ha appeso le sue “road shoes”, lasciamo che la sua musica continui a camminare ancora a lungo.

 

giovedì 23 settembre 2021

I 200 anni del Centroamerica: com'è difficile l'indipendenza

Settembre è, in Centroamerica, il mese in cui si celebra l’anniversario dell’indipendenza dalla Spagna. In una festosa e suggestiva cerimonia, ogni anno da Città del Guatemala parte il corteo che trasporta la torcia, simbolo dell’indipendenza, da quella che allora era la capitale della Capitanía fino alla provincia più lontana, quella del Costa Rica, attraversando El Salvador, Honduras e Nicaragua. La fiamma, che rappresenta lo spirito di libertà dei centroamericani, viene accesa il primo settembre nella capitale guatemalteca e raggiunge, il 15 settembre, quella costaricana.

Si tratta di un viaggio simbolico, realizzato oggi a brevi tratti da differenti studenti delle scuole medie, che ripercorre quello svolto nel 1821 da una staffetta che portò nelle varie province centroamericane la notizia che l’assemblea dei notabili riuniti a Città del Guatemala aveva deciso di proclamare l’indipendenza. Assaporata l’autodeterminazione, le cinque province, dopo un periodo di assestamento e un inutile tentativo di federazione, scelsero di proclamarsi ognuna stato nazionale a se stante.

Quest’anno la data racchiude un significato particolare perché Guatemala, El Salvador, Honduras, Nicaragua e Costa Rica hanno raggiunto i duecento anni di vita. Due secoli è un lungo periodo: gli stati che vantano questa longeva vita, normalmente, si fanno forti; si danno istituzioni solide; offrono progresso e benessere ai propri cittadini. Non è stato così. Gli avvenimenti storici, invece di avvicinare, hanno allontanato le nazioni scrivendo pagine spesso sanguinose, risultato di scelte autoritarie e di dipendenza, di fatto, da poteri lontani. Abbandonata la Spagna, i gruppi politici hanno cercato nuovi padroni stranieri in beneficio proprio invece di quello comune, con conseguenze che si continuano a pagare.

Il bicentenario centroamericano trova oggi un panorama poco lusinghiero. I paesi centroamericani sono un insieme geografico ma, allo stesso tempo si mantengono lontani da scelte unitarie, estranei nel riconoscersi come progenie di uno stesso ceppo. I problemi strutturali li indeboliscono e le soluzioni latitano. Ai mali antichi se ne sono aggiunti di nuovi, primo fra tutti il narcotraffico che mina le istituzioni e che si fa forte con il tempo come un cancro all’interno di un organismo. Perfino il Costa Rica, che anteriormente si era distinto come un esempio di sana democrazia nel novero delle nazioni latinoamericane, è caduto nel giogo della facile consuetudine ai trucchi del regime, alla politiquería.

In questi frangenti poco luminosi, mi piace pensare al civismo che dimostrano gli studenti che, con sole, pioggia o pandemia, accompagnano la torcia. Orgogliosi nelle loro uniformi, sostenendo la bandiera, ragazze e ragazzi incarnano, per alcuni struggenti momenti, l’esempio di come debba e possa essere il loro futuro. Nella loro ingenuità ricordano comunque che un mondo migliore è possibile.

Buon compleanno Centroamerica, che non sia troppo amaro.

Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...