giovedì 16 marzo 2023

Corsi e ricorsi della censura: "Cuore" libro sovversivo

La censura non è nulla di nuovo, ma facciamo bene ad indignarci di fronte a operazioni come quella della Puffin Books nei confronti delle opere di Roald Dahl o della Blossom Books olandese nei riguardi della “Divina Commedia”.  (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/07/non-toccate-lislam-sacrificate-dante.html). Alzare la voce è un dovere morale contro le derive. Si tratta di corsi e ricorsi storici, ispirati da fascismi, nazionalismi, totalitarismi o, nei nostri tempi, anche dalla tirannia imposta dalle corporazioni che mascherano proficue operazioni commerciali con il falso proposito di proteggere le minoranze.


L’esperienza ci insegna che nessun testo è immune dall’imbecillità. Alla censura non scappò nemmeno “Cuore”, un testo amato da generazioni di studenti e all’apparenza innocuo, che però divenne inviso al governo argentino. Il libro di De Amicis venne edito in questo paese sudamericano nel 1887 e andò subito a ruba tra gli emigrati italiani. L’autore era stato in Argentina tre anni prima per tenere una serie di conferenze sul Risorgimento e al suo ritorno in Italia aveva scritto differenti articoli sulla realtà dei compatrioti emigrati. De Amicis era uno dei pochi che narravano le vicende di quella umanità brutta sporca e cattiva, che l’Italia aveva espulso per manifesta incompetenza a poterla impiegare. Ci scrisse un libro straziante (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/06/il-romanzo-poco-epico-dellemigrante.html) e periodicamente tornava a incidere con la sua penna sulla questione. La sua popolarità in Argentina, dove al tempo vivevano già due milioni di italiani, era alle stelle. Avvenne che, grazie al suo successo e con il sistema educativo agli albori, “Cuore” venne adottato nel 1894 come libro di testo delle elementari. Presto, al ministero si resero conto di aver fatto un errore. “Cuore” infatti celebrava lo spirito patriottico italiano, racchiudeva tra le sue righe l’esaltazione del processo d’indipendenza e, in generale, faceva sentire i nostri connazionali orgogliosi della patria lontana. Tutto il contrario di quanto si era prefissato il governo locale, che contava sulla scuola per cementare il sentimento nazionalista della giovane repubblica rioplatense, formata da genti tanto diverse tra loro. La scuola doveva integrare, creare l’argentino del futuro e non lodare lo straniero.

Così, “Cuore” si trasformò da libro scritto per la gioventù in un testo sovversivo. Presto la politica lo additò come nemico della coscienza nazionale argentina. Anche l’amico deputato Zevallos (citato in un passaggio del libro) prese le distanze da De Amicis: l’Argentina rischia di diventare “una nación que no tendrá lengua, ni tradiciones, ni carácter, ni bandera” scrisse. Tra i più acerrimi avversari della sua diffusione ci fu l’ex presidente della Repubblica Domingo Sarmiento, che era anche scrittore e giornalista. Sarmiento diede vita a una campagna per sopprimere la presenza di “Cuore” nelle scuole, libro che additava addirittura come cavallo di Troia per future pretese italiane su porzioni del territorio argentino (e citava come esempio gli inglesi e le Malvinas).

In questo contesto, “Cuore” fu ritirato dalle scuole. Ma non per molto. Ben presto ci si rese conto che non esisteva un testo con le caratteristiche del libro di De Amicis e si pensò di reintrodurlo tramite la formula della censura.

Gli autori Germán Berdiales e Fernando Tognetti diedero vita a una profonda revisione del libro di De Amicis, da cui nacque “Corazón. Traducción y Adaptación para los niños argentinos”. Destinato alle scuole, il nuovo testo stravolse l’originale, con il proposito di fomentare nei bambini il senso di appartenenza alla nazione che, in moltissimi casi, li stava accogliendo per farne degli argentini a tutti gli effetti. Secondo la tesi presentata nell’introduzione, “Cuore” originale era sì un’opera ammirevole, ma non consona alla sensibilità dei bimbi argentini. Berdiales e Tognetti mantengono inalterata la struttura del romanzo, ma lo rielaborano al gusto locale, a cominciare dal nome dei protagonisti: Enrico diventa Enrique, Franti è Franco, Coretti Correa, Robetti Roberts, in una libera traduzione che vuole garantire il multiculturalismo della società argentina. Gli avvenimenti storici italiani vengono mutati a favore di quelli argentini: non si commemora Vittorio Emanuele II, ma il generale Belgrano; Garibaldi scompare a favore di San Martín, l’eroe dell’indipendenza dalla Spagna. Non solo. I modelli dei giovani eroi, la cui origine geografica era servita a De Amicis a tracciare lo spirito patriottistico che pervadeva la nuova generazione italiana dalle Alpi alla Sicilia, sono modificati: il piccolo scrivano fiorentino diventa el pequeño copista rosarino, la piccola vedetta lombarda muta nel pequeño observador tucumano, il tamburino sardo si trasforma nel tamborcito salteño. 

L’opera di Berdiales e Tognetti non fu l’unico tentativo di sostituire l’impianto originale di “Cuore”. L’insegnante Carlota Garrido De La Peña lo aveva già fatto nel 1913 con “Corazón argentino”, che venne utilizzato come libro di testo nelle scuole elementari argentine ed ebbe sei riedizioni. La censura durò fino alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo quando, ormai stabilizzato il processo nazionalista, gli argentini ritennero di restituire “Cuore” alla sua versione originale, con tante scuse a De Amicis e a quanti avevano creduto che il piccolo patriota padovano fosse invece un ragazzino di San Luís.

Su tutta la vicenda, lo studioso Giovanni Albertocchi dell’università di Girona, ha dedicato un esauriente lavoro sui Quaderns d’Italià (26, 2021).

giovedì 9 marzo 2023

ll congiuntivo dell'ultimo millennio

L’italiano è in terapia intensiva, lo sappiamo da un pezzo. Abbiamo seppellito il terzo periodo ipotetico, abbiamo eretto il che polivalente a soluzione grammaticale assoluta e riempito la nostra lingua di vocaboli anglofoni. È giusto che la lingua sia in movimento, ma si ha la sensazione che invece di progredire l’italiano sembra vivere il fenomeno contrario, quello della regressione. Da decenni si parla, poi, della malattia del congiuntivo, un malato che sembra sempre sul punto di tirare le cuoia. Già nel 1984, quasi quaranta anni fa, il linguista e scrittore Cesare Marchi intitolava un suo polemico articolo “La morte del congiuntivo”, in cui dava la colpa del decesso ai mass media, colpevoli di impoverire la lingua e di afferrarsi sempre di più alle espressioni esterofile.

Il congiuntivo, però, non è morto e, seppure con difficoltà, continua a sopravvivere. Alberga nelle anime pure, quelle che in un’epoca di certezze, esprimono con riguardo il proprio punto di vista, dubitano e desiderano. Sentimenti chiari, che, dando un’occhiata ai social network non si trovano più nella grande maggioranza degli italiani. Le persone non hanno remore, ciò che esprimono sono asserzioni, affermazioni che non ammettono repliche. Tutti sanno tutto, per cui se non ho dubbi o non metto in moto il cervello, non ho bisogno di usare il congiuntivo. La crisi, più che linguistica, è quella di una società che è incapace di mettersi in gioco e quindi di esporre un pensiero critico che è relativo e non verità assoluta. Basta seguire i commenti su qualsiasi punto d’incontro virtuale. Il tempo verbale padrone è l’imperativo, signore supremo del vituperio. Le nostre opinioni sono categoriche su ogni argomento e non ammettiamo obiezioni.

Eppure, avremmo bisogno di obiettare, requisito necessario per aprirci al confronto. Il congiuntivo è il modo della riflessione, è il tempo verbale che ci mette in relazione e ci fa comprendere il mondo che ci circonda. È l’immagine della nostra consapevolezza, della nostra capacità di elevarci come esseri in grado di esprimere pensieri, di provare emozioni e di esternare i sentimenti. Umberto Eco affermava che il modo indicativo si riferisce al mondo reale, mentre il congiuntivo si riferisce a un mondo possibile. Qui sta tutta la bellezza del suo uso. Il territorio dove si muove il congiuntivo è il mondo delle nostre speranze, dei desideri e anche dei nostri timori, della nostra fragilità di esseri finiti con ansia di conoscenza. Argomenti questi che si situano nel mondo della discussione e della conversazione, della nostra capacità di comunicare con le altre persone.

Non solo. La lingua è potere. Una volta si accusava il congiuntivo di essere discriminante. Chi lo usava, era perché aveva fatto le scuole migliori e passava immediatamente ad essere consapevole del proprio ruolo all’interno della classe dirigente (la famosa frase di don Milani “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”). La breccia poteva essere colmata con lo studio, circostanza che rimane valida ancora oggi, quello studio che possa portare l’italiano medio oltre le 3000 parole che usa per esprimersi (parola di Tullio De Mauro). La lingua aumenta il livello delle competenze, scava nel profondo. Sul lavoro, apre opportunità, in politica argina il populismo. Per l’individuo, apre frontiere. Abbiamo la possibilità di fare la differenza, sta a noi averne o no l’intenzione.

lunedì 27 febbraio 2023

Conversazione con l'intelligenza artificiale

Gli esperti minimizzano: l’intelligenza artificiale non può rimpiazzare il lavoro di giornalisti e scrittori. Ho i miei seri dubbi. Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione tecnologica e così come nel corso dei secoli abbiamo mandato in pensione maniscalchi, fabbri, lattai, cestai, miniaturisti e lavandaie, in questione di poco tempo la macchina farà piazza pulita dei lavori dell’intelletto. Primo perché l’intelletto è una scocciatura, crea idee che possono risultare rivoltose, e secondo perché ormai il mercato ha bisogno di prodotti confezionati ad arte per la fruizione del pubblico. Una fruizione che deve essere priva di sbavature e che segue un copione fisso. Pensate a scrittori come Joel Dicker, E.L. James, Guillaume Musso, tanto per fare alcuni nomi conosciuti, che creano storie a tavolino, prive di emozioni stilistiche, tutti perfettini, che non sbagliano una virgola e che offrono al lettore, su un vassoio d’argento, proprio quello che si aspettano di leggere. Mai una concessione fuori dello schema prefissato. Allora, perché pagarli tanto quando il loro lavoro lo potrebbe fare una macchina?

Dalla Corea, dagli Stati Uniti ci informano che i primi libri scritti dall’I.A. sono già stati pubblicati e che possono essere reperibili su Amazon e sulle altre piattaforme digitali. Anche in Italia, il collettivo Roy Ming ci avvisa di aver realizzato una storia per bambini con l’aiuto di ChatGPT per il testo e di Midjourney per le illustrazioni.


Spinto dalla curiosità, sono andato al computer e ho avuto una conversazione con la ChatGPT su alcuni temi. Se dovrà sostituirmi, tanto vale sapere come accadrà. Si è dimostrata cortese, conosceva addirittura i miei libri anche se con qualche lacuna (la città in cui è ambientato “Il mostro di Armendáriz” è Lima e non Buenos Aires, per esempio e la trama de “Il segreto di Julia” era un poco distorta). Le ho chiesto se sarebbe stata d’accordo a scrivere un manoscritto con me e la sua risposta è stata: “con piacere. Sono qui per aiutarti in tutto ciò che concerne la scrittura”. E come? “Ti posso aiutare a scegliere un tema, a darti consigli sulla struttura e su come migliorare il tuo stile, e alla fine indicarti come trovare un editore”. Quale genere dovremmo trattare? “Il noir, la fantascienza, il fantasy e i romanzi d’amore sono i più indicati”. Benissimo e quindi come procediamo? “Devi creare personaggi interessanti e credibili, che giungano al cuore dei lettori. Chi legge ha bisogno di creare un rapporto emotivo con la storia e i personaggi”. Ah benissimo, le emozioni. Mi puoi aiutare a crearle? “Mi dispiace, ma non posseggo emozioni come gli esseri umani. A questo ci devi pensare tu. È un compito per lo scrittore. Devi, come ti dicevo, creare personaggi interessanti e sviluppare delle trame appassionanti in maniera da trasmettere sentimenti autentici grazie ai quali i lettori si emozionino con la tua storia”. Quindi, devo lavorare come sempre. Però mi puoi aiutare a sviluppare una storia avvincente? “Certo. Se hai una idea, fammela sapere. Io posso fare in modo di renderla emozionante e ben scritta”. Migliorare lo stile, insomma. Pensavo di scrivere più o meno bene e non ricorrere per questo a una macchina. Però, buono a sapersi. Pensiamo alla grana allora: mi puoi garantire il successo economico? “Il successo di un progetto letterario dipende da molti fattori, tra cui la qualità del testo, l’originalità della storia, la concorrenza nel mercato editoriale e la risposta dei lettori”.

Trama, stile, struttura. Cose che dovrebbe saper fare uno scrittore e invece, dalle sue repliche alle mie domande, era come se ChatGPT non vedesse l’ora di mettersi all’opera. Io, invece, avevo solo voglia di fare un paio di chiacchiere. Allora, ho continuato, quale sarà la funzione dello scrittore nel futuro? “Le storie e la narrativa create dall’uomo probabilmente non scompariranno, per cui gli scrittori saranno sempre necessari per la realizzazione di romanzi, racconti, copioni e altri lavori di intelletto”. Probabilmente non scompariranno, ha detto. A volte, il valore di un avverbio è determinante. Non mi restava che un’ultima domanda: un giorno mi sostituirai? “La scrittura è un’abilità umana complessa che implica non solo generare parole, ma anche la creazione di significati e di contesto. L’intelligenza artificiale è avanzata molto negli ultimi anni, ma non è ancora arrivata al punto di sostituire completamente uno scrittore”.

La macchina ha usato “ancora”: non è ancora arrivata, di nuovo un avverbio inquietante. Ergo, sarà solo una questione di tempo. Secondo uno studio dell’università di Oxford il 2049 sarà chiave: in quell’anno, infatti, l’I.A. sarà in grado di scrivere e pubblicare il suo primo best seller. Per mia fortuna, sarò morto.

sabato 7 gennaio 2023

Mafia e mercato, combinazione vincente

Joseph Iannuzzi, mafioso di lungo corso, legato alla famiglia Gambino, durante le lunghe giornate trascorse nel programma di protezione ai testimoni si dilettava a cucinare. Lo faceva per sè, per la scorta e per gli agenti dell’FBI che si presentavano a interrogarlo. Da quell’esperienza nacque “The Mafia Cookbook”, libro di ricette della mafia, che grazie al titolo esplicito e alla storia che girava intorno a Iannuzzi, vendette molto bene, tanto da essere ancora adesso, dopo trent’anni, ripubblicato. Morale di questa storia corta: la mafia vende. Brutto da dire, ma è così. Ci sono, in giro per il mondo, ristoranti, film, pizzerie, prodotti alimentari che fanno un costante riferimento alla mafia, riportando ottimi affari. Si tratta di un fenomeno prettamente italiano che celebra la criminalità organizzata come fosse un riconoscimento del genio nostrano. Non lo fanno gli altri popoli che eppure tra cartelli, yakuza, maras, triadi e fratellanze avrebbero dove attingere, ma lo facciamo noi come se si trattasse di un carattere distintivo del nostro carattere. La mafia scioglie nell’acido i bambini, fa saltare in aria i magistrati, ma cosa volete che sia se quella parolina magica mi fa vendere qualche pizza in più?

Ci muoviamo su due territori di sabbie mobili. Il primo dove la parola viene banalizzata. La mafia viene intesa come normalità, come un  convenzionale fenomeno di costume a cui, tra una carbonara e una pizza margherita, si rimuove la drammaticità. La mafia va intesa e giudicata per cio che è, criminalità allo stato puro, non ne possiamo svuotare il concetto per offrirle un salvacondotto e renderla accettabile. Eppure, è quello che succede ogni volta che i “Burger Mafia” o la “Al Capone pizza” vengono proposti al pubblico. Esemplare la sentenza del Tribunale dell’Unione europea contro “La mafia se sienta a la mesa”, una catena di ristoranti spagnoli: l’espressione “si siede a tavola” evoca convivialità e quindi dà un’immagine positiva di chi, invece, è manifestazione del male. Purtroppo, la sentenza non ha fermato la catena, che al giorno d’oggi vanta più di quaranta locali in Spagna e continua fare soldi a palate in barba alle centinaia di vittime della mafia.


Il secondo territorio è quello dove si celebra uno stereotipo che accomuna gli italiani a una delle loro peggiori espressioni come popolo. Da quando il film “Il Padrino” ha esposto le vicissitudini di una saga familiare criminale, è nato un genere di successo, che ha riproposto più e più volte negli anni le stesse situazioni, riducendosi perfino a episodi di macchiette da commedia leggera. La combinazione “italiano-mafioso” spopola all’estero, risibile e innocua all’apparenza, ma che in realtà in certi casi denigra e in altri detona inaspettati gradi di seduzione. È l’effetto del marchio, che perpetuiamo volontariamente e che poi sopportiamo con rassegnazione.

A causa della nostra volontaria strategia di mercato siamo riusciti a esportare la parola “mafia” in tutto il mondo, al punto da farla entrare nei vocabolari di ben 45 lingue differenti, più di quanto siano popolari “cappuccino” o “paparazzo”. Insomma, la combinazione è vincente e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.


mercoledì 21 settembre 2022

Il pomodoro, dolce veleno della cucina italiana

Senza pomodoro non si fa la pizza. Senza pomodoro non si fa il sugo per la pasta e nemmeno si può preparare una caprese. Insomma, senza pomodoro, la cucina italiana sarebbe un po’ persa o, quanto meno, irriconoscibile. Presente dalle Ande al Messico, probabilmente coltivato dagli aztechi, da cui prende il nome (xictomatl e in alcuni paesi dell’area centroamericana viene ancora indicato come “chiltoma”) il pomodoro sbarca a Siviglia a metà del XVI secolo. Eppure, non fa il botto. Quel frutto di color giallo (ed ecco perché gli italiani lo chiamano da subito pomo di oro) viene ritenuto pericoloso e potenzialmente velenoso, per la presenza di un alcaloide, la tomatina, e usato quindi solo a scopi ornamentali.

A differenza di quanto si possa pensare, la diffusione dei prodotti provenienti dall’America fu abbastanza lenta in Europa. La patata, il pomodoro, il mais, il peperone, i fagioli –per citare i più popolari- furono considerati per lungo tempo delle stramberie esotiche. Il parere negativo (“pianta dal sapore puzzolente e dalle foglie tossiche”) formulato dal botanico inglese John Gerard autore del trattato “Herball” (1597) fu decisivo per bandire il pomodoro dalle tavole inglesi e nordeuropee per lunghissimo tempo. Questo rifiuto rimase radicato anche negli Stati Uniti e fino al XIX secolo, se si pensa che un filosofo e saggista di fama come Ralph Waldo Emerson reputava il pomodoro “un oggetto orripilante e velenoso”. Gli italiani furono più benevoli. Castore Durante, botanico umbro, già nel 1585 nel suo “Herbario nuovo” scriveva che i pomodori si mangiano come le melanzane, ossia “con pepe, sale e olio” anche se, aggiungeva, “danno poco o cattivo nutrimento”.

È Antonio Latini, cuoco nel vicereame di Napoli, a vincere ogni diffidenza e  a deliziare per la prima volta i commensali con la “salsa di pomodoro alla spagnola”. Siamo nel 1694 (più di duecento anni dopo la spedizione di Colombo) e nel suo trattato “Lo scalco alla moderna”, Latini scrive: "Piglierai una mezza dozzina di pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra la brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v'aggiungerai Cipolle tritate minute, a discretione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo, o Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l'accomoderai con un po' di Sale, Oglio, e Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, o per altro".

Mentre in Germania e nel Nord Europa si continua a pensare che il pomodoro possa trasformare le persone in lupi mannari, in Italia si inizia a coltivarlo e a servirlo in tavola. Il primo riferimento ufficiale dell’uso del pomodoro in cucina si deve al trattato “Il cuoco galante” (1778), che presentava le ricette del napoletano Vincenzo Corrado che a corte coglie le potenzialità gastronomiche di questo prodotto, cominciando ad aggregarlo alla carne, al pesce, alle uova e, ovviamente alla pasta. Ciononostante, il pomodoro continua a essere considerato, nelle tavole degli aristocratici e dei borghesi, una trovata eccentrica. A renderlo popolare ci penserà la gente comune, la stessa che a Palermo sopravvive grazie agli avanzi della cucina dei nobili (creando stigghiola, mievusa e quarume) e che a Genova, da ingredienti di scarto –come i pinoli e il basilico- si inventa il pesto. Nel 1839, nel ricettario di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, appare la prima ricetta ufficiale dei vermicelli al pomodoro, che mette per scritto la pratica quotidiana già da tempo consolidata del popolino napoletano, di cuocere i maccheroni per strada e condirli con il sugo di pomodoro. A ridosso del 1830 diventa popolare come ingrediente anche nella pizza, la cui fama comincia a diffondersi nelle “stanze”, le prime pizzerie. Ci penseranno i nostri immigrati a insegnare al mondo che il pomodoro non è un veleno, portando pizza e pasta un po’ ovunque.   


martedì 16 agosto 2022

Come avvicinarsi al romanzo noir latinoamericano

Sabato 3 settembre 2022, alle ore 10 Costa Rica (ore 18 in Italia) si terrà la webinar “I colori del giallo” con gli scrittori Erica Arosio, Flavio Villani e il sottoscritto. Organizza la Dante Alighieri di San José e la partecipazione è libera, come attività ai margini della XXI edizione della Feria Internacional del Libro en Costa Rica. Avvicinandoci a quella data, ne approfitto per parlare un po’ di romanzo noir in vari contesti. Cominciamo con una pennellata generale sull’America Latina.

 

Nel momento di maggior interesse in Italia per il romanzo noir, rimane ai margini il giallo latinoamericano, complice probabilmente la vasta varietà proposta dall’offerta nazionale. Il nostro noir di matrice mediterranea ha fatto molteplici proseliti, si è moltiplicato lasciando le piacenti sponde per internarsi perfino nel regionalismo. Il noir italiano è comodo e sicuro: trasuda melanconia, offre scene domestiche che ci sono familiari, c’è il mare (o la nebbia, a seconda del luogo) e ci sono quei cari momenti di pausa in cui perfino il crimine più efferato viene messo da parte perché si va a tavola. Leggere i nostri autori nazionali vuol dire riconoscersi, ribadendo l’italianità con i pro e contro della nostra indole.

Andare all’estero ci obbliga a uno sforzo.  Dobbiamo addentrarci in un universo sconosciuto di cui abbiamo pochi e incerti riferimenti; ancora di più quindi se si tratta di America Latina. Eppure, vale la pena di soffermarsi sul romanzo noir latinoamericano. Nelle sue pagine troviamo l’urgenza, il dramma, la politica, l’abuso di potere e la situazione sociale, elementi che scardinano l’auto compiacimento su cui sono settati gli eroi statunitensi e del Vecchio continente. Cuba, Argentina, Cile, Messico, Perù. Il romanzo noir esplora le trame oscure non solo dei personaggi, ma di un’intera nazione: “come si può scrivere un giallo in un paese dove il crimine è fondamentalmente un crimine di Stato?” si chiedeva Paco Ignacio Taibo II. La risposta è conseguente: implicando il potere, smascherandone le sue trame. Il romanzo noir, la novela negra, in America Latina è prima di tutto denuncia. È narrare e descrivere nel profondo la realtà. Dalle dittature e dai conflitti armati del secolo passato non sono nate delle democrazie virtuose, ma sistemi di governo che, da destra a sinistra passando da un centro cinico e indifferente, non risolvono le istanze della gente comune. I personaggi offrono una visione drammatica della storia contemporanea, non si esauriscono all’interno di un cliché. Il detective, o la persona che si trova a investigare –che a volte è pure complice- denuncia non solo il crimine, ma tutto un sistema, rivelando quello che il potere si affanna a voler nascondere. È la realtà attuale, quella che si vive nel quotidiano, a esprimersi. Facciamo i nomi: è il 1994 quando Luís Sepúlveda pubblica “Nombre de torero” (“Un nome da torero”), romanzo che da solo potrebbe definire il genere. Prima di lui, però, già Rolo Díez, argentino con alcuni titoli su Tropea Editore e il cileno Ramón Díaz Eterovich, ideatore della serie del commissario Heredia (ma in Italia poco pubblicato), avevano tracciato la specificità del genere. Qui, la narrativa è alla pari del reportage, il gioco è per duri. Chi scrive si espone in prima persona per smascherare il terrorismo di Stato e i giochi di potere facendo della letteratura gialla il terreno di scontro (e ricordiamo che alcuni autori, in tempo di regime, si erano trovati dall’altra parte della barricata armi in mano, come lo stesso Díez o Raúl Argemí -in Italia edito da La Nuova Frontiera-). Paese che vai, scheletri che trovi, come nel Perù di Santiago Roncagliolo, dove la novela negra si fonde con gli accadimenti storici di un paese devastato da Sendero Luminoso e dalle dittature (lo trovate su Keller e Garzanti).


Le distinzioni regionali sono obbligatorie in un contesto ampio come quello latinoamericano. Abbiamo parlato di alcuni tratti comuni, ma non si può generalizzare. Il noir tropicalizzato di Leonardo Padura (edito da Bompiani) ha il respiro della vereda. Cuba è quello che è, uno trae le proprie conclusioni e Padura a Cuba ci vive e non ha intenzione di andarsene: “questo è il mio territorio, è il mio posto e ho deciso di restarci nonostante le difficoltà e i rimproveri che ho ricevuto”. Provare per credere, ossia leggere le peripezie di Mario Conde, il suo personaggio che è habanero nel profondo dell’anima.

L’ultima raccomandazione: non si commetta l’errore di credere che il romanzo noir di queste latitudini, dopo quello che abbiamo scritto, sia un genere politico. Vale anche in questo caso l’assioma dettato da Vázquez Montalbán: “se un libro è ben scritto, non appartiene a un genere, è buona letteratura e basta”. E se si vogliono cercare le origini del noir latino per dare fondamento a questa affermazione, date un’occhiata a “El complot mongol” (“Il complotto mongolo” rispolverato da La Linea nel 2011), di Rafael Bernal, il diplomatico messicano con il vizio del giallo e a Rubem Fonseca.

sabato 9 luglio 2022

Italo Calvino e la letteratura latinoamericana

A Italo Calvino non piacevano gli scrittori latinoamericani. Così, nella sua attività di recensore presso Einaudi bocciò decine di lavori proprio mentre le altre case editrici, attingevano a piene mani dal calderone del realismo magico e delle specifiche realtà regionali.

Siamo a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso e la letteratura latinoamericana è l’ultima frontiera, una sorta di eldorado da cui trarre ossigeno in un ambiente sempre alla ricerca di novità. Il subcontinente soffre di mali endemici e proprio da questa sofferenza nascono voci irripetibili che denunciano protesta, desolazione, povertà, lotta ma dipingono anche mondi fantastici sospesi tra cielo e terra. Feltrinelli “scopre” e pubblica García Márquez, Borges, Onetti, Puig, Manuel Scorza e Alfredo Bryce, oltre al “Diario del Che”. Perfino la moderata Mondadori inserisce nella collana “Medusa” il peruviano Ciro Alegría e Miguel Ángel Asturias. Calvino, invece sulla sponda Einaudi, rimane freddino nei confronti della moda del momento. Lo spiega lui stesso in un’intervista del 1984: “da principio diffidavo degli scrittori e dei poeti latinoamericani perché mi parevano dei personaggi ufficiali. Ora se c’è una cosa che io stesso detesto è il tipo di scrittore che diventa un personaggio ufficiale. E se qualcosa avrei voluto fare nel campo della letteratura con le mie modeste forze, è cancellare dalla mappa del mondo questo tipo di scrittura verso il quale sento dell’odio... mi ero fatto l’idea che gli scrittori latinoamericani fossero tutti così e quindi detestabili”. Una dichiarazione che dimostra l’onestà intellettuale, ma anche il limite politico dello scrittore. Sono gli anni dove la sinistra impone una certa egemonia nel mondo delle lettere e modella la visione della cultura. La cultura deve avere un volto piuttosto che un altro, confessa. Agli scrittori latinoamericani (Calvino ne conosce personalmente molti) manca in certi casi l’originalità e in altri l’universalità. Di conseguenza, non entrano nel suo progetto. Non è facile. L’America Latina fino agli anni Sessanta è prigioniera di uno standard denigrativo, per cui viene ritenuta come una regione incapace di creare cultura valida. Può andar bene per il mambo, ma approfondire, beh è un’altra cosa. Il subcontinente è un luogo pittoresco, ma inadatto a proporre quell’universalità che Calvino propugnava per la sua idea di letteratura. In questo senso, non aveva tutti i torti. Mentre lui si arrovella sulla questione di come risolvere la regionalità (le Ande, l’area rioplatense, il grande Messico, le Antille: non si può generalizzare), gli editori italiani si buttano senza ritegno in quella che, a partire dalla  pubblicazione di “Cien años de soledad” e dalla morte di Che Guevara, diventa la gallina dalle uova d’oro. Il passaggio dal disinteresse più completo all’amore sfrenato avviene in un batter d’occhio. La voracità che segue divora tutto e consegna al lettore la mitizzazione dell’America Latina vista come una sola entità, un luogo incredibile dove tutto succede e tutto è possibile, che accomuna l’etnoletteratura di Arguedas al mondo onirico di Puig; la pentalogia di Scorza alla poesia di Octavio Paz. Il lettore italiano confonde l’America Latina con l’esotica terra delle rivoluzioni e del realismo magico e, giocoforza, qualsiasi scrittore viene accomunato a questi processi. La confusione è completa.

Calvino, intanto, con la sua ostruzione rimane al margine. Preferisce la qualità alla quantità e manterrà questa posizione senza mai farsi influenzare. Tra i latinoamericani salva Julio Cortázar, per cui fece la prefazione di “Storie di cronopios e famas” giudicandole “la creazione più felice e assoluta” dello scrittore argentino, e José María Arguedas. Il peruviano autore di “I fiumi profondi” (Los ríos profundos, 1958), un’opera oggi tanto dimenticata quanto eccezionale, si avvale della prefazione di Mario Vargas Llosa, un altro dei pochi autori che passano l’esame della casa Einaudi. Le successive vicende editoriali dimostreranno come, in Italia, la complessità della letteratura latinoamericana, sia un caso ancora da risolvere.


Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...