lunedì 29 maggio 2023

Lo spirito oscuro di Pinocchio

“E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito”. Cosa sarebbe successo se il finale di Pinocchio sarebbe rimasto questo, quello di un disonorato burattino morto stecchito, impiccato alla Quercia grande?

Ci saremmo trovati di fronte a un grande romanzo gotico, erroneamente rivolto ai bambini. I primi quindici capitoli di “Storia di un burattino” pubblicati nel 1881 scorrono verso il finale inevitabile, la morte del suo protagonista. L’intenzione di Collodi è quella sin dall’inizio. Basta soffermarsi sui dettagli. L’ambiente solare della campagna toscana viene offuscato dai toni cupi dell’intera novella: la casa di Geppetto “pigliava luce da un sottoscala” e quando Pinocchio ci si ritrova solo tuonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse fuoco”. Quando il burattino deve andare a scuola ha nevicato tutta la notte. Più tardi Mangiafoco “Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio d’inchiostro, e tanto lunga, che gli scendeva dal mento fino a terra: basta dire che, quando camminava se la pestava coi piedi. La sua bocca era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani faceva schioccare una grossa frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme”. Il Grillo Parlante, ucciso con una martellata, riappare come un’ombra lugubre. Nell’ultimo capitolo originale Pinocchio, inseguito nella foresta dal Gatto e la Volpe sembra trovare un’inattesa salvezza: la luce di una casina suggerisce al lettore che Pinocchio si sottrerrà ai malviventi. Invece, la scena che si presenta davanti fa rabbrividire:

... Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:

-In questa casa non c’è nessuno; sono tutti morti.

-Aprimi almeno tu!- gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.

-Sono morta anch’io.

-Morta? E allora cosa fai costì alla finestra?

-Aspetto la bara che venga a portarmi via”.


È il preludio al finale. Il bosco, la selva oscura che fa ricordare Dante sulla soglia dell’inferno, è l’anticamera del regno dei morti dove la bambina appare a Pinocchio come uno spirito guida che lo porterà nell’aldilà. Subito, il burattino ribelle, che era stato ammonito all’inizio della storia dal Grillo Parlante (“i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo mondo”), viene preso per il collo dai suoi carnefici e sacrificato.

La storia doveva finire qui. Era il 17 ottobre 1881, ma le proteste dei piccoli lettori e del suo stesso editore, costrinsero Collodi a riprendere la narrazione e a portarla a termine due anni dopo. Non senza, però, essere obbligato ad alcune evidenti forzature, prima fra tutte la trasformazione dello spirito della bambina nella Fata Turchina. Nella seconda parte Pinocchio vive una serie di avventure, alcune anche inquietanti, ma che si muovono sul piano, appunto, dell’immaginario fiabesco, una specie di sogno angosciante da cui ci si aspetta che si svegli da un momento all’altro. E infatti, ecco il finale felice: a vincere è il lettore. Collodi, però, vuole lasciare una firma beffarda su quel finale, tre punti di sospensione: “Com’era buffo, quand’ero un burattino! E come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!...”. Pinocchio –ci vuol dire Collodi, piccato per la riscrittura del romanzo- ci sta prendendo in giro: un ragazzino perbene non lo sarebbe mai diventato.


lunedì 3 aprile 2023

Vietato parlare di pace

“Il robot bomba distrugge la postazione russa”, “I nostri soldati resistono ed eseguono la loro missione: uccidono”, “Proveremo i proiettili all’uranio”, “Non c’è spazio per i negoziati”, “La Polonia vuole più armi”. Titoli di guerra, sempre in prima pagina, pane quotidiano che entra nelle nostre case ad avvelenarci la coscienza. Le immagini ci fanno entrare nel carro armato che scoppia, nel fango delle trincee, ci fanno seguire il tracciato dei missili che abbattono gli elicotteri. Giorno dopo giorno i quotidiani italiani ci assuefano alla guerra. Video, articoli, editoriali, interviste. Da quando è scoppiata la crisi in Ucraina, i giornalisti della stampa e della radio televisione ci spiegano ogni giorno quanto la guerra sia necessaria. In questo contesto, dove è stato scelto per noi chi sia il cattivo e chi il buono, la parola “pace” è scomparsa, al punto da sembrare una vergogna citarla. Chi detiene il potere ha deciso. Eppure sono passati appena venti anni da quando, il 15 febbraio 2003, più di 110 milioni di persone scesero in piazza per dire basta al conflitto in Iraq. Il movimento, denominato dal New York Times come la “seconda potenza mondiale”, si era prefisso il compito di mettere la guerra fuori dalla storia. Una narrazione bellissima, romantica, idealista. Possibile, ma sfumata nel tempo, dissoltasi nell’aria come i petali prematuri del dente di leone.

Il movimento pacifista interpreta, dopo poco più di un anno di conflitto in Ucraina, il sentimento della gente comune, un sentimento nobile e fiero, di chi chiede di deporre le armi, di chi ripudia l’escalation. È un movimento, però, debole, che non riesce a far sentire la propria voce per un semplice motivo: non ha cassa di risonanza. Si può intuire perché. L’informazione che ci viene somministrata ha lo scopo ben preciso di divellere le basi della cultura di pace, ridicolizzando la tolleranza, la solidarietà tra i popoli, la fratellanza. I giornali, le televisioni che ci vendono le loro verità sono guerrafondaie. Sono la macchina di propaganda del bellicismo incosciente. Dobbiamo dire basta. Riporto l’intervento di Enrico Peyretti, che ho avuto l’onore e il piacere di aver avuto come insegnante ai tempi del liceo, che spero, serva a farci riflettere sulla china che abbiamo preso:

...Ogni guerra è intollerabile nemica della vita, di tutti, anche di chi la fa. Non c'è più nessuna guerra giusta, se mai poteva esserci in passato. La vittoria militare non porta diritto e giustizia, ma solo premia la maggiore violenza. Nessuna vittoria militare merita il prezzo del sangue umano, e delle sofferenze dei popoli. Non sono mai "eroi" gli uomini armati. La pace si deve fare ad ogni costo, con la parola e la politica, col disarmo, con la disobbedienza, pagando il prezzo necessario economico, politico, territoriale, deponendo ogni stupido orgoglio, come è necessario per vivere tutti degnamente. Alla guerra non si deve rispondere con la guerra, che non è difesa, ma imitazione di una logica pre-civile, pre-umana. Un popolo cosciente, unito, organizzato, difende il suo diritto solo se insabbia l'aggressore con la coraggiosa disobbedienza totale. Ogni potere esiste solo se è obbedito, se trova consenso. Disobbedire può costare qualche vita, ma con vero onore, mentre la guerra è sempre disonore. Non gli zar e i Napoleoni, ma Tolstoj e Gandhi sono i maestri della politica necessaria oggi. Imparate, stolti imperi Usa, Russia, Cina e servi vostri. Impara Europa, i tuoi Erasmo e Kant, che hai dimenticato!” (Enrico Peyretti).

giovedì 16 marzo 2023

Corsi e ricorsi della censura: "Cuore" libro sovversivo

La censura non è nulla di nuovo, ma facciamo bene ad indignarci di fronte a operazioni come quella della Puffin Books nei confronti delle opere di Roald Dahl o della Blossom Books olandese nei riguardi della “Divina Commedia”.  (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/07/non-toccate-lislam-sacrificate-dante.html). Alzare la voce è un dovere morale contro le derive. Si tratta di corsi e ricorsi storici, ispirati da fascismi, nazionalismi, totalitarismi o, nei nostri tempi, anche dalla tirannia imposta dalle corporazioni che mascherano proficue operazioni commerciali con il falso proposito di proteggere le minoranze.


L’esperienza ci insegna che nessun testo è immune dall’imbecillità. Alla censura non scappò nemmeno “Cuore”, un testo amato da generazioni di studenti e all’apparenza innocuo, che però divenne inviso al governo argentino. Il libro di De Amicis venne edito in questo paese sudamericano nel 1887 e andò subito a ruba tra gli emigrati italiani. L’autore era stato in Argentina tre anni prima per tenere una serie di conferenze sul Risorgimento e al suo ritorno in Italia aveva scritto differenti articoli sulla realtà dei compatrioti emigrati. De Amicis era uno dei pochi che narravano le vicende di quella umanità brutta sporca e cattiva, che l’Italia aveva espulso per manifesta incompetenza a poterla impiegare. Ci scrisse un libro straziante (https://maledettitropici.blogspot.com/2021/06/il-romanzo-poco-epico-dellemigrante.html) e periodicamente tornava a incidere con la sua penna sulla questione. La sua popolarità in Argentina, dove al tempo vivevano già due milioni di italiani, era alle stelle. Avvenne che, grazie al suo successo e con il sistema educativo agli albori, “Cuore” venne adottato nel 1894 come libro di testo delle elementari. Presto, al ministero si resero conto di aver fatto un errore. “Cuore” infatti celebrava lo spirito patriottico italiano, racchiudeva tra le sue righe l’esaltazione del processo d’indipendenza e, in generale, faceva sentire i nostri connazionali orgogliosi della patria lontana. Tutto il contrario di quanto si era prefissato il governo locale, che contava sulla scuola per cementare il sentimento nazionalista della giovane repubblica rioplatense, formata da genti tanto diverse tra loro. La scuola doveva integrare, creare l’argentino del futuro e non lodare lo straniero.

Così, “Cuore” si trasformò da libro scritto per la gioventù in un testo sovversivo. Presto la politica lo additò come nemico della coscienza nazionale argentina. Anche l’amico deputato Zevallos (citato in un passaggio del libro) prese le distanze da De Amicis: l’Argentina rischia di diventare “una nación que no tendrá lengua, ni tradiciones, ni carácter, ni bandera” scrisse. Tra i più acerrimi avversari della sua diffusione ci fu l’ex presidente della Repubblica Domingo Sarmiento, che era anche scrittore e giornalista. Sarmiento diede vita a una campagna per sopprimere la presenza di “Cuore” nelle scuole, libro che additava addirittura come cavallo di Troia per future pretese italiane su porzioni del territorio argentino (e citava come esempio gli inglesi e le Malvinas).

In questo contesto, “Cuore” fu ritirato dalle scuole. Ma non per molto. Ben presto ci si rese conto che non esisteva un testo con le caratteristiche del libro di De Amicis e si pensò di reintrodurlo tramite la formula della censura.

Gli autori Germán Berdiales e Fernando Tognetti diedero vita a una profonda revisione del libro di De Amicis, da cui nacque “Corazón. Traducción y Adaptación para los niños argentinos”. Destinato alle scuole, il nuovo testo stravolse l’originale, con il proposito di fomentare nei bambini il senso di appartenenza alla nazione che, in moltissimi casi, li stava accogliendo per farne degli argentini a tutti gli effetti. Secondo la tesi presentata nell’introduzione, “Cuore” originale era sì un’opera ammirevole, ma non consona alla sensibilità dei bimbi argentini. Berdiales e Tognetti mantengono inalterata la struttura del romanzo, ma lo rielaborano al gusto locale, a cominciare dal nome dei protagonisti: Enrico diventa Enrique, Franti è Franco, Coretti Correa, Robetti Roberts, in una libera traduzione che vuole garantire il multiculturalismo della società argentina. Gli avvenimenti storici italiani vengono mutati a favore di quelli argentini: non si commemora Vittorio Emanuele II, ma il generale Belgrano; Garibaldi scompare a favore di San Martín, l’eroe dell’indipendenza dalla Spagna. Non solo. I modelli dei giovani eroi, la cui origine geografica era servita a De Amicis a tracciare lo spirito patriottistico che pervadeva la nuova generazione italiana dalle Alpi alla Sicilia, sono modificati: il piccolo scrivano fiorentino diventa el pequeño copista rosarino, la piccola vedetta lombarda muta nel pequeño observador tucumano, il tamburino sardo si trasforma nel tamborcito salteño. 

L’opera di Berdiales e Tognetti non fu l’unico tentativo di sostituire l’impianto originale di “Cuore”. L’insegnante Carlota Garrido De La Peña lo aveva già fatto nel 1913 con “Corazón argentino”, che venne utilizzato come libro di testo nelle scuole elementari argentine ed ebbe sei riedizioni. La censura durò fino alla fine degli anni Quaranta dello scorso secolo quando, ormai stabilizzato il processo nazionalista, gli argentini ritennero di restituire “Cuore” alla sua versione originale, con tante scuse a De Amicis e a quanti avevano creduto che il piccolo patriota padovano fosse invece un ragazzino di San Luís.

Su tutta la vicenda, lo studioso Giovanni Albertocchi dell’università di Girona, ha dedicato un esauriente lavoro sui Quaderns d’Italià (26, 2021).

giovedì 9 marzo 2023

ll congiuntivo dell'ultimo millennio

L’italiano è in terapia intensiva, lo sappiamo da un pezzo. Abbiamo seppellito il terzo periodo ipotetico, abbiamo eretto il che polivalente a soluzione grammaticale assoluta e riempito la nostra lingua di vocaboli anglofoni. È giusto che la lingua sia in movimento, ma si ha la sensazione che invece di progredire l’italiano sembra vivere il fenomeno contrario, quello della regressione. Da decenni si parla, poi, della malattia del congiuntivo, un malato che sembra sempre sul punto di tirare le cuoia. Già nel 1984, quasi quaranta anni fa, il linguista e scrittore Cesare Marchi intitolava un suo polemico articolo “La morte del congiuntivo”, in cui dava la colpa del decesso ai mass media, colpevoli di impoverire la lingua e di afferrarsi sempre di più alle espressioni esterofile.

Il congiuntivo, però, non è morto e, seppure con difficoltà, continua a sopravvivere. Alberga nelle anime pure, quelle che in un’epoca di certezze, esprimono con riguardo il proprio punto di vista, dubitano e desiderano. Sentimenti chiari, che, dando un’occhiata ai social network non si trovano più nella grande maggioranza degli italiani. Le persone non hanno remore, ciò che esprimono sono asserzioni, affermazioni che non ammettono repliche. Tutti sanno tutto, per cui se non ho dubbi o non metto in moto il cervello, non ho bisogno di usare il congiuntivo. La crisi, più che linguistica, è quella di una società che è incapace di mettersi in gioco e quindi di esporre un pensiero critico che è relativo e non verità assoluta. Basta seguire i commenti su qualsiasi punto d’incontro virtuale. Il tempo verbale padrone è l’imperativo, signore supremo del vituperio. Le nostre opinioni sono categoriche su ogni argomento e non ammettiamo obiezioni.

Eppure, avremmo bisogno di obiettare, requisito necessario per aprirci al confronto. Il congiuntivo è il modo della riflessione, è il tempo verbale che ci mette in relazione e ci fa comprendere il mondo che ci circonda. È l’immagine della nostra consapevolezza, della nostra capacità di elevarci come esseri in grado di esprimere pensieri, di provare emozioni e di esternare i sentimenti. Umberto Eco affermava che il modo indicativo si riferisce al mondo reale, mentre il congiuntivo si riferisce a un mondo possibile. Qui sta tutta la bellezza del suo uso. Il territorio dove si muove il congiuntivo è il mondo delle nostre speranze, dei desideri e anche dei nostri timori, della nostra fragilità di esseri finiti con ansia di conoscenza. Argomenti questi che si situano nel mondo della discussione e della conversazione, della nostra capacità di comunicare con le altre persone.

Non solo. La lingua è potere. Una volta si accusava il congiuntivo di essere discriminante. Chi lo usava, era perché aveva fatto le scuole migliori e passava immediatamente ad essere consapevole del proprio ruolo all’interno della classe dirigente (la famosa frase di don Milani “l’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”). La breccia poteva essere colmata con lo studio, circostanza che rimane valida ancora oggi, quello studio che possa portare l’italiano medio oltre le 3000 parole che usa per esprimersi (parola di Tullio De Mauro). La lingua aumenta il livello delle competenze, scava nel profondo. Sul lavoro, apre opportunità, in politica argina il populismo. Per l’individuo, apre frontiere. Abbiamo la possibilità di fare la differenza, sta a noi averne o no l’intenzione.

lunedì 27 febbraio 2023

Conversazione con l'intelligenza artificiale

Gli esperti minimizzano: l’intelligenza artificiale non può rimpiazzare il lavoro di giornalisti e scrittori. Ho i miei seri dubbi. Siamo solo all’inizio di questa rivoluzione tecnologica e così come nel corso dei secoli abbiamo mandato in pensione maniscalchi, fabbri, lattai, cestai, miniaturisti e lavandaie, in questione di poco tempo la macchina farà piazza pulita dei lavori dell’intelletto. Primo perché l’intelletto è una scocciatura, crea idee che possono risultare rivoltose, e secondo perché ormai il mercato ha bisogno di prodotti confezionati ad arte per la fruizione del pubblico. Una fruizione che deve essere priva di sbavature e che segue un copione fisso. Pensate a scrittori come Joel Dicker, E.L. James, Guillaume Musso, tanto per fare alcuni nomi conosciuti, che creano storie a tavolino, prive di emozioni stilistiche, tutti perfettini, che non sbagliano una virgola e che offrono al lettore, su un vassoio d’argento, proprio quello che si aspettano di leggere. Mai una concessione fuori dello schema prefissato. Allora, perché pagarli tanto quando il loro lavoro lo potrebbe fare una macchina?

Dalla Corea, dagli Stati Uniti ci informano che i primi libri scritti dall’I.A. sono già stati pubblicati e che possono essere reperibili su Amazon e sulle altre piattaforme digitali. Anche in Italia, il collettivo Roy Ming ci avvisa di aver realizzato una storia per bambini con l’aiuto di ChatGPT per il testo e di Midjourney per le illustrazioni.


Spinto dalla curiosità, sono andato al computer e ho avuto una conversazione con la ChatGPT su alcuni temi. Se dovrà sostituirmi, tanto vale sapere come accadrà. Si è dimostrata cortese, conosceva addirittura i miei libri anche se con qualche lacuna (la città in cui è ambientato “Il mostro di Armendáriz” è Lima e non Buenos Aires, per esempio e la trama de “Il segreto di Julia” era un poco distorta). Le ho chiesto se sarebbe stata d’accordo a scrivere un manoscritto con me e la sua risposta è stata: “con piacere. Sono qui per aiutarti in tutto ciò che concerne la scrittura”. E come? “Ti posso aiutare a scegliere un tema, a darti consigli sulla struttura e su come migliorare il tuo stile, e alla fine indicarti come trovare un editore”. Quale genere dovremmo trattare? “Il noir, la fantascienza, il fantasy e i romanzi d’amore sono i più indicati”. Benissimo e quindi come procediamo? “Devi creare personaggi interessanti e credibili, che giungano al cuore dei lettori. Chi legge ha bisogno di creare un rapporto emotivo con la storia e i personaggi”. Ah benissimo, le emozioni. Mi puoi aiutare a crearle? “Mi dispiace, ma non posseggo emozioni come gli esseri umani. A questo ci devi pensare tu. È un compito per lo scrittore. Devi, come ti dicevo, creare personaggi interessanti e sviluppare delle trame appassionanti in maniera da trasmettere sentimenti autentici grazie ai quali i lettori si emozionino con la tua storia”. Quindi, devo lavorare come sempre. Però mi puoi aiutare a sviluppare una storia avvincente? “Certo. Se hai una idea, fammela sapere. Io posso fare in modo di renderla emozionante e ben scritta”. Migliorare lo stile, insomma. Pensavo di scrivere più o meno bene e non ricorrere per questo a una macchina. Però, buono a sapersi. Pensiamo alla grana allora: mi puoi garantire il successo economico? “Il successo di un progetto letterario dipende da molti fattori, tra cui la qualità del testo, l’originalità della storia, la concorrenza nel mercato editoriale e la risposta dei lettori”.

Trama, stile, struttura. Cose che dovrebbe saper fare uno scrittore e invece, dalle sue repliche alle mie domande, era come se ChatGPT non vedesse l’ora di mettersi all’opera. Io, invece, avevo solo voglia di fare un paio di chiacchiere. Allora, ho continuato, quale sarà la funzione dello scrittore nel futuro? “Le storie e la narrativa create dall’uomo probabilmente non scompariranno, per cui gli scrittori saranno sempre necessari per la realizzazione di romanzi, racconti, copioni e altri lavori di intelletto”. Probabilmente non scompariranno, ha detto. A volte, il valore di un avverbio è determinante. Non mi restava che un’ultima domanda: un giorno mi sostituirai? “La scrittura è un’abilità umana complessa che implica non solo generare parole, ma anche la creazione di significati e di contesto. L’intelligenza artificiale è avanzata molto negli ultimi anni, ma non è ancora arrivata al punto di sostituire completamente uno scrittore”.

La macchina ha usato “ancora”: non è ancora arrivata, di nuovo un avverbio inquietante. Ergo, sarà solo una questione di tempo. Secondo uno studio dell’università di Oxford il 2049 sarà chiave: in quell’anno, infatti, l’I.A. sarà in grado di scrivere e pubblicare il suo primo best seller. Per mia fortuna, sarò morto.

sabato 7 gennaio 2023

Mafia e mercato, combinazione vincente

Joseph Iannuzzi, mafioso di lungo corso, legato alla famiglia Gambino, durante le lunghe giornate trascorse nel programma di protezione ai testimoni si dilettava a cucinare. Lo faceva per sè, per la scorta e per gli agenti dell’FBI che si presentavano a interrogarlo. Da quell’esperienza nacque “The Mafia Cookbook”, libro di ricette della mafia, che grazie al titolo esplicito e alla storia che girava intorno a Iannuzzi, vendette molto bene, tanto da essere ancora adesso, dopo trent’anni, ripubblicato. Morale di questa storia corta: la mafia vende. Brutto da dire, ma è così. Ci sono, in giro per il mondo, ristoranti, film, pizzerie, prodotti alimentari che fanno un costante riferimento alla mafia, riportando ottimi affari. Si tratta di un fenomeno prettamente italiano che celebra la criminalità organizzata come fosse un riconoscimento del genio nostrano. Non lo fanno gli altri popoli che eppure tra cartelli, yakuza, maras, triadi e fratellanze avrebbero dove attingere, ma lo facciamo noi come se si trattasse di un carattere distintivo del nostro carattere. La mafia scioglie nell’acido i bambini, fa saltare in aria i magistrati, ma cosa volete che sia se quella parolina magica mi fa vendere qualche pizza in più?

Ci muoviamo su due territori di sabbie mobili. Il primo dove la parola viene banalizzata. La mafia viene intesa come normalità, come un  convenzionale fenomeno di costume a cui, tra una carbonara e una pizza margherita, si rimuove la drammaticità. La mafia va intesa e giudicata per cio che è, criminalità allo stato puro, non ne possiamo svuotare il concetto per offrirle un salvacondotto e renderla accettabile. Eppure, è quello che succede ogni volta che i “Burger Mafia” o la “Al Capone pizza” vengono proposti al pubblico. Esemplare la sentenza del Tribunale dell’Unione europea contro “La mafia se sienta a la mesa”, una catena di ristoranti spagnoli: l’espressione “si siede a tavola” evoca convivialità e quindi dà un’immagine positiva di chi, invece, è manifestazione del male. Purtroppo, la sentenza non ha fermato la catena, che al giorno d’oggi vanta più di quaranta locali in Spagna e continua fare soldi a palate in barba alle centinaia di vittime della mafia.


Il secondo territorio è quello dove si celebra uno stereotipo che accomuna gli italiani a una delle loro peggiori espressioni come popolo. Da quando il film “Il Padrino” ha esposto le vicissitudini di una saga familiare criminale, è nato un genere di successo, che ha riproposto più e più volte negli anni le stesse situazioni, riducendosi perfino a episodi di macchiette da commedia leggera. La combinazione “italiano-mafioso” spopola all’estero, risibile e innocua all’apparenza, ma che in realtà in certi casi denigra e in altri detona inaspettati gradi di seduzione. È l’effetto del marchio, che perpetuiamo volontariamente e che poi sopportiamo con rassegnazione.

A causa della nostra volontaria strategia di mercato siamo riusciti a esportare la parola “mafia” in tutto il mondo, al punto da farla entrare nei vocabolari di ben 45 lingue differenti, più di quanto siano popolari “cappuccino” o “paparazzo”. Insomma, la combinazione è vincente e non ce ne vergogniamo nemmeno un po’.


mercoledì 21 settembre 2022

Il pomodoro, dolce veleno della cucina italiana

Senza pomodoro non si fa la pizza. Senza pomodoro non si fa il sugo per la pasta e nemmeno si può preparare una caprese. Insomma, senza pomodoro, la cucina italiana sarebbe un po’ persa o, quanto meno, irriconoscibile. Presente dalle Ande al Messico, probabilmente coltivato dagli aztechi, da cui prende il nome (xictomatl e in alcuni paesi dell’area centroamericana viene ancora indicato come “chiltoma”) il pomodoro sbarca a Siviglia a metà del XVI secolo. Eppure, non fa il botto. Quel frutto di color giallo (ed ecco perché gli italiani lo chiamano da subito pomo di oro) viene ritenuto pericoloso e potenzialmente velenoso, per la presenza di un alcaloide, la tomatina, e usato quindi solo a scopi ornamentali.

A differenza di quanto si possa pensare, la diffusione dei prodotti provenienti dall’America fu abbastanza lenta in Europa. La patata, il pomodoro, il mais, il peperone, i fagioli –per citare i più popolari- furono considerati per lungo tempo delle stramberie esotiche. Il parere negativo (“pianta dal sapore puzzolente e dalle foglie tossiche”) formulato dal botanico inglese John Gerard autore del trattato “Herball” (1597) fu decisivo per bandire il pomodoro dalle tavole inglesi e nordeuropee per lunghissimo tempo. Questo rifiuto rimase radicato anche negli Stati Uniti e fino al XIX secolo, se si pensa che un filosofo e saggista di fama come Ralph Waldo Emerson reputava il pomodoro “un oggetto orripilante e velenoso”. Gli italiani furono più benevoli. Castore Durante, botanico umbro, già nel 1585 nel suo “Herbario nuovo” scriveva che i pomodori si mangiano come le melanzane, ossia “con pepe, sale e olio” anche se, aggiungeva, “danno poco o cattivo nutrimento”.

È Antonio Latini, cuoco nel vicereame di Napoli, a vincere ogni diffidenza e  a deliziare per la prima volta i commensali con la “salsa di pomodoro alla spagnola”. Siamo nel 1694 (più di duecento anni dopo la spedizione di Colombo) e nel suo trattato “Lo scalco alla moderna”, Latini scrive: "Piglierai una mezza dozzina di pomadoro, che sieno mature; le porrai sopra la brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v'aggiungerai Cipolle tritate minute, a discretione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo, o Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l'accomoderai con un po' di Sale, Oglio, e Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, o per altro".

Mentre in Germania e nel Nord Europa si continua a pensare che il pomodoro possa trasformare le persone in lupi mannari, in Italia si inizia a coltivarlo e a servirlo in tavola. Il primo riferimento ufficiale dell’uso del pomodoro in cucina si deve al trattato “Il cuoco galante” (1778), che presentava le ricette del napoletano Vincenzo Corrado che a corte coglie le potenzialità gastronomiche di questo prodotto, cominciando ad aggregarlo alla carne, al pesce, alle uova e, ovviamente alla pasta. Ciononostante, il pomodoro continua a essere considerato, nelle tavole degli aristocratici e dei borghesi, una trovata eccentrica. A renderlo popolare ci penserà la gente comune, la stessa che a Palermo sopravvive grazie agli avanzi della cucina dei nobili (creando stigghiola, mievusa e quarume) e che a Genova, da ingredienti di scarto –come i pinoli e il basilico- si inventa il pesto. Nel 1839, nel ricettario di Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, appare la prima ricetta ufficiale dei vermicelli al pomodoro, che mette per scritto la pratica quotidiana già da tempo consolidata del popolino napoletano, di cuocere i maccheroni per strada e condirli con il sugo di pomodoro. A ridosso del 1830 diventa popolare come ingrediente anche nella pizza, la cui fama comincia a diffondersi nelle “stanze”, le prime pizzerie. Ci penseranno i nostri immigrati a insegnare al mondo che il pomodoro non è un veleno, portando pizza e pasta un po’ ovunque.   


Le città italiane, luna park del turismo

Il comune di Venezia ha annunciato che, a partire da aprile fino a luglio, in certe date stabilite –ventinove in tutto- sarà necessario paga...